Come proteggere l’interesse italiano in Europa

Lettera al Premier – di Francesco Giavazzi, Lucrezia Reichlin e Luigi Zingales
Testo della lettera pubblicato il 23.06.2018 sul Corriere della Sera 

Signor Presidente del Consiglio,

le dichiarazioni rilasciate a Meseberg dal presidente francese Emmanuel Macron e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel sono un segno importante della volontà dei due maggiori Paesi della eurozona di riformare l’Unione monetaria. Se ne discute da anni, proposte diverse sono pervenute da parte di esperti e di istituzioni federali, ma per la prima volta l’iniziativa è stata presa da capi di Stato eletti e questa la rende più credibile.
La trattativa che si svolgerà durante l’incontro dei capi di governo la prossima settimana è quindi un momento da non sottovalutare e a cui l’Italia deve partecipare con una strategia chiara.
Le inviamo questa lettera aperta per condividere con Lei il nostro pensiero su quali debbano essere le linee di fondo che dovrebbero ispirarLa. Scriviamo insieme pur avendo nel passato espresso posizioni diverse sui benefici dell’euro, ma proprio per sottolineare ciò su cui si può trovare una linea unitaria nell’interesse dell’Italia in un’occasione che può essere una opportunità, ma che comporta anche rischi.
Ci limitiamo a parlare della parte della proposta che riguarda i problemi economici perché è su questi che ci riteniamo più competenti.
Innanzitutto apprezziamo l’impegno del Suo governo sulla partecipazione dell’Italia all’Unione monetaria, ma — data la comunicazione a volte contraddittoria di alcuni membri della coalizione — La sollecitiamo a chiarire ogni dubbio onde evitare di minare la nostra efficacia nella trattativa.
A fronte di un impegno non ambiguo dell’Italia a re stare nell’euro deve esservi un analogo impegno del governo tedesco a opporsi a chi oggi in Germania solleva questioni sul saldo delle partite tra banche centrali, altrimenti noto come Target 2. Finché l’euro esiste, tale saldo non rappresenta in alcun modo un debito dell’Italia. Qualsiasi discussione su un possibile limite alla dimensione di questo saldo corrisponde a una richiesta di escludere l’Italia dall’Unione monetaria e in quanto tale è destabilizzante, sia dal punto di vista economico che politico.
Comprendiamo chi ha criticato elementi della proposta franco-tedesca ma La invitiamo a non esprimere un parere negativo e accogliere invece gli elementi di progresso, insistendo sui punti che per noi sono cruciali. Con questa premessa veniamo alla sostanza della proposta.

1. Bilancio dell’eurozona
È la prima volta che si propone un bilancio comune per gli investimenti, la convergenza e la stabilizzazione nell’area dell’euro. Per quanto riguarda gli investimenti si va oltre al piano Juncker. Si afferma per la prima volta la necessità di un meccanismo comune che serva a trasferire temporaneamente risorse a quei Paesi che hanno subito impatti ciclici più negativi di altri. Non è chiaro quale sarà la dimensione di questo bilancio, ma il principio è positivo e va sostenuto. I dettagli su come finanziare questo strumento sono da definire. L’Italia deve affermare il principio che nel disegnare questo bilancio comune sia necessario riconoscere che la stabilizzazione e la convergenza si devono ottenere non solo allocando la spesa, ma anche allocando in modo diverso i contributi. Per mantenere un livello di inflazione più omogeneo nell’area euro è necessario che le economie in espansione contribuiscano con maggiori fondi rispetto alle economie in recessione. Se nel 2005 la Spagna avesse contribuito in modo più che proporzionale a sostenere la disoccupazione tedesca, non ne avrebbe beneficiato solo la Germania, ma la Spagna stessa, perché avrebbe ridotto l’eccessivo aumento dei prezzi, che poi ha dovuto correggere con una pesante recessione. Su questo l’Italia deve insistere.

2. Assicurazione comune alla disoccupazione
Un’assicurazione comune alla disoccupazione è una novità che introduce il principio della condivisione del rischio ciclico e va sostenuta. Rimangono comunque da chiarire dettagli e dimensioni del programma.

3. Fondo di stabilità
Qui ci sono progressi ma anche insidie.
i. Un passo avanti importante è la proposta di cambiare le regole che governano il fondo, un passo che contempla un cambiamento del Trattato ad hoc che lo ha istituito. Si propone di abbandonare una gestione intergovernativa, soggetta alla regola dell’unanimità incorporando il fondo nei Trattati europei. La possibilità di un veto tedesco rimarrà — ma anche l’Italia ha un diritto di veto — ma non ci sarà più bisogno dell’unanimità, condizione essenziale per la sua credibilità;
ii. Si contempla la possibilità di linee di credito precauzionali instaurando quindi il principio che bisogna attrezzarsi per poter aiutare un Paese prima che una crisi sia esplosa quando è spesso troppo tardi. Il credito si erogherebbe previa valutazione della sostenibilità delle politiche del Paese in questione, ma senza richiedere un vero e proprio programma. Anche questa proposta va accolta positivamente;
iii. Si propone di introdurre maggiore trasparenza nell’analisi di sostenibilità del debito. Anche qui dobbiamo difendere il principio per evitare fenomeni, come quelli accaduti in Grecia del 2010, dove gli Stati membri pagano per gli errori delle banche. Tuttavia, è cruciale affermare il principio che i criteri di sostenibilità del debito devono basarsi su variabili storiche (per esempio il saldo di bilancio primario degli ultimi anni) e non prospettiche, per evitare che una paura del mercato si trasformi in una condanna, come successe all’Italia nel 2011. Questo è l’aspetto più insidioso dove l’Italia deve fare valere il suo punto di vista.

4. Unione bancaria e dei mercati dei capitali
Sulle banche la proposta è al di sotto delle aspettative. Si afferma la volontà di far sì che l’Esm (il Meccanismo europeo di stabilità) possa erogare una linea di credito che alimenti il fondo di ricapitalizzazione delle banche («backstop»), ma si condiziona l’introduzione di questo strumento ad una sostanziale riduzione del rischio delle banche in termini di crediti deteriorati ed altri criteri che non si specificano chiaramente. Si nega quindi il principio che riduzione e condivisione del rischio debbano procedere insieme e si propone invece di procedere in sequenza: riduzione del rischio prima, condivisione dopo. La proposta rimane inoltre molto vaga sui tempi dell’introduzione di un’assicurazione comune ai depositi bancari e sulle condizioni necessarie ad introdurre il fondo di ricapitalizzazione. Chiaramente l’accordo per completare l’Unione bancaria in tempi brevi non c’è e si rimanda l’analisi a tavoli tecnici. L’Italia deve esprimere un parere critico ma adoperarsi per migliorare la proposta sui tavoli in cui verrà discussa.

Queste le linee principali. Data la mancanza di dettagli su aspetti importanti della proposta, e l’invocazione di tavoli tecnici per metterli a punto, è importante che l’Italia partecipi al processo anche a livello tecnico per fare valere i suoi diritti e che non si deleghino discussione e trattativa alla Francia e alla Germania.
È un primo passo, certamente ancora incompleto, per migliorare il funzionamento dell’eurozona e dotarla degli strumenti necessari ad affrontare una crisi. Ma è un passo avanti dopo sei anni in cui i progressi sono stati pressoché inesistenti. Anche il fatto che di questa proposta si discuta non nel mezzo di una grave crisi, come è avvenuto in passato, è un segnale importante. E cruciale, quindi, per l’Italia entrare attivamente e in modo costruttivo nel negoziato politico e tecnico della prossima settimana, e in quelli che seguiranno.
Lo sguardo è oggi giustamente rivolto al grande tema delle migrazioni, ma il processo di costruzione europea sta segnando passi che per il nostro Paese sono altrettanto importanti.

Un’assicurazione comune contro la disoccupazione per salvare l’Unione Europea

Testo dell’articolo pubblicato l’11.09.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”. 

L’influenza che Angela Merkel e la Germania hanno sulla politica europea non è dovuta solo alla dimensione del paese o alla sua forza economica, ma anche alla straordinaria capacità che i politici ed intellettuali tedeschi hanno di influenzare il dibattito europeo. Scelgono sempre di concentrare le loro battaglie su dei principi economici condivisibili. Poi martellano in tutte le sedi in modo compatto finché ottengono quello che vogliono, dal pareggio di bilancio al bail-in.

La loro determinazione non sarebbe un problema se gli altri paesi – il nostro in primis – facessero altrettanto. Ma non lo fanno. E i politici tedeschi sono molto accorti nella scelta dei principi da sostenere: prediligono solo quelli che sono nel loro stretto interesse nazionale, dimenticandosi degli altri. Ad esempio, si parla poco della mancata implementazione dell’assicurazione comune sui depositi bancari, decisa nel 2012: non è nell’interesse della Germania.

Ma il caso più eclatante è quello della politica fiscale. Qualsiasi economista degno di questo nome riconoscerà che una moneta comune non è sostenibile senza una qualche forma di politica fiscale comune. Eppure dopo 17 anni di moneta comune i passi in avanti su questo fronte sono stati minimi, per non dire nulli. Per anni i nostri governi hanno inutilmente reclamato l’introduzione degli eurobond.  Perché mai i tedeschi dovrebbero accettare di condividere i debiti altrui? Dalla loro non hanno solo l’interesse nazionale, ma anche il principio: la condivisione dei debiti spingerebbe le cicale italiane a contrarre ulteriori debiti. E come dare loro torto?

Per prevalere intellettualmente, bisogna spingere su una forma di politica fiscale che non sia un trasferimento unidirezionale di risorse dalla Germania al Sud Europa e che non distorca gli incentivi dei governi a comportarsi in modo virtuoso. Questa politica esiste: è un’assicurazione europea contro la componente ciclica della disoccupazione. Non si tratta di un trasferimento unidirezionale: nel 2005 la disoccupazione era molto più alta in Germania che in Spagna ed Italia, e quindi il trasferimento sarebbe andato dal Sud al Nord. Disegnando il trasferimento in funzione della componente ciclica della disoccupazione, questa assicurazione non solo non distorce gli incentivi dei governi, ma li migliora: i governi che abbassano la componente strutturale della disoccupazione ricevono più trasferimenti durante una crisi.  Infine, aiuta i governi a mantenere la disciplina fiscale: riducendo la necessità di deficit di bilancio quando uno shock negativo colpisce un Paese.

Proprio per questo dobbiamo rallegrarci dell’iniziativa del nostro Ministero delle Economia, che ha pubblicato sul suo sito una proposta di assicurazione europea per la disoccupazione. Sono poche pagine che illustrano come un’assicurazione comune avrebbe un costo relativamente limitato (50 miliardi all’anno) e genererebbe trasferimenti non unidirezionali.  La proposta prende anche posizione su alcuni nodi cruciali, come l’amministrazione comune di questa assicurazione, scelta che dovrebbe tranquillizzare i paesi nordici dal rischio di abusi.

Al momento, però, si tratta di un timido sforzo, sia dal punto di vista intellettuale che politico. Fintantoché il governo italiano è isolato in questo sforzo, non ha possibilità di riuscita. E fintantoché concentra tutti i propri sforzi nell’elemosinare decimali di “flessibilità” sul deficit, non ha l’autorità politica e morale per creare una coalizione a sostegno di questa idea.  È necessario il massimo impegno a tutti i livelli per fare di questa proposta la bandiera della nuova Europa, non tanto e solo per il benessere dell’Italia, ma per quello dell’Europa intera. Senza una politica fiscale comune, la moneta comune non ha futuro. Ben lo sapevano i fondatori, ma confidavano che – con il tempo – questa politica fiscale comune sarebbe emersa. Dopo 17 anni la fiducia non basta più. Bisogna passare ora dalle buone intenzioni alle azioni. Domani potrebbe essere troppo tardi.


Qui di seguito i link ai precedenti articoli della Rubrica “Alla Luce del Sole”: 

– Quale soluzione per il Monte Paschi?
– Crisi bancarie, chi non impara dalla storia le ripete
– Quel «tesoretto» della bad bank del Banco di Napoli
– Quante sofferenze si nascondono negli “incagli”?
– Cosa Insegnano ad Atlante le Sofferenze del Banco di Napoli 
– Le Operazioni di Sistema sono Aiuti di Stato?
– Aguzzate la vista
L’azione di responsabilità è fondamentale per ricostruire la fiducia nelle banche Italiane
Deutsche Bank e Monte Paschi: similitudini e differenze
– Salvare le banche per far ripartire l’economia
– L’importanza di un Buon Piano di Successione e il Ruolo del Consiglio di Amministrazione 
Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia
– Cosa fare per evitare che il “decreto banche” diventi solo un regalo alle banche
– Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori
– Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi 
– Le Responsabilità della Consob sulle Obbligazioni Subordinate
– Gli stipendi degli AD e quei paracadute troppo grandi

Banche: ogni mese in cui ritardiamo l’intervento sistemico è un mese di crescita buttato via (intervista)

Intervista a cura di Fabrizio Patti, pubblicata il 31.08.2016 su linkiesta.it

Siamo ancora a rischio di implosione. Luigi Zingales, economista all’Università Chicago Booth, non usa giri di parole. Si augura che l’operazione di salvataggio di Mps, attraverso l’acquisto di Npl da parte del fondo Atlante 2, e poi attraverso una nuova ricapitalizzazione, finisca per avere successo. Ma i dubbi rimangono. Tanto che resta una convinzione: sarebbe stato meglio percorrere la via di un intervento diretto dello Stato nelle banche, a costo di andare incontro alla tutela dell’ex Troika. Che, più di danni al Paese, “farebbe pulizia nelle banche”.

Professore, l’operazione di salvataggio di Mps è partita, ma è difficie. Si dovranno vendere sofferenze per 9 miliardi, di cui sei miliardi da collocare sul mercato con garanzia dello Stato, mentre Atlante 2 metterà sul piatto 1,6 miliardi. Poi bisognerà trovare i sottoscrittori di un aumento di capitale (sceso, secondo anticipazioni, da 5 a 3 miliardi di euro, ndr). La stampa economica nelle ultime settimane ha dato notizie positive sia riguardo al coinvolgimento di numerose banche nel consorzio di garanzia nell’aumento di capitale di Mps sia riguardo alla raccolta di fondi da parte di Atlante 2. Siamo di fronte a una svolta per la vicenda Mps o c’è un eccesso di ottimismo?
Io mi auguro che l’operazione riesca, perché se non riuscisse sarebbe una situazione molto destabilizzante. Io continuo ad avere dei dubbi, in particolar modo sulla volontà degli azionisti di entrare e mettere altri miliardi di euro, dopo quelli che sono stati buttati via con i precedenti aumenti di capitale. Il secondo dubbio riguarda le cosiddette sofferenze. Ricordiamoci che negli altri Paesi esiste un termine, non performing loans, ossia crediti deteriorati, che include sia le sofferenze sia quelli che una volta chiamavamo incagli e che oggi si chiamano inadempienze probabili o unlikely to pay. L’operazione Atlante 2 ha semplicemente sottratto dal bilancio di Mps le sofferenze definite in maniera ristretta. Rimane questa componente di inadempienze probabili: è grossa ed è valutata ancora ancora con numeri ottimistici. Il grosso rischio è che si nasconda un altro buco. Sarebbe devastante. Mi auguro che questi aspetti siano stati valutati seriamente e che l’operazione vada in porto. Dal mio punto di vista i rischi rimangono.

Quanto questa operazione si può definire “di mercato”, come ha fatto Padoan?
Bisogna vedere cosa si intende per “di mercato”. Ricordiamo il caso di Long Capital Management. Quando stava per fallire, la Federal Reserve chiuse in una stanza tutte le investment bank finché non si trovò una soluzione. Il giorno dopo Alan Greenspan (ex presidente della Fed, ndr) abbassò il tasso di sconto. Lei la chiama un’operazione di mercato? Io la chiamo operazione di sistema. Sicuramente non è una soluzione spontanea del mercato. Se lo fosse stata, non si capisce perché il presidente del Consiglio avrebbe dovuto incontrare tutte queste persone con tanta solerzia.

Qual è il rischio di queste operazioni, in termini di trasparenza?
Certamente ogni volta che il presidente del Consiglio si incontra con qualcuno, riguardo a un’operazione cosiddetta di mercato, c’è il rischio che ci siano delle assicurazioni, degli accordi, non chiaramente trasparenti. Il modo migliore è che il governo non si metta proprio in mezzo.

«Ogni mese in cui ritardiamo l’intervento sistemico, è un mese di crescita buttatO via. A questo si aggiunge il rischio che la questione scappi di mano. Finora si è intervenuti all’ultimo giorno dell’ultima ora. A me sembra che si scherzi col fuoco»

È auspicabile che dopo Mps Atlante 2 intervenga anche sulle sofferenze di Vicenza e Veneto Banca, come abbiamo letto nei giorni scorsi?
Non è proprio un fatto banale. Da quello che mi risulta, le sofferenze delle due banche venete sono in bilancio a 45 centesimi per euro di valore nominale. Ricordiamo che la junior tranche che si sono ripresi gli azionisti di Mps è stata valutata zero e che le sofferenze di Mps sono state valutate 27 centesimi. Da 27 a 45 c’è un gap molto forte. Non so esattamente come intendano coprire questo gap.

Lei a luglio ha propugnato una soluzione diversa, con intervento diretto dello Stato nel capitale delle banche, sul modello del Tarp americano. Se la soluzione “di sistema” fallisse, sarebbe troppo tardi per un intervento come quello che lei ha proposto?
Ci sono due problemi. Il primo è che in questa fase di incertezza le banche continuano a non prestare e l’economia a non crescere. Ogni mese in cui ritardiamo l’intervento sistemico, è un mese di crescita buttato via. A questo si aggiunge il rischio che la questione scappi di mano. Finora si è intervenuti all’ultimo giorno dell’ultima ora e per fortuna c’è stata una calma notevole, gli italiani sono stati maturi non facendo una corsa agli sportelli. Non so fino a che punto possiamo giocare con la fortuna. A me sembra che si scherzi col fuoco.

Domanda del popolo: in sintesi, quando torneremo a poter avere dei mutui in banca per attività di impresa in una situazione di normalità?
È esattamente il punto a cui accennavo. Bisogna risolvere la crisi in una maniera radicale e sistemica. Finora si è scelto di farlo attraverso delle pezze e queste non cambiano la situazione. Nel momento in cui si cambierà pagina, le banche ricominceranno a dare i mutui. Oggi le banche ricapitalizzate sono ansiose di prestare i soldi, perché li prendono a prezzo zero, se le tengono alla Bce costa loro soldi, ci sono tutte le condizioni per prestare. Quello che manca è il capitale. Quindi la ricapitalizzazione diventa l’elemento essenziale perché questa politica monetaria abbia un effetto.

«Se il modello [di intervento della Troika] è quello della Spagna, mi sembra un modello di grande successo. Oggi la Spagna cresce a ritmi invidiabili. Se quello è il prezzo da pagare ben venga»

In caso di intervento pubblico (stile Tarp) lei ha ipotizzato che tale intervento seguisse due strade. La prima è l’intervento della Cdp come acquirente delle azioni delle banche. La seconda, è l’intervento dell’Europa. Dovremmo quindi affidarci alla ex Troika?
Sì.

Quale sarebbe il costo politico? Ci dobbiamo aspettare un intervento come quello che abbiamo visto da parte della Troika, se non in Grecia almeno in Spagna o in Irlanda?
Se il modello è quello della Spagna, mi sembra un modello di successo. Oggi la Spagna cresce a ritmi invidiabili. Se quello è il prezzo da pagare ben venga.

Quali misure sarebbero imposte all’Italia a suo parere?
Se io fossi dalla parte del Fmi, quello che chiederei come condizione sarebbe una pulizia dei vertici delle varie banche. Cosa che in parte si sta facendo, in parte non si sta facendo. Sicuramente il costo sarebbe elevato per i banchieri, non penso sarebbe elevato per il Paese.

Pensa che la riforma del lavoro e delle pensioni, che abbiamo già fatto, eviterebbe che fossero chieste altre riforme strutturali?
Se le riforme strutturali facessero migliorare il processo di collocamento, sarebbero benvenute. Lo possiamo fare anche senza il bisogno della Troika, non mi sembra che sia una tragedia. Inoltre il Fmi ultimamente si è dimostrato molto più aperto della Germania, ben venga quindi un Fondo monetario internazionale che ci supervisioni.

«Nel lungo periodo l’unione monetaria non funziona se non c’è una qualche forma di redistribuzione fiscale. Allora, discutiamo di quale forma ma non se questa redistribuzione fiscale debba esistere. A me sembra che la via meno coinvolgente e la meno politicamente difficile sia quella di avere una assicurazione comune sulla disoccupazione» 

A proposito di Europa, lei in un recente articolo sembra aver sposato, almeno sul piano della teoria economica, l’idea di un euro a due velocità. I vertici a cui ha partecipato Angela Merkel nelle scorse settimane, uno a Ventotene con Italia e Francia e uno a Varsavia con Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, hanno dato l’idea di un’Europa che potrà trovare dei compromessi o un’Europa destinata sempre più a dividersi in due?
Merkel è molto brava a gestire l’esistente. Ma guardiamo la prospettiva di lungo periodo. Nel lungo periodo l’unione monetaria non funziona se non c’è una qualche forma di redistribuzione fiscale. Allora, discutiamo di quale forma ma non se questa redistribuzione fiscale debba esistere. Se mettiamo in dubbio che esista, mettiamo in dubbio la moneta unica. A me sembra che la via meno coinvolgente e la meno politicamente difficile sia quella di avere una assicurazione comune sulla disoccupazione. Se la Germania non vuole questa misura, ci dica cosa vuole. Se la risposta è “nulla”, allora dobbiamo trarne le conseguenze.

Un’Italia in un euro di seconda fascia avrebbe solo vantaggi, considerata la sua grande diversità interna tra Nord e Sud? 
Dunque: che la flessibilità dei cambi abbia dei vantaggi non c’è dubbio. Il problema vero è duplice. Il primo è che abbiamo dato via questa flessibilità per avere dei tassi di interesse più bassi sul debito. Quindi dobbiamo porci la domanda di cosa succederebbe al costo al debito, una volta ottenuta la flessibilità dei cambi. Il secondo è che se domani l’Italia uscisse in maniera unilaterale dall’euro sarebbe una catastrofe. Quindi l’idea dei due euro, che ho proposto già nel 2010, è un modo più soft per uscire dall’euro senza creare un patatrac. Ma questo richiede la compartecipazione della Germania. Un divorzio consensuale fa sempre meno danni di uno unilaterale.

La garanzia unica sui depositi potrebbe essere un modo per integrare maggiormente l’economia europea. Come sappiamo, però, la Germania intende rimandarla, per mancanza di fiducia di Paesi che tendono a creare problemi di stabilità come l’Italia. La Germania dovrebbe rischiare di più su questo fronte?
Date le condizioni a cui questa garanzia è stata introdotta, il rischio è minimo. In più la Germania si era impegnato a farlo nel 2012. Quindi sta rinnegando la promessa.

Ma l’Italia dovrebbe prendere in considerazione misure come l’abbassamento della quota di titoli di Stato detenuti dalle banche italiane, chiesto da Jens Weidmann, il governatore della Bundesbank?
No. I tedeschi usano un argomento che ha una validità. Il problema è che questa non è una novità. C’era anche nel momento in cui hanno firmato un accordo che prevedeva l’unione bancaria. Il fatto che lo tirino fuori dopo ricorda la storia di Bertoldo: condannato a morte per impiccagione, chiede come ultimo desiderio di scegliere l’albero a cui farsi impiccare. Naturalmente non trova mai quello giusto. Se uno non vuole una cosa trova sempre delle scuse. Questo mi pare sia l’atteggiamento tedesco: ha delle scuse anche ragionevoli, ma c’è di fondo una non volontà di una condivisione del rischio. Quello che farei io, come Italia, sarebbe di dire: “Non volete l’unione bancaria? Benissimo, facciamo l’assicurazione sulla disoccupazione”, che per me è più importante ancora.

Ci vorrebbe un trattato ad hoc.
Certamente. Ricordiamoci quello che disse Prodi nel 2001: “Per come è stato creato, l’euro non è sostenibile. Verrà una crisi e da questa crisi nasceranno le istituzioni politiche per sostenerlo”. Se però non le facciamo nascere, perché diciamo che non sono nei trattati, dobbiamo dichiarare che l’euro è morto.

«Ricordiamoci quello che disse Prodi nel 2001: “Per come è stato creato, l’euro non è sostenibile. Verrà una crisi e da questa crisi nasceranno le istituzioni politiche per sostenerlo”» 

Torniamo in Italia. Dopo il terremoto è stato detto molte volte che la prevenzione sismica sarebbe la grande opera che serve all’Italia. È un ragionamento che la convince?
Che l’Italia debba investire moltissimo nel patrimonio, sia di arte che naturale che ha disposizione, è condivisibile. Il problema è come investire. Guardiamo la scuola di Amatrice, dove abbiamo fatto un intervento pochi anni fa e non è servito a nulla. Ritorniamo a uno dei problemi fondamentali dell’italia: come fare della spesa in maniera seria e non corrotta.

Prima del terremoto si erano già sprecate le indiscrezioni sulla manovra 2017. Ci sono state uscite da parte degli esponenti del governo, che si sono anche divisi. Il sottosegretario Zanetti ha detto che il governo avrebbe puntato tutto sulle misure per far crescere gli investimenti e altri come il ministro del Lavoro Poletti che le misure per investimenti e per le fasce deboli della popolazione non possono andare divise. Come la vede?
Le due cose sono sicuramente legate. Il rischio maggiore è che stimolare i consumi significa stimolare i consumi di prodotti stranieri senza stimolare la crescita italiana. La difficoltà è che però stimolare gli investimenti non è facile. Il modo migliore sarebbe quello di ridurre in maniera credibile la tassazione sulle imprese in Italia. Questa è l’unica cosa che si possa fare per aumentare gli investimenti.

«Per aumentare gli investimenti in Italia c’è bisogno di rendere più attraente il fare business in Italia. Il modo migliore per farlo è ridurre l’imposizione sulle società»
Una delle misure di cui si è discusso, sul lato dei consumi, riguardava una quattordicesima per i pensionati. È possibile immaginare una manovra che prescinda da interventi simili che agiscono sul lato dei consumi?
La cosa importante è che qualsiasi cosa venga fatta sia un intervento permanente e non transitorio. La gente è più furba dei governi: se c’è un aumento una tantum, si rende conto che è così e non spende. Lo stesso vale per i sussidi alle imprese: le riduzioni temporanee valgono il tempo che trovano. Bisogna trovare una formula che abbia una sua credibilità nel lungo periodo.

L’Italia vorrebbe fare una manovra da 25-30 miliardi, chiedendo di sforare il deficit. Fa bene o male l’Italia a chiedere di superare i limiti del fiscal compact in questa fase? È una strada corretta o siamo in una fase in cui è il caso di tagliare in maniera più consistente la spesa pubblica?
Le due cose non sono in contraddizione. Se si riuscisse a ridurre gli sprechi della spesa pubblica e ad abbassare le imposte in maniera permanente, questa sarebbe la soluzione ideale. Come raggiungerla? Sappiamo che tagliare la spesa non è facile. Vuol dire tagliare degli interessi molto forti. E tanto più la spesa è improduttiva, tanto più sono forti questi interessi, perché la spesa completamente sprecata è quella che diventa una rendita per chi la riceve. Politicamente è difficile fare tutto questo. A me pareva che inizialmente Renzi avesse avuto un’ottima idea, che era quella di ridurre le imposte a una sola categoria, con i famosi 80 euro, e poi tagliare la spesa improduttiva per rendere permanente questo cambio. Mi pare che il taglio di spesa non sia seguito. C’è comunque un secondo punto da ricordare.

Prego.
Per aumentare gli investimenti in Italia c’è bisogno di rendere più attraente il fare business in Italia. Il modo migliore per farlo è ridurre l’imposizione sulle società.

Luigi Zingales: “Ventotene, occasione persa per chiedere l’unione bancaria” (intervista)

Intervista a cura di Eugenio Occorsio pubblicata su La Repubblica il 24 Agosto 2016. 

“Se è vero che il vertice di Ventotene ha segnato l’inizio di una nuova epoca di cooperazione fra i tre principali Paesi rimasti nella Ue, allora l’Italia poteva mettere sul piatto i temi di fondo che la dividono dalla Germania, quelli dell’economia. Se non ora quando?”.

Luigi Zingales, economista della University of Chicago, ritiene che quella di Ventotene sia stata per molti versi un’occasione perduta per fare passi avanti davvero strutturali. Però proprio sull’economia c’è la novità più importante: la sofferta flessibilità per chiudere i conti, ora che la crescita è crollata a zero, sembra che ci verrà data.

“Allargare il deficit dà più margini di spesa al Governo, ma aggrava il problema del debito”

Cos’altro dovevamo chiedere? 
“L’allargamento del deficit è un fatto politicamente importante perché garantisce più soldi da spendere al governo Renzi, ma non risolve i nodi di fondo della nostra economia. Anzi, da un altro punto di vista è anche un aggravamento di questi problemi perché porterà a un aumento ulteriore del debito, il nodo insopportabile che ci soffoca ed è del tutto irrisolto. Invece andavano affrontati i nodi strutturali: fossi stato Renzi avrei rinfacciato alla Merkel l’intollerabile voltafaccia sull’unione bancaria, dove la Germania non vuole più creare un fondo comune di assicurazione dei depositanti che darebbe fiato alle banche italiane creando un clima meno teso”.

L’errore è lasciare alla Germania la determinazione dell’agenda europea.

La Merkel avrebbe risposto che prima va diminuito il peso del debito pubblico sui portafogli. 
“Certo, ma gli accordi erano diversi. L’assicurazione si deve fare, punto e basta. La questione dei buoni del Tesoro e del loro coefficiente di rischio sarà affrontata in altre sedi tecniche, da Basilea alla Bce, dove si cercherà di correggere la leggerezza fatta alla nascita dell’euro di considerare privo di rischio qualsiasi debito sovrano. L’errore di Renzi e dei leader europei è lasciare alla Germania la determinazione dell’agenda europea. Se si parla solo di flessibilità, le ragioni della Germania appaiono inoppugnabili: perché però non parlare del sussidio europeo di disoccupazione? Sarebbe difficile trovare motivi per opporsi, eppure quando c’è la Merkel di quest’ipotesi non bisogna neanche far cenno. Tra l’altro, il sussidio non è detto che beneficerebbe solo certi Paesi: nel 2005 c’erano più disoccupati in Germania che in Francia e Spagna. Il fatto è che Berlino ha imposto un’egemonia culturale, per cui certi temi non sono entrati nel trattato di Maastricht, né in nessuna agenda comune. L’Italia invece dovrebbe farsi coraggio e proporli. Altrettanto vale per tutte le altre voci di una politica di bilancio comune”.

Tipo gli eurobond? 
“Capisco la riluttanza tedesca: perché condividere i nostri debiti? Ma se Berlino non li vuole, faccia proposte alternative. È ora di farsi coraggio su questi punti altrimenti dove sta l’Europa, a cosa serve? Solo a farsi gite senza passaporto?”

Serve a iniziative come il piano Juncker, che infatti a Ventotene si è deciso di ampliare. 
“Qui c’è un altro problema tutto italiano: l’incapacità progettuale di tante opere cofinanziate, per non dire della corruzione che vi si annida, è ancora un ostacolo verso la piena utilizzazione di questi strumenti comunitari”.


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Pil e Debito, i mali dell’economia Italiana. Renzi cambi la sua politica in Europa (intervista)

Intervista a cura di Giuseppe Colombo, pubblicata su L’Huffington Post il 12.08.2016 

Pil fermo al palo e debito pubblico al nuovo massimo storico, ma i problemi che attanagliano l’economia italiana travalicano la dimensione nazionale: la partita si gioca in Europa. È lì che “il governo Renzi ha sbagliato perché avrebbe dovuto ridiscutere la nostra posizione piuttosto che preoccuparsi di ottenere margini di flessibilità”. L’economista Luigi Zingales, professore alla University of Chicago Booth School of Business, legge così, in un’intervista all’Huffington Post, i dati resi noti oggi dall’Istat e dalla Banca d’Italia.

L’economia italiana piange: crescita nulla e un debito pubblico che aumenta invece di calare. Come lo spiega?
“I dati sono chiaramente preoccupanti: quello più preoccupante è il calo dell’export. L’export negli anni della crisi è stata la componente della domanda che ha sostenuto la nostra economia. In una fase in cui l’euro era più debole del dollaro, ci saremmo aspetti un aumento dell’export, non una riduzione”.

Cosa manca?
“C’è una carenza di domanda a livello europeo. Assistiamo a una deflazione, a livello europeo, che non sembra essere stata risolta dal quantitative easing e dalla Bce. Mi sembra che la Bce abbia sparato tutte le cartucce e a questo punto siamo di fronte alla necessità di avere una politica fiscale europea. Qui casca l’asino però perché la politica fiscale non c’è perché non c’è un governo europeo”.

Leggendo i dati dell’Eurostat, l’Italia sta peggio rispetto a molti Paesi europei: Germania, ma anche Spagna.
“Il problema di fondo è che l’Italia è in crisi da vent’anni. La Spagna ha avuto una grande crescita negli anni 2000 e poi una grande crisi. L’Irlanda ha ripreso a crescere a ritmi straordinari. Il nostro problema non dipende dal fatto che al governo ci sia Berlusconi, piuttosto che Letta o Renzi. C’è un problema di fondo. Per esempio molti si sono appigliati al fatto che bastava aumentare la flessibilità del lavoro, ma si è fatto e la situazione non è cambiata”.

Cosa servirebbe all’economia italiana?
“Serve quella che io chiamo la flessibilità del capitale, cioè la flessibilità della capacità di spostare gli investimenti e i capitali da imprese che oggi sono marginali a imprese che sono più dinamiche. Serve una maggiore capacità di crescere, che significa anche tagliare i rami secchi. Questa dinamicità in Italia si è persa ed è un grande ostacolo per la crescita”.

Cosa aggiungerebbe alla ricetta per guarire il malato Italia?
“Una riduzione generalizzata del costo di fare impresa. Uno va in Austria e costa molto meno, costa molto meno anche in Slovenia. Perché i nostri imprenditori devono stare in Veneto quando possono andare in Slovenia e stare molto meglio?”.

Qual è la freccia che è mancata nell’arco di Renzi?
“Il governo Renzi avrebbe dovuto cercare di ridiscutere la nostra posizione in Europa. Noi siamo in una situazione insostenibile. Un’Unione monetaria non è sostenibile senza una qualche forma di ridistribuzione fiscale”.

Il governo italiano in cosa ha sbagliato?
“Fino ad ora il governo italiano si è più preoccupato di ottenere margini di flessibilità piuttosto che ridiscutere la situazione dall’inizio. La Germania non ci sente: non solo ha negato la promessa di fare una garanzia unica sui depositi, ma ha imposto nuove condizioni e quando si vogliono imporre nuove condizioni significa che le cose non si vogliono fare. A questo punto ci dicano loro cosa sono disponibili a fare: se la risposta è niente, allora la sopravvivenza dell’area euro è in bilico”.

Ma quando arriva la flessibilità del capitale? (pubblicato il 15 marzo 2015)

Articolo pubblicato il 15 Marzo 2015 su Il Sole 24 ore.
Della necessità della flessibilità del capitale ho scritto più volte. Nell’aprile 2016 l’ho inserita tra “I miei tre punti per l’Agenda per l’Italia“.

Negli anni Sessanta si pensava che lo sviluppo economico fosse legato interamente all’accumulazione del capitale. È questo il periodo della cattedrali nel deserto, dell’accumulazione forzata, dei sussidi al capitale.
Oggi sappiamo che l’accumulazione di capitale spiega meno del 20% della variazione del reddito pro capite tra Paesi e che, tranne per i paesi poveri (meno di $10,000 di reddito pro capite), non è difficile attrarre capitale dall’estero.

Negli anni Ottanta l’enfasi delle teorie economiche dello sviluppo si è spostato sul capitale umano. Questa enfasi si è tradotta in grandi sussidi alle Università. L’accumulazione di capitale umano, però, spiega solo il 30% della variazione del reddito pro capite tra Paesi. Cosa spiega il rimanente 50%? Come il capitale fisico e quello umano sono allocati all’interno di un Paese. Se imprese inefficienti hanno tanto capitale e imprese efficienti non riescono a raccoglierne abbastanza, la produttività media di un paese rimane bassa.


Il maggior problema dell’Italia non è la mancanza di flessibilità del lavoro, ma quella del capitale


Diventa quindi fondamentale la flessibilità di riallocare lavoro e capitale all’interno di un Paese. Finora tutta l’enfasi del dibattito italiano è stata sulla flessibilità del lavoro, da qui la lunga battaglia per l’abolizione dell’art 18. Ma è veramente così importante? Ho avuto la fortuna di vedere presentato ad Harvard un articolo* non ancora uscito che mette in dubbio questo assunto. Guardando alla riallocazione del lavoro e del capitale nei principali paesi europei durante la crisi, questo lavoro dimostra che il maggior problema dell’Italia non è la mancanza di flessibilità del lavoro, ma quella del capitale.

Come possiamo aumentarla? Purtroppo non è così semplice (almeno da un punto di vista tecnico) come abolire l’articolo 18. Per aumentare la flessibilità del capitale è necessario facilitare la riallocazione del credito, la riallocazone del capitale di rischio, la riallocazione del controllo e soprattutto l’uscita delle imprese inefficienti.

Molto del nostro credito è controllato (direttamente o indirettamente) da cooperative e fondazioni. Entrambe queste strutture di governance favoriscono l’erogazione del credito agli operatori esistenti sul territorio (soci delle cooperative o notabili legati alle fondazioni) a scapito dei nuovi entranti e di imprese “straniere” (che spesso in Italia significa anche solo della provincia limitrofa). In questo senso la riforma delle popolari e quella delle fondazioni (seppur troppo timida) vanno nella direzione giusta di aumentare la flessibilità nella erogazione del credito.

Per favorire gli investimenti azionari nelle imprese a maggior produttività non basta invocare solo il venture capital (che comunque rimane fondamentale), bisogna sradicare il capitalismo di relazione che continua ad investire i soldi (degli altri) nei progetti degli amici e non in quelli a più alta produttività. Il salvataggio di Alitalia non solo è costata carissimo agli azionisti di Banca Intesa, ai contribuenti, e ai consumatori. È stato anche un pesante freno alla produttività del Paese. Per facilitare la riallocazione volontaria del controllo è necessario ridurre i benefici privati del controllo e rendere più difficile la separazione tra proprietà azionaria e controllo azionario, riducendo le piramidi.

Una Consob più efficiente e competente aiuta a ridurre i benefici del controllo. Per questo trovo di auspicio il bando pubblico per i due commissari Consob aggiuntivi deciso dal Consiglio dei Ministri. È un segnale di una trasformazione in senso meritocratico della Consob. Ma la nuova legge sulle loyalty shares va in direzione opposta. Se vuole ridurre l’ingessamento del controllo il governo dovrebbe introdurre una tassa sulle piramidi, assoggettando a tassazione i dividendi intersocietari.
Per permettere l’uscita rapida di imprese inefficienti, bisognerebbe riformare la legge sulla bancarotta. La responsabilità limitata è fondamentale per promuovere l’imprenditorialità e l’assunzione del rischio. In Italia però non c’è vera responsabilità limitata. Oggi la bancarotta è l’unica situazione in cui si fa causa agli amministratori. Pertanto la si cerca di evitare a tutti i costi, anche quando l’impresa non ha futuro. Se fosse più facile far causa al di fuori della bancarotta e non così facile come oggi farlo in bancarotta, la decisione di uscita non sarebbe così ritardata da fattori legali. È solo evitando di tenere in vita imprese morenti che si crea spazio per le nuove. Ed è solo con nuove imprese e nuovi i imprenditori che si diffondono le nuove tecnologie e ed aumenta la produttività.

Se vogliamo che la ripresa nascente non sia solo un’effimera fiammata, ma uno sviluppo duraturo dobbiamo stimolare la crescita della produttività. Non c’e’ modo migliore per farlo che stimolare la flessibilità del fattore capitale. Dopo aver eliminato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è giunto il momento di eliminare anche l’”articolo 18” degli imprenditori.


* Link all’articolo cui si fa riferimento: Capital Allocation and Productivity in South Europe

I miei tre punti per l’Agenda per l’Italia

Sabato scorso ho partecipato al panel conclusivo del workshop Ambrosetti a Cernobbio, in cui gli spunti emersi dai precedenti interventi venivano sintetizzati ed elaborati in una “Agenda per l’Italia”, di fronte al Ministro dell’Economia Padoan. La stampa non era ammessa, quindi per correttezza mi limiterò a riassumere solo il mio intervento, tacendo sui contributi degli altri relatori, Valerio De Molli e Nouriel Rubini.

Io ho individuato nella situazione italiana tre fattori di debolezza: una deflazione internazionale, dei problemi strutturali preesistenti alla crisi finanziaria e una crisi bancaria.

Cominciando dalla crisi bancaria, su cui la capacità di intervento del governo italiano è maggiore, il problema è duplice: da un lato bisogna risolvere l’incertezza che sta attanagliando alcune grandi banche e che rischia di asfissiare l’economia reale; dall’altro bisogna farlo in un modo che sia politicamente compatibile, evitando di scatenare quella (giusta) rabbia popolare che tanto ha fatto per destabilizzare il sistema politico americano dopo la crisi del 2008 e di cui vediamo ancora ora le conseguenze. Ben venga quindi un ruolo della CDP come investitore di ultima istanza negli istituti in difficoltà che non riescono a reperire capitali sul mercato, ma a due condizioni. La prima è che i termini siano simili ad un fallimento per tutte le parti coinvolte (inclusa la possibilità di revocatoria fallimentare), tranne i creditori.  La seconda è che ci sia una commissione d’inchiesta su come e perché queste banche sono entrate in crisi senza che i meccanismi di allerta (sia a livello societario che istituzionale) funzionassero.

Se questa commissione venisse istituita, io mi sono offerto di guidarla per il compenso simbolico di 1 euro.

La crisi strutturale riguarda l’incapacità del nostro sistema di aumentare la produttività, ovvero il prodotto per ora lavorata. Recenti studi internazionali dimostrano che solo metà della produttività di un Paese è dovuta alla quantità totale di capitale e lavoro investiti, il resto è determinato da come sono allocati questi fattori. A questo fine è cruciale la flessibilità di trasferire questi fattori da un’azienda ad un’altra. Negli anni passati, l’enfasi è stata sulla flessibilità del fattore lavoro. È giunto il momento di focalizzarsi sulla flessibilità del fattore capitale.  Questo significa anche favorire il trasferimento di risorse da aziende meno produttive ad aziende più produttive.

Un ruolo cruciale in questa riallocazione gioca il settore bancario. A questo fine le riforme delle Popolari e delle BCC sono state un passo in avanti, così come lo è stata la riforma della legge fallimentare. Ma si può fare di più. In particolare è necessario migliorare la tutela degli investitori di minoranza: senza questa tutela nessun imprenditore è disposto a fondersi o a trasferire le risorse della propria azienda in un’azienda in cui a comandare è un altro. Una Consob più attiva è un passo essenziale in questa direzione.

La terza debolezza riguarda una situazione internazionale in cui c’è un eccesso di risparmio. Per motivi demografici, l’Occidente vuole risparmiare molto. Data questa offerta di risparmio il tasso di interesse reale di equilibrio dovrebbe essere negativo. Ma in presenza di una bassa inflazione e di un limite (tra lo zero e il -0.5%) cui possono scendere i tassi di interessi nominali, il mercato tende a riequilibrarsi distruggendo risparmio attraverso una recessione. Esistono due politiche per rimediare a questo problema: un finanziamento monetario del deficit, che faccia aumentare l’inflazione, o un aumento del deficit pubblico che riduca il risparmio aggregato. Entrambe queste politiche sono proibite dalle regole dell’eurozona, regole che non possono essere facilmente rinegoziate.

Il governo ha una responsabilità di porre questo problema all’Europa. In verità, questo governo ha il merito di essere stato, nei confronti dell’Europa, più critico dei precedenti. Ma lo ha fatto in modo troppo timido e troppo isolato, spesso usando le sue critiche come scusa per chiedere maggiore flessibilità sul deficit. Deve condurre invece una battaglia di principio e formare una coalizione contro l’egemonia culturale della Germania.

Fighting German cultural and economic hegemony in Europe / La strada (mai battuta) per evitare l’Eurogermania

Articolo pubblicato il 14.01.2016 su “Il Sole 24 Ore”

In early 2014, I wrote a pamphlet on Europe. My hope was to help inspire the creation of a different European policy by the new government. Italy was (and still is) divided between radical anti-Europeanists and uncritical pro-Europeanists. My position was simply that Italy has no future outside of Europe, and Europe has no future if it doesn’t change. To facilitate this transformation, Italy has to change not only its own domestic policy, but also that of Europe.

Today Europe is completed under the thumb of German hegemony. The Germans have succeeded in the difficult goal of elevating their national interest to economic principles and moral value. They insist on the right principle of price stability, but they do so because Germany’s greater wage flexibility allows them to “devalue” their prices, exporting their unemployment. They preach the just principle of bank bail-in, because they have already rescued their own troubled banks. They support the need for budgetary rigor (necessary for highly indebted countries like Italy), because they have already made their adjustment and for Germany increased demand would only result in higher inflation.

In other words, Germany has managed to strengthen its economic hegemony through a very strong cultural hegemony and now uses this cultural hegemony to further strengthen its economic hegemony at the expenses of firms form other European countries, Italy first. It has succeeded in this endeavor not only thanks to its friends, but above all thanks to its enemies. If the alternative to German rigor is expansion of the budget, which believes that growth is generated by printing money, how can you not be pro-German? If the alternative to banks’ bail-in is the socialization of losses produced by corrupt bankers, how can you not be pro-German? In other words, if the only alternative to German ruling is the Venezuela of Chavez and Madauro, or Kirchner’s Argentina, any sensible person would prefer German ruling. But why must this be the only alternative?

The hope outlined in my book was to fight German hegemony with a different idea of Europe. An idea that is based on serious economic principles, drawing logical conclusions even when they are not in Germany’s favor. For example, any economist worthy of this title will admit that a monetary union is not sustainable without a fiscal union. The first, and easiest, step towards a fiscal union is a European unemployment insurance. Why was the creation of such a mechanism not at the heart of European policy? The same reasoning applies to a common deposit insurance. Finally, the first country to violate European rules is Germany, which does nothing to reduce its heavy trade surplus vis-a vis its European partners. Why European meetings are not focusing on the violation of this rule?

Renzi’s extraordinary electoral victory in May 2014, combined with the rotating EU presidency starting in June 2014, gave the young prime minister a unique opportunity to fight this battle. As main country in Southern Europe, Renzi could coalesce the other Mediterranean countries in need of aid around this idea. As main social democratic party, Renzi could drag the German SPD into supporting this idea, a social initiative the SPD would have found difficult to oppose.  As the main barrier against anti-European populism, Renzi could have sold this idea to Chancellor Merkel as well, making her understand that defeat on this front would have resulted in a defeat of Europe. To do so, however, Renzi would have to be extremely rigorous on the budget deficit to show that the battle was not an excuse, but a battle of principle.

Renzi preferred a different path. He preferred to cozy up to Merkel by not raising these objections, even siding with her against the rebel Greeks, not realizing that soon we will risk the same fate. He preferred silence in exchange for a few more decimals of deficit, to spend on purely electoral maneuvers, such as the 500 euro bonus to eighteen year olds to spend on culture.

Unfortunately the operation was short-lived. The political flirtation with Merkel did not last the space of a morning. The credit he had in Europe, for having won an election by a huge margin and for not being Berlusconi, was exhausted quickly and Renzi found himself to lock horns with Merkel. This tension stems from divergent national interests, but above all from our Prime Minister’s desire to pursue electoral opponents on their own ground. Today Renzi plays the anti-German card, but he does so from a position of weakness, not strength.

To gain credibility, Renzi should no task for flexibility within the logic that Germany has made hegemonic; he should expose the contradictions within the German logic. If a common currency is sustainable only with a fiscal redistribution, to which form of fiscal redistribution Germany agrees to? Bail-in rules are good only if there is a European deposit insurance, until Germany agrees to that, we suspend the application of bail-in rules.  Which actions is Germany undertaking to reduce its trade surplus?

To take this stand, however, Renzi needs to be credible on the fiscal front.  Otherwise he risks the same fate as Berlusconi. In which case he will be unable to invoke the excuse of a mysterious international conspiracy; he will have only himself to blame for his short-term policies.

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Agli inizi del 2014 scrissi un pamphlet sull’Europa. La mia speranza era di aiutare l’elaborazione di una diversa politica europea da parte del nuovo governo. L’Italia era (ed è) divisa tra antieuropeisti radicali ed europeisti acritici. La mia posizione era semplicemente che l’Italia non ha futuro al di fuori dell’Europa, ma l’Europa non ha futuro se non cambia. Per facilitare questa trasformazione, l’Italia deve cambiare non solo la propria politica interna, ma anche quella nei confronti dell’Europa.
Oggi l’Europa è completamente succube dell’egemonia tedesca. I tedeschi sono riusciti nel non facile obiettivo di elevare il proprio interesse nazionale a principio economico e valore morale. Insistono sul sacrosanto principio della stabilità dei prezzi, ma lo fanno perché la maggiore flessibilità dei salari tedeschi permette loro di “svalutare” i loro prezzi, esportando la loro disoccupazione. Predicano il giusto principio del bail-in, perché le loro banche in difficoltà le hanno già aiutate. Sostengono la necessità di un rigore di bilancio (necessario per i paesi fortemente indebitati come l’Italia), perché hanno già effettuato il loro aggiustamento e per loro una maggiore domanda avrebbe come conseguenza solo una maggiore inflazione in Germania. 
In altre parole, la Germania è riuscita a rafforzare la sua egemonia economica con una fortissima egemonia culturale ed ora usa questa egemonia culturale per rafforzare ulteriormente la propria egemonia economica a scapito delle imprese degli altri paesi europei, Italia in testa. La Germania è riuscita in questo non solo grazie ai suoi amici, ma soprattutto grazie ai suoi nemici. Se l’alternativa al rigore tedesco è l’espansionismo di bilancio, che crede che la crescita si generi stampando denaro, come non si può essere filo tedeschi? Se l’alternativa al bail-in è la socializzazione delle perdite prodotte da banchieri corrotti, come non si può essere filo tedeschi? In altre parole, se l’unica alternativa al dominio tedesco è il Venezuela di Chavez e Madauro o l’Argentina della Kirchner, qualsiasi persona assennata preferisce il dominio tedesco. Ma perché questa deve essere l’unica alternativa? La speranza delineata nel mio libro era quella di combattere l’egemonia tedesca con una idea diversa di Europa. Un’idea che si basasse su seri principi economici, traendone le logiche conseguenze, anche quando queste non erano favorevoli alla Germania. Ad esempio, qualsiasi economista degno di questo nome ammette che un’unione monetaria non è sostenibile senza un’unione fiscale. Il primo, più facile, passo verso un’unione fiscale è una assicurazione europea contro la disoccupazione. Perché non rendere la creazione di tale meccanismo il fulcro della nostra politica europea? Altrettanto vale per un’assicurazione comune sui depositi. Per finire, il primo Paese a violare le regole europee è proprio la Germania, che non fa nulla per ridurre il suo pesante avanzo commerciale nei confronti di tutti i partner europei. Perché non incentrare i meeting europei sulla flessibilità su questo problema? 
La straordinaria vittoria elettorale di Renzi nel maggio 2014, unita alla presidenza di turno dell’Unione Europea, dava al giovane Presidente del Consiglio un’occasione unica per combattere questa battaglia. Come maggior paese del sud Europa, Renzi poteva coalizzare gli altri paesi mediterranei, bisognosi di aiuti, intorno a questa idea. Come maggior partito dell’area socialdemocratica, Renzi poteva trascinare in questa battaglia anche la SPD tedesca, che si sarebbe trovata spiazzata a combattere un’iniziativa sociale come un sussidio alla disoccupazione. Come principale argine al populismo antieuropeo, Renzi poteva vendere questa idea anche al cancelliere Merkel, facendole capire che una sua sconfitta su questo fronte avrebbe comportato una sconfitta dell’Europa. Per fare questo, però, Renzi avrebbe dovuto essere rigoroso sul deficit pubblico, per dimostrare che la sua battaglia non era una scusa, ma una battaglia di principio. 
Renzi ha preferito una strada diversa. Ha preferito ingraziarsi Merkel non sollevando queste obiezioni, anzi schierandosi con lei contro i ribelli greci, non capendo che rischiamo presto la stessa sorte. Ha preferito il silenzio per giocarsi qualche decimale in più di deficit, da spendere in manovre puramente elettorali, come i 500 euro di bonus culturale ai diciottenni. 
Purtroppo la manovra ha avuto vita breve. Il flirt politico con Merkel non è durato che lo spazio di un mattino. Esaurito rapidamente il credito che aveva in Europa per avere stravinto un’elezione e per non essere Berlusconi, Renzi si è trovato rapidamente in contrapposizione con la Germania. Questa tensione nasce da interessi nazionali divergenti, ma nasce soprattutto da un desiderio del nostro Presidente del Consiglio di inseguire gli avversari elettorali sul loro terreno. Oggi Renzi gioca la carta anti-tedesca, ma lo fa da una posizione di debolezza, non di forza. Per acquistare credibilità non deve chiedere concessioni all’interno della logica che la Germania ha reso egemonica (maggiore flessibilità rispetto al patto di stabilità), ma deve esporre le contraddizioni all’interno della logica tedesca. La moneta comune è sostenibile solo con una redistribuzione fiscale. A quale tipo di redistribuzione fiscale è disponibile la Germania? Le norme sul bail-in sono giuste solo se esiste un’assicurazione europea sui depositi, fino a che la Germania non accetta questo principio, noi sospendiamo l’applicazione del bail-in. Quale iniziative si impegna a fare la Germania per ridurre il proprio avanzo commerciale? Per prendere queste posizioni, però, Renzi deve essere credibile sul fronte fiscale. Altrimenti rischia di fare la stessa fine di Berlusconi. Nel qual caso non potrà neppure invocare a scusa una fantomatica congiura internazionale, avrà solo da rimproverare se stesso e la sua politica di breve respiro.

 

Intervista a “La Stampa”: “Crescita sì, ma da zero virgola. Anche le imprese possono fare di più”

Testo dell’intervista pubblicata sul quotidiano “La Stampa” il 9 Agosto 2015, a cura di Luigi Grassia

Dall’economia arrivano segnali misti: come li giudica? L’Italia aggancerà o no il treno della ripresa? La stima di Pii +0,7% quest’anno è realistica?
«Cominciamo a considerare lo scenario europeo» risponde Luigi Zingales dall’Università di Chicago, dove insegna finanza alla Booth School of Business. «La ripresa in Europa c’è, grazie ai bassi tassi della Bce e al petrolio a buon mercato. Perciò sì, l’Italia avrà un incremento di Pil, nell’ordine dello zero virgola. Ma questo ci basta? Io dico di no».

Perché l’Italia aggancia a fatica la ripresa internazionale?
«È dal 1995 che il Pil italiano cresce molto poco: un +0,5% annuale ogni tanto. Ci sono problemi di fondo. Il primo è che l’Italia ha mancato la rivoluzione digitale. Molta della crescita della produttività americana è dovuta agli investimenti nelle tecnologie dell’informazione. Invece in Italia questo non si è visto».

Eppure tutti i bambini italiani hanno lo smartphone e l’iPad. E in passato siamo stati all’avanguardia nella robotica. Stavolta che cosa è mancato?
«Ecco un esempio concreto. In America la Wal Mart ha fatto un balzo di produttività grazie a sistemi avanzati di gestione della logistica . E negli Usa è normale la gestione dei clienti attraverso software. Invece in Italia, a parte qualche eccellenza, nella distribuzione non si fa certo un uso massiccio delle tecnologie digitali. Perché? In parte perché le aziende sono, in media, troppo piccole, ma in parte perché i manager, ad esempio i responsabili del marketing, preferiscono mantenere direttamente le leve del potere nelle loro mani».

Curioso: lei sta facendo ai manager privati la stessa critica che in molti fanno agli alti burocrati dello Stato. Poi in Italia ci sono altri problemi di fondo?
«Si è parlato molto in Italia della necessità di rendere flessibile il lavoro; e questo, è vero, è un problema. Ma si parla poco della scarsa flessibilità del capitale. In un sistema efficiente dovrebbe essere facile sia disinvestire dai settori in declino (perché subiscono, ad esempio, la concorrenza della Cina) sia dirottare le risorse verso i settori in ascesa e a più alto valore ag giunto. Ma in Italia tutte e due queste cose sono difficili. Intanto perché c’è un sistema finanziario che non aiuta la circolazione del capitale. Poi perché abbiamo avuto, storicamente, una legge fallimentare che ha mancato il suo scopo principale, che è salvare le imprese per poi rilanciarle. Spero che la nuova sia meglio. Poi le imprese italiane sono spesso in mano a famiglie che non amano disinvestire, perché poi non avrebbero altro da fare. E non è solo un fatto culturale: se queste famiglie finanziassero aziende nuove dirette da altri, e questi si rivelassero degli incapaci o dei manigoldi, i proprietari non riuscirebbero a tutelare il loro investimento. Abbiamo un sistema giudiziario che non riesce mai a mandare in galera i ricchi che se lo meritano, come è successo in America, per esempio, a un ex capo di McKinsey e a uno della Enron. Parlo di galera, non di arresti domiciliari o obbligo di firma».

Per caso sta invocando una bella dose di giustizialismo?
«No, al contrario. Il giustizialismo vuole tutti colpevoli, io vorrei un sistema giudiziario fondato sulla selettività e l’efficienza. In Italia c’è il mito dell’azione obbligatoria. È nella legge, ma è solo un mito. Ogni volta che un pm avvia un’azione giudiziaria dice che lo fa perché è costretto dalla notizia di reato. In realtà, sceglie fra le moltissime notizie di reato quelle che vuole perseguire, e non si giustifica mai, perché dice che l’azione è obbligatoria. Cosi un pm avvia magari 25 cause senza ottenere nessuna condanna. E tutto questo senza conseguenze negative sulla sua carriera. Invece della responsabilità civile dei magistrati vorrei una responsabilità gestionale: che i magistrati fossero incentivati a misurare i costi e i benefici delle azioni legali che scelgono di intraprendere e che vengano promossi sulla base dei loro risultati. una riforma di questo tipo servirebbe molto all’economia».

Il rallentamento della Cina minaccia la ripresa globale?
«Un Paese non può crescere per sempre al 10% annuo. Se il rallentamento si accompagnerà a un aumento dei consumi interni non provocherà una crisi internazionale».

 

Lessons for Italy from the Greek Crisis / Lezioni per l’Italia dalla Crisi Greca

The first lesson Italy should learn from the Greek crisis is that a unilateral exit from the euro is too costly. Only time will provide us with the exact figures of what these six months of uncertainty and these three weeks of bank holiday have cost the Greek economy. Yet, these costs are only the appetizer of what would have happened with a Grexit. Even the risk-loving Varoufakis when he stared at the abyss of Grexit advised against it. And all these disasters happened with a referendum that did not even consider the possibility of an exit from euro on the ballot. What would happen in Italy if – as the Five Star Movement seems to want – we will have a referendum on the euro itself?

The second and third lessons can be learned by looking at Tsipras’ main mistakes in negotiations. The first – unforgivable – mistake is not to have a Plan B. Unforgivable because he tried to bluff and when his bluff was caught, he was toast. Doubly unforgivable because he had six months to prepare it. But does a Plan B possibly exist? Prepared appropriately a currency change is possible, albeit risky. The problem is that it works better the more efficient is the State bureaucracy and the more secret the plan remains. On both fronts it seems to me that the chances it might work in Italy are very slim. Another Plan B for Greece would have been to threaten to take over the Bank of Greece and to flood the market with the 10 euro banknote printed in Greece. The flooding would have had a double purpose: providing liquidity to Greek banks and scary Germans about the risk of potential inflation in the eurozone. The other European countries could react by outlawing the 10 euro banknotes, but it would be costly for their citizens who hold them. In this respect Italy has an advantage; the Bank of Italy prints the 20 and 50 euro notes. It is difficult to outlawing both of them contemporaneously. But this is pretty crazy stuff. If you want to play tough – like Tsipras did – you need to be prepared to go down this path. Alternatively, you beg for clemency.
The second – more comprehensible – mistake made by Tsipras is that he misestimated Germany’s dedication to Europe.

Until recently Germany would have never had the courage to risk destroying the European project to pursue its internal policy goal. Not any more. Schäuble’s position made it clear that the protection of German taxpayers is more important than any other consideration. This new German attitude changes forever the political dynamics in Europe.

Italy, thus, should abandon any dream of unilateral exit from the euro. After Tsipras’s experience no reasonable politicians will lead Italy down this path and beware of the unreasonable ones. The feasible options –in my view — are only three.
The first is to accept the status quo and realize that our economic policy is decided in Germany and that Germany is not willing to change it to for our needs. Thus, let’s abandon false hopes about introducing some flexibility in the rules, ain’t going to happen. While this approach could be a winning one for conservative parties, like the Spanish PPE, it is suicidal for any party of the Left. We see what happened to the Greek Pasok and what is happening to the Spanish PSOE. If the Italian PD wants to avoid extinction, it better not choose this option.
The second is to attempt to get Germany out of the euro. As I explained in my book Europa o no (Europe or not), an exit from the euro of a country with a stronger currency is much more doable. Unfortunately, the country with a stronger currency has no interest in doing so, unless it is threatened with a possible worse outcome.
What is worse for the Germans? Inflation. Thus, promoting a revision of the European Central Bank’s mandate, so that price stability is defined as an consumer price inflation that is on average 4% (instead that less than 2% as it is today), would probably start to freak the Germans out. The problem is that the theoretical bases for this move are not so strong and it will be easy for the Germans to resist this attempt.

The last and better option is to conduct a battle to make the euro sustainable. The first step in this direction is to introduce some automatic transfers that will help the countries in temporary recession, e.g. a European unemployment insurance mechanism. All economists worth this name agree on the necessity of such transfers. Nobody objects in principle. All the objections are short-sighted national political objections. There is no better time to overcome them. During the last euro meeting, the French President Hollande has broken the Paris-Berlin axis and he is in desperate need to re-establish himself as a European leader. To this purpose there is nothing better than pushing a proposal for a European unemployment insurance system with Italian support. The chances of seeing it implemented are increased by Germany’s temporary political weakness. Schäuble’s very aggressive stand at the last Brussels meeting has raised many criticisms in Germany and even more abroad. Germany cannot afford to dismiss such a proposal out of hand, especially if it cannot ride on the high horse of moral and economic principles, but has to expose its short-sighted national egoism.

This is the moment. If not now, when?

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La prima lezione che l’Italia dovrebbe trarre dalla crisi greca è che un’uscita unilaterale dall’euro è troppo costosa. Solo il tempo ci fornirà le cifre esatte di quanto questi sei mesi di incertezza e tre settimane di chiusura delle banche siano costate all’economia greca. Tuttavia, tali costi sono solo l’antipasto di quello che sarebbe successo con la Grexit. Persino uno propenso al rischio come Varoufakis di fronte all’abisso della Grexit l’ha sconsigliata. E tutti questi disastri sono accaduti con un referendum che sulla scheda elettorale neanche accennava alla possibilità dell’uscita dall’euro. Cosa succederebbe in Italia se – come sembra volere il Movimento 5 Stelle – avessimo un referendum sull’euro?

La seconda e terza lezione possono essere apprese guardando agli errori principali di Tsipras nei negoziati. Il primo – imperdonabile – errore è di non avere un piano B. Imperdonabile perché ha tentato di bluffare e quando il suo bluff è stato scoperto, lui è finito. Doppiamente imperdonabile perché aveva sei mesi per prepararlo. Ma poteva esserci un Piano B? Se preparato in modo appropriato, un cambio di moneta è possibile, per quanto rischioso. Il problema è che tanto meglio funziona quanto più efficiente è la burocrazia dello Stato e più segreto rimane il piano. Su entrambi i fronti, mi sembra che le possibilità che possa funzionare in Italia siano molto scarse. Un altro Piano B per la Grecia sarebbe stato quello di minacciare di prendere la Banca di Grecia e di inondare il mercato con banconote da 10 euro stampate in Grecia. Questa emissione massiccia di banconote da 10 avrebbe avuto un duplice scopo: fornire liquidità alle banche greche e spaventare la Germania circa il rischio di inflazione potenziale nella zona euro. Gli altri paesi europei avrebbero potuto reagire vietando le banconote da 10 euro, ma ciò sarebbe stato costoso per i loro cittadini che le detenevano. A questo proposito l’Italia ha un vantaggio: la Banca d’Italia stampa le banconote da 20 e 50 Euro. È difficile metterle entrambe contemporaneamente fuori legge. In ogni caso sarebbe una cosa da pazzi. Se si vuole giocare duro – come Tsipras ha fatto – è necessario essere pronti ad andare avanti su questa strada. In alternativa, si implora clemenza. Il secondo – più comprensibile – errore fatto da Tsipras è che ha fatto una stima sbagliata della dedizione della Germania al progetto europeo.

Fino a poco tempo la Germania non avrebbe mai avuto il coraggio di rischiare di distruggere il progetto europeo per perseguire un suo obiettivo di politica interna. Ora non più. La posizione di Schäuble ha chiarito che la protezione dei contribuenti tedeschi è più importante di qualsiasi altra considerazione. Questo nuovo atteggiamento tedesco cambia per sempre le dinamiche politiche in Europa. 

L’Italia, dunque, dovrebbe abbandonare qualsiasi sogno di uscita unilaterale dall’euro. Dopo l’esperienza di Tsipras nessun politico ragionevole porterà l’Italia su questa strada e bisogna stare attenti a quelli irragionevoli. Le opzioni possibili – dal mio punto di vista – sono solo tre.
La prima è quella di accettare lo status quo e rendersi conto che la nostra politica economica è decisa in Germania e che la Germania non è disposta a cambiarla per le nostre esigenze. Così, abbandoniamo false speranze di introdurre una certa flessibilità nelle regole, non accadrà. Anche se questo approccio potrebbe essere vincente per i partiti conservatori, come il PPE spagnolo, è suicida per i partiti di Sinistra. Vediamo cosa è accaduto al PASOK greco e quello che sta accadendo al PSOE spagnolo. Se il PD italiano vuole evitare l’estinzione, è meglio non scegliere questa opzione.
La seconda è quella di cercare di far uscire la Germania dall’euro. Come ho spiegato nel mio libro “Europa o no”, l’uscita dall’euro di un paese con una valuta più forte è molto più fattibile. Purtroppo, il paese con una valuta più forte non ha alcun interesse a farlo, a meno che non sia minacciato da qualcosa di peggio. Cos’è peggio per i tedeschi? L’inflazione. Quindi, promuovere una revisione del mandato della Banca centrale europea, in modo che la stabilità dei prezzi sia definita come l’aumento armonizzato dei prezzi al consumo del 4% (invece di meno del 2% come è oggi), inizierebbe probabilmente a far perdere le staffe ai tedeschi. Il problema è che le basi teoriche di questa mossa non sono così forti e sarà facile per i tedeschi resistere a questo tentativo. 

L’ultima e migliore opzione è quella di condurre una battaglia per rendere l’euro sostenibile. Il primo passo in questa direzione è quello di introdurre dei trasferimenti automatici che aiutino i paesi in recessione temporanea, come, ad esempio, un’assicurazione comune europea contro la disoccupazione. Tutti gli economisti degni di questo nome concordano sulla necessità di tali trasferimenti. Nessuno è contrario in linea di principio. Tutte le obiezioni sono miopi obiezioni di politica interna. Non c’è momento migliore per superarle. Durante l’ultimo eurosummit, il presidente francese Hollande ha rotto l’asse Parigi-Berlino e ha un disperato bisogno di riposizionarsi come leader europeo. A questo fine non c’è niente di meglio che portare avanti una proposta per un’assicurazione comune europea contro la disoccupazione, con il supporto italiano. Le possibilità di vederla attuata sono aumentate in virtù della temporanea debolezza politica della Germania. La posizione molto aggressiva di Schäuble durante l’ultima riunione di Bruxelles ha sollevato critiche in Germania e ancor più all’estero. La Germania non può quindi permettersi di respingere tale proposta su due piedi, soprattutto non potendo fare appello ad alti principi morali ed economici, ma solo a un miope egoismo nazionale.

È il momento giusto. Se non ora, quando?

Grexiting the crisis without a Graccident – Uscire dalla crisi greca evitando il Graccident

To have an objective view of the situation I asked the help of a colleague of mine, Stavros Panageas. Not only is he a very good economist and a Greek one, but he also distinguishes himself for a very nice mix of economic thinking and civic passion.  You can enjoy both in this passage written for this blog. LZ

Per avere una visione obiettiva della situazione, ho chiesto aiuto a un mio collega, Stavros Panageas. Non solo è un economista molto bravo ed è Greco, ma si distingue per un mix molto bello di pensiero economico e passione civica. Li apprezzerete entrambi in questo post scritto appositamente per questo blog. LZ

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by Stavros Panageas

It has been hard, sad, and frustrating to follow the events in Greece these past five years. Even more so for a Greek economist, since it is often difficult to separate the role of the economist – trained to be as impartial as possible – from the role of the citizen of the country that is going through turmoil.

To the extent that I can separate these two roles, I will start speaking as an economist and I will conclude by speaking as a citizen.

As an economist, I would like to start with a very basic question: What is so special about Greece? Why are other European countries such as Ireland, Portugal, and Cyprus seemingly out of the woods, while Greece isn’t?
Surely, Greece was in a worse situation going into the crisis; in particular it had a very high level of debt in 2008. But other European countries had high levels of debt (Belgium, Italy) and they did not suffer the fate of Greece.
I believe that the key issue was not the high level of debt in isolation. It was the combination of a high level of debt with a grossly underestimated “fiscal multiplier” that sealed the fate of the stabilization program. The fiscal multiplier determines how much you kill growth as you are cutting the budget. In a sense, it is the ratio of the medication that is likely to kill you before it cures you.
In Greece the fiscal multiplier proved to be above anyone’s expectation, by official admission of the IMF. In my view, the large fiscal multiplier is just a testament to the frictions in labor markets, good markets, and the bloated public sector – all issues that required structural reform that met with staunch opposition by special interests. In addition, it didn’t help that the stabilization program allowed the Greek government to reduce the budget deficit by increasing taxes (indiscriminately — even on poor people), rather than by reducing expenses.
Couple a high initial debt level with a high fiscal multiplier and you have an explosive mix: The dosage of the medication that is required to kill the disease (the budget cuts required to reduce the debt) is likely to kill the patient (cause a recession that is comparable to the US Great Depression).
Despite this unpleasant arithmetic, the Greek economy persevered for four years, and 2014 was even a year of positive growth (0.7%). The numbers were even more impressive for quarters 2 and 3 on a seasonally adjusted basis. It may be hard to believe or remember it these days, but in March of 2014 everyone was talking about “Grecovery”, not “Grexit”. Just read the newspapers of the time.
Some people will say “Yes, but the debt sustainability was still not cured”. That is true indeed. It is also true that some of the growth was due to cyclical deflation, not nominal growth, which doesn’t help with making the debt sustainable. However, one should not forget that –by now – most of Greek debt is official and long-term with a very low servicing cost. So, if over the course of the next 30 years, the ECB achieved its goal of a 2% inflation across the Eurozone, and Greece managed to sustain real growth, then the calculation changes substantively.
So, my view is that on purely economic grounds, one cannot entirely explain the differences between Greece and Cyprus, Ireland, Portugal. Or at least, any such explanation would also have to explain why growth returned in Greece in quarters 2 and 3 of 2014, and disappeared since the fourth quarter of 2014, when elections were declared.

Enter politics. Politics became a factor that poisoned the relations between Greece on the one hand and investors and creditors on the other. This made the economic recession deeper than it should have been, since there was constant doubt by domestic and foreign investors on whether the country would keep the course of stabilization. Moreover, the creditors kept adding to their demands due to implementation constraints.
Five years of savage recession, and unfair tax hikes became fertile ground for parties that used to belong to the far left and far right. The once-hard-core left lured a substantial fraction of voters with a promise to end austerity and renegotiate the debt. The admittedly tenuous issue on whether the debt was sustainable convinced several centrists that Greece was on the wrong path. Besides, to many people, Tsipras seemed like the person who could break the mold of a corrupt political system.
The issue that Tsipras deliberately left open during his campaign was whether he would be willing to risk Greece’s position in the Eurozone during the negotiation. In the few weeks leading up to the election, however, he became progressively more clear: Greece would stay in the Euro (I wish I could add “no matter what” to this sentence, but he never went as far as to add these three critical words).

So here we are. Predictably Europe said no to Tsipras, and presented him with an ultimatum. So what should be done now?

From this point, I will speak as a citizen, and I will also speculate. Tsipras does not have the democratic mandate to take Greece out the Euro. Polls show that 60% of Greeks would prefer a painful agreement to exit from the Euro. In a peaceful manner Greeks took to the streets a couple of days ago carrying signs “We are staying in Europe”. I am told that the turnout was substantial. In my view, this is because belonging to Europe is an existential choice for Greece, a part of its identity reaching well beyond economics. And taking the path out of the Euro could open the path out of Europe.
So, no Greek prime minister would take the responsibility of explicitly taking the country out of the Euro. So, my view is that if Tsipras cannot achieve something on Monday that he can sell to the people as a meaningful compromise, he will have to go back to the people and ask for a new mandate. Greece will go through turmoil in the meantime, but I am not willing to predict a Grexit just yet.
One thing is for sure, however. Given the broken trust, and the doubts on the feasibility of achieving reforms, the lenders should set a clear “quid-pro-quo” where the “carrot” is a plain, clear path to debt relief. Vague promises will not do at this stage. Such a path would be both good economics and good politics.

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Seguire gli avvenimenti greci degli ultimi cinque anni è stato duro, triste e frustrante. Lo è stato ancor di più per un economista greco come il sottoscritto, poiché è spesso difficile separare il ruolo di economista, che deve essere il più imparziale possibile, da quello di cittadino del paese in mezzo alla tempesta.

Cercando di separare questi due ruoli, prima parlerò da economista e poi concluderò come cittadino.

Come economista, vorrei iniziare con una domanda molto semplice: cos’ha di speciale la Grecia? Perché gli altri paesi europei come l’Irlanda, il Portogallo e Cipro sembrano aver superato la crisi, mentre la Grecia no?
Sicuramente la Grecia ha affrontato la crisi in una situazione peggiore; in particolare nel 2008 aveva un livello di debito molto elevato. Ma anche altri paesi europei avevano alti livelli di debito (per es. Belgio e Italia), eppure non hanno subito la stessa sorte della Grecia.
Io credo che la questione chiave non sia l’alto livello del debito in sé. È stata piuttosto la combinazione di un elevato livello di debito con un ampiamente sottovalutato “moltiplicatore fiscale” a determinare il fallimento del programma di stabilizzazione. Il moltiplicatore fiscale determina quanto riduci la crescita quando  tagli il budget. In un certo senso, è come il rapporto tra il danno che un farmaco produce e il beneficio che procura.
In Grecia il moltiplicatore fiscale si è rivelato superiore alle aspettative di chiunque, come ha ufficialmente ammesso lo stesso FMI. A mio avviso, un grande moltiplicatore fiscale semplicemente dimostra gli squilibri nel mercato del lavoro, nel mercato dei beni, nell’abnorme settore pubblico – tutte questioni che richiedevano una riforma strutturale che ha trovato la ferma opposizione di interessi particolari. Inoltre, non ha aiutato il fatto che il programma di stabilizzazione abbia permesso al governo greco di ridurre il deficit di bilancio aumentando le tasse (indiscriminatamente – anche sui poveri), piuttosto che riducendo le spese.
Mettete insieme un alto livello di debito iniziale con un elevato moltiplicatore fiscale e avrete un mix esplosivo: la dose di farmaco necessaria per guarire dalla malattia (i tagli di bilancio necessari per ridurre il debito) rischia di uccidere il paziente (provocare una recessione che è paragonabile alla Grande Depressione negli Stati Uniti).
Nonostante questa aritmetica sgradevole, l’economia greca è andata avanti per quattro anni e il 2014 è stato persino un anno di crescita positiva (0,7%). Nel secondo e terzo trimestre, su base destagionalizzata i numeri sono stati ancora più impressionanti. Può essere difficile da credere o ricordare di questi tempi, ma nel marzo del 2014 tutti parlavano di “Grecovery”, non “Grexit”. Basta leggere i giornali del tempo.
Alcuni diranno: “Sì, ma la sostenibilità del debito non era ancora stata ripristinata”. In effetti è vero. È anche vero che una parte della crescita era dovuta a una deflazione ciclica, non a una crescita nominale, che non aiuta a rendere sostenibile il debito. Tuttavia, non bisogna dimenticare che – ormai – la maggior parte del debito greco è nelle mani di organizzazioni internazionali e di lungo termine con un costo di servizio molto basso. Così, se nei prossimi 30 anni, la BCE raggiungerà il suo obiettivo di un’inflazione al 2% in tutta la zona euro, e la Grecia riuscirà a sostenere la crescita reale, allora il calcolo cambierà in maniera sostanziale.
Quindi, la mia opinione è che le differenze tra la Grecia da un lato e Cipro, Irlanda, Portogallo dall’altro non possono essere spiegate solo sulla base di motivazioni strettamente economiche. A meno che non si riesca anche a spiegare perché la crescita sia tornata in Grecia nei trimestri 2 e 3 del 2014, e sia scomparsa dal quarto trimestre del 2014, quando sono state indette le elezioni.

Passiamo alla politica. La politica è diventata un fattore che ha avvelenato le relazioni tra la Grecia da un lato, e gli investitori e i creditori dall’altro. Questo ha reso la recessione economica più profonda di quello che avrebbe dovuto essere, poiché gli investitori nazionali e esteri nutrivano costanti dubbi sulla stabilità politica del paese. Inoltre, i creditori aumentavano le loro richieste a causa delle difficoltà di attuazione.
Cinque anni di recessione selvaggia e ingiusti aumenti fiscali sono diventati terreno fertile per i partiti di estrema destra e di estrema sinistra. Quella che una volta era la sinistra radicale ha attirato una percentuale consistente di elettori con la promessa di porre fine all’austerità e rinegoziare il debito. Il tema notoriamente debole della sostenibilità o meno del debito ha convinto diversi centristi che la Grecia era sulla strada sbagliata. Inoltre, a molte persone, Tsipras sembrava la persona che poteva rompere gli schemi di un sistema politico corrotto.
La questione che Tsipras ha volutamente lasciato aperta durante la sua campagna elettorale era se nella negoziazione sarebbe stato disposto a rischiare la permanenza della Grecia nell’Eurozona. Nelle poche settimane precedenti le elezioni, però, è diventato sempre più chiaro: la Grecia sarebbe rimasta nell’Euro (vorrei poter aggiungere “a qualsiasi costo” a questa frase, ma non è mai arrivato a pronunciare queste tre fondamentali parole).
Ed eccoci qui. Com’era prevedibile, l’Europa ha detto di no a Tsipras e gli ha consegnato un ultimatum. Ora cosa si deve fare?

Da qui in poi, parlerò come cittadino, e farò anche delle previsioni. Tsipras non ha il mandato democratico di portare la Grecia fuori dall’euro. Secondo i sondaggi, il 60% dei greci preferirebbe un accordo doloroso all’uscita dall’Euro. Un paio di giorni fa i greci sono scesi in piazza in modo pacifico portando cartelli “Noi restiamo in Europa”. Mi è stato detto che l’affluenza è stata notevole. A mio parere, questo è perché l’appartenenza all’Europa è per la Grecia una scelta esistenziale, una parte della sua identità che va ben oltre l’economia. E uscire dall’Euro potrebbe significare uscire dall’Europa.
Quindi, nessun primo ministro greco si prenderebbe la responsabilità esplicita di portare il Paese fuori dell’Euro. Perciò, la mia opinione è che se lunedì Tsipras non riesce a raggiungere un accordo che può presentare al popolo come un compromesso significativo, dovrà tornare al popolo e chiedere un nuovo mandato. La Grecia attraverserà nel frattempo un’altra fase turbolenta, ma io non sono ancora disposto a prevedere una Grexit.
Una cosa è tuttavia certa. Visti il venir meno della fiducia e i dubbi sulla capacità di realizzare riforme, i finanziatori dovrebbero fissare un chiaro “quid-pro-quo”, dove la “carota” è un semplice, chiaro percorso di riduzione del debito. A questo punto non servono promesse vaghe. Ci vogliono buona economia e buona politica.

Grexit: a political, not economic problem / Grexit: problema politico, non economico

English translation of my op-ed, published in today’s print edition of “Il Sole 24 Ore”

The final hour is approaching. After months of negotiations, Greece and its creditors seem to have arrived at an impasse. Monday’s Eurogroup meeting could be decisive. If an agreement is not reached, Greece will not able to repay its debts to the IMF. From a technical standpoint it is not yet a default but it is close. In the mean time, the European Central Bank (ECB) is keeping Greek banks alive with continuous injections of liquidity through a line of credit called – not coincidentally – Emergency Liquidity Assistance (ELA). These injections of liquidity compensate the increasingly frantic bank runs. Without the liquidity provided by the ELA, Greek banks would be unable to reopen Monday. At that point, the only way for Greece to save the banking system would be to print its own currency: it would be the infamous Grexit.

In this extremely tense context, it is difficult even for experts to understand the position of both sides and it is easy to slip into the stereotypes of evil Germans or lazy and corrupt Greeks. Even the press, which should inform in an analytical matter, for the most part seems to have become a pure sounding board of preconceived political positions. For this, I tried to go to the source and read the proposals of the Greek Minister of Finance Varoufakis at the last Eurogroup. No longer trusting the way in which these positions could be reported in European press, the minister put them directly on his web page.

I have to admit that I was left surprised by their reasonableness. Varoufakis proposes a plan to increase the competition in various markets starting from the construction market; a reform that facilitates the creation of new business; and a severe anticorruption plan. In return he requires a reduction by 0.5% of the primary budget surplus and a shift of the Greek debt by the ECB to the European Stabilization Mechanism, in such way to permit Greece to participate in the benefits of Quantitative Easing. Few people know that today Greece is the only country in the Eurozone that doesn’t benefit from QE because the ECB owns Greek bonds above the limits. Seeing as the limit was decided in January of 2015 when the ECB already held these bonds, it is clear that it had been chosen purposefully to exclude Greece. Finally, Varoufakis requires that pensions not be touched any further.

How is it possible that such a reasonable program is not accepted by Europe? I asked a series of experts and the responses were two. Firstly, this program is still a little bit too vague and effectively the discussion is not equipped with many figures. But the main reason is because no one trusts the Greek government. Contributing to this sense of distrust was not only the behavior in the negotiations but also several internal initiatives (among which the abolition of teacher assessments), which made the Tsipras government “not very credible”.

Surely there is a problem of credibility; the Tsipras government is made of outsiders. It is very difficult for a group of outsiders to take control of a government and manage a country effectively during a crisis like this one. But let’s remember that the reason why the Greeks voted for this government is because the previous insiders were part of the problem (for example, Samaras was one of the leaders of a party whose government had falsified budget data) and maybe for exactly this reason they were too submissive to the requests of the Troika. Let’s not forget that even the Renzi government had trouble in the first months with presenting numerically accurate plans and it backtracked on the Invalsi teacher evaluations. Not for this it was vilified by the European press, quite the opposite .

Certainly, Syriza pays for an original prejudice, in as much as it is a formation of the radical Left, which in some components refutes the market economy. It is also true that both Tsiparis and Varoufakis have made mistakes. But even the IMF has made grave errors (ones they even admitted to) and yet its vertices are not treated with the same contempt. Syriza mostly pays the attempt to change the way in which negotiations occur at the European level. European bureaucracy thrives off secrecy, because it is not accustomed to responding to an elected democratic government. For this reason the European bureaucracy finds itself uncomfortable with a government that makes transparency a priority. The distrust that Europe shows in their regards is mainly distrust of diversity, a diversity that threatens the survival of actual European bureaucrats. How can we come out of this impasse?

The only person in this moment that can save the situation is Angela Merkel. It is up to Merkel to hold Varoufakis to his proposals and act as a guarantor of an agreement. It was the support of Merkel that permitted Draghi to rescue the euro in 2012.  And it could be her support that permits an agreement tomorrow. Certainly, her electoral interests go in the opposite direction. Germans, and even more so her voters, are tired of Greece and extremely contrary to any concession. But this is the moment in which we may see if Merkel is just the head of the German government or also the leader of future Europe. A true leader does not look only at their personal interest, but also at the heart of their entire nation’s interest, in this case the entire European nation. And this interest is certainly for an agreement. I don’t mean an agreement at all costs, but one along the reasonable positions outlined in Varoufakis’ proposals. Either Merkel becomes the midwife of a new Europe or she will find herself relegated by history as responsible for having killed forever a European dream.

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L’ora X si sta avvicinando. Dopo mesi di negoziati la Grecia e i suoi creditori sembrano arrivati a un’impasse. La riunione dell’Eurogruppo di domani potrebbe essere decisiva. Se un accordo non viene raggiunto, la Grecia non è in grado di ripagare i suoi debiti nei confronti del Fondo Monetario Internazionale. Da un punto di vista tecnico non è ancora default, ma ci siamo vicini. Nel frattempo la Banca centrale europea (BCE)sta tenendo in vita le banche greche con continue immissioni di liquidità attraverso una linea di credito chiamata – non a caso – Emergency liquidity assistance (ELA).
Queste iniezioni di liquidità compensano la corsa agli sportelli sempre più frenetica. Senza la liquidità fornita dall’ELA le banche greche non potrebbero riaprire lunedì. A quel punto l’unico modo per salvare il sistema bancario sarebbe stampare una propria moneta: sarebbe la famigerata Grexit.
In questo contesto estremamente teso è difficile anche per gli esperti capire le posizioni delle due parti ed è facile scadere negli stereotipi dei tedeschi cattivi o dei greci pigri e corrotti. Anche la stampa, che dovrebbe informare in modo analitico, sembra per la maggior parte essere diventata una pura cassa di risonanza di posizioni politiche preconcette. Per questo ho provato ad andare alla fonte ed ho letto le proposte avanzate dal ministro delle Finanze greco Varoufakis all’ultimo Eurogruppo. Non fidandosi più di come potrebbero essere riportate sulla stampa europea, il ministro ha messo queste proposte direttamente sulla sua pagina web.
Devo ammettere che sono rimasto sorpreso della loro ragionevolezza. Varoufakis propone un piano per aumentare la competizione sui vari mercati a cominciare da quello delle costruzioni; una riforma che faciliti la creazione di nuove imprese; e un severo piano anticorruzione. In cambio richiede una riduzione dello 0,5% del surplus primario di bilancio e uno spostamento del debito greco detenuto dalla Bce all’European Stabilization Mechanism, cosicché da permettere alla Grecia di partecipare ai benefici del Quantitative easing. Pochi sanno che oggi la Grecia è l’unico Paese dell’eurozona a non beneficiare del Qe perché la Bce possiede titoli greci al di sopra del limite. Visto che il limite è stato deciso a gennaio 2015 quando la Bce deteneva già questi titoli, si capisce che è stato scelto apposta per escludere la Grecia. Infine, Varoufakis richiede che non vengano toccate ulteriormente le pensioni.
Come è possibile che questo programma così ragionevole non sia accettato dall’Europa?

Ho chiesto ad una serie di esperti e la risposta è stata duplice. Innanzitutto questo programma è ancora troppo vago, ed effettivamente il discorso non è corredato da molti numeri. Ma il motivo principale è che nessuno si fida del governo greco.

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