Populist Plutocrats: Lessons From Around the World

Ecco il video completo della conferenza “Populist Plutocrats: Lessons From Around the World” organizzata lo scorso 23 Settembre dall’ Harvard Law School e dallo Stigler Center che dirigo presso la Chicago Booth School of Business.  La conferenza ha analizzato un fenomeno oggi quanto mai importante e pericoloso: il “populist plutocrat”. Per “populist plutocrat” si intende un leader che sfrutta la rabbia e le proteste degli elettori più poveri e meno istruiti contro le élite tradizionali, al fine di ottenere e mantenere il potere. Quindi, una volta in carica, sembra più che altro interessato ad arricchirsi, insieme a una cerchia relativamente ristretta di familiari, amici e alleati.


Here’s the video of the one-day conference, co-sponsored by Harvard Law School and the Stigler Center, that focused on an important and dangerous political phenomenon: the “populist plutocrat.” The populist plutocrat is a leader who exploits the cultural and economic grievances of poorer, less-educated voters against traditional elites in order to achieve and retain power, but who, once in office, seem substantially or primarily interested in enriching him- or herself, along with a relatively small circle of family members, cronies, and allies.

Come vanno difese le imprese Italiane

Testo dell’articolo pubblicato il 15.01.2017 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole”. English translation below.

Dopo la reazione francese all’acquisizione da parte dell’italiana Fincantieri dei cantieri navali di Saint-Nazaire, alcuni lettori mi hanno scritto adirati: perché noi dovremmo accettare gli investimenti francesi in Italia, quando i francesi ostacolano in tutti i modi gli investimenti delle nostre imprese nel loro Paese? La domanda è più che legittima e merita una risposta adeguata.

Ci sono due modi di difendere le imprese italiane. Il primo è quello di utilizzare la nostra diplomazia per assicurarci che, sia a livello europeo che a quello internazionale, le nostre imprese non siano ingiustamente discriminate. Questo non vale solo nel caso di acquisizioni, come quella di Fincantieri.  Ma vale ancora di più per le direttive europee decise a Bruxelles, che spesso colpiscono ingiustamente le nostre imprese. Sarebbe compito dei nostri funzionari e dei nostri politici assicurarsi che le decisioni prese in sede comunitaria se non favoriscono, almeno non creino danno alle nostre imprese.

Il secondo modo di difendere le imprese italiane è quello di creare difficoltà politiche contro le acquisizioni delle nostre imprese da parte di stranieri, come ventilato dal Ministro Calenda e dal Governo Gentiloni nel caso degli acquisti di azioni Mediaset da parte della francese Vivendi.

È ovvio che per l’interesse generale il primo modo di difendere l’italianità è di gran lunga superiore al secondo. Invece di contribuire all’escalation di una guerra commerciale, si contribuisce a rendere effettivo un principio di imparzialità che, alla lunga, beneficia tutti.

Meno ovvio, ma proprio per questo più importante, è che il primo metodo domina il secondo anche dal punto di vista dell’efficacia. L’Italia non è né la Cina, né gli Stati Uniti, e neppure la Germania. Queste nazioni hanno un grande mercato interno da difendere. Per questi Paesi vale la pena di rischiare delle ritorsioni sui mercati esteri, pur di proteggere il grande mercato domestico dalle incursioni straniere. Per l’Italia non è così. Perdere accesso ai mercati esteri è di gran lunga più costoso. Da qui la miopia di una politica protezionistica.

Se non bastasse, il primo modo di difendere le imprese italiane è superiore al secondo anche da un punto di vista strategico. L’Italia non ha la forza politica di Cina, Stati Uniti, e Germania. Quindi non può vincere le dispute internazionali con la forza. Lo può fare solo con il supporto delle norme internazionali e della ragione. Da qui l’importanza che l’Italia applichi queste norme in modo rigoroso nel nostro Paese. In caso contrario non avrebbe alcuna legittimità per chiedere una loro applicazione a livello internazionale.

Perché allora i nostri governi sembrano sempre adottare la strategia perdente? Innanzitutto, perché è una strategia con un immediato ritorno d’immagine. È facile ergersi a parole a difesa dell’italianità delle imprese, più difficile difendere le ragioni delle imprese italiane nel segreto di una commissione europea o nei colloqui bilaterali riservati con i principali esponenti politici degli altri Paesi.

Temo che il secondo motivo sia perché la nostra burocrazia e i nostri governi non hanno le risorse umane e le capacità tecniche per elaborare delle tesi e sostenerle con le appropriate motivazioni a livello europeo e mondiale. Non siamo riusciti neppure a opporci a livello europeo a un’accelerazione dell’introduzione della regola del bail in (inizialmente programmata per il 2018) quando sapevamo i danni che questa nuova regola avrebbe prodotto sul nostro debole sistema bancario. Come possiamo sperare che i nostri governi contestino con successo a Francia e Germania i loro abusi?

Ma c’è un altro motivo per cui i governi italiani tendono ad adottare la strategia perdente per difendere gli interessi nazionali. Anche se non beneficia la nostra economia nel suo complesso, la difesa ad personam (o ad aziendam) produce grandi benefici immediati a qualche imprenditore nostrano.  La difesa dell’italianità di Alitalia fatta da Berlusconi e dai “patrioti” non ha beneficiato nel lungo periodo la nostra compagnia di bandiera, ma ha permesso a Carlo Toto di uscire brillantemente dal suo investimento in AirOne.  Lo stesso vale per la difesa di Mediaset: non è nell’interesse dell’Italia, ma solo della famiglia Berlusconi.

Insomma un misto di incapacità e miopia politica ci impedisce una difesa dei nostri diritti economici in Italia e nel mondo, condannandoci ad un patriottismo straccione che finisce per danneggiare il nostro Paese. E poi ci stupiamo se gli Italiani stanno diventando anti-Europa? Con questa classe politica in Europa non riusciamo a sopravvivere. O la cambiamo o finiremo per uscire dall’Europa per disperazione.

Sul tema dell’Italianità delle imprese leggi anche:
– Magari con uno “straniero” a Mediaset l’Italia diventa un Paese normale
– Interesse nazionale o pretesto per distorcere le regole a favore di qualche giocatore (nostrano)?
– Per attrarre gli investitori stranieri occorre una corporate governance trasparente, non orwelliana
– Telecom, ora il rischio è che diventi pedina del gioco straniero

Qui gli altri articoli della rubrica “Alla Luce del Sole”


The right way to defend the italian firms

After the France’s cautious reaction to the acquisition by Italy’s state controlled shipbuilder Fincantieri of the naval yard in Saint-Nazaire, several readers wrote me angry letters: why must we accept French investment in Italy, when France blocks our companies from investing in their country at every turn? The question is more than fair and deserves a suitable response.

There are two ways to defend Italian companies. The first is using our diplomacy to ensure that our businesses are not unfairly discriminated against on the European or the international level. This doesn’t just mean in the case of acquisitions, like that of Fincantieri. But even more in the case of European directives handed down from Brussels, which often unfairly penalize our companies. It should be the role of our officials and politicians to ensure that decisions made at the Community level, even if they don’t favor us directly, at least do not harm our businesses.

The second way to defend Italian companies is to create political obstacles defending the acquisition of our companies by foreigners, the path suggested by Economic Development Minister Carlo Calenda in the case of a possible acquisitions of broadcaster Mediaset by France’s Vivendi.

It’s obvious that in terms of the general interest, the first path of defending the Italian-ness of Italian business is much superior to the second. Instead of leading to an escalating trade war, it contributes to strengthening a principal of impartiality that benefits everyone in the long run.

The first method is also clearly more efficient than the second in the sense that Italy is not like China, or the U.S., or even Germany, which all have a massive domestic market to defend.

For these nations, it’s worth risking retaliation in foreign markets in order to protect their massive internal market from foreign incursions. That’s not the case in Italy. Losing access to the foreign market is much more costly. That’s why a protectionist policy is myopic.

The first method of defending Italian companies is also more strategic. Italy does not have the political clout of China, the U.S. or Germany. So it cannot win international disputes with force. It can only do so with the backing of international norms and with reasoning.
So it is important for Italy to apply these norms rigorously in our country. If not, Italy wouldn’t have much legitimacy in requesting they be applied on an international level.
Why, then, does our government always seem to adopt a losing strategy?

First of all, because it’s often a strategy with an immediate, short-term payoff in terms of image.

It’s easy to stand up and shout about keeping Italian companies Italian. But it’s harder to defend the logic of Italian companies, behind the scenes in closed European Commission meeting or secret bilateral discussions with the major political representatives of other nations.

I’m afraid our bureaucracy and our governments don’t have the resources or the technical skill to elaborate and defend their ideas up at a European or global level.

On a European level, for instance, we have not been able to oppose the acceleration of the bail-in rule (initially planned for 2018) when we knew the damage it would cause our weak banking system. Why should we think that our governments can successfully contest the abuses of France and Germany?

The other reason for our losing strategy in defending national interests is that heated rhetoric by one individual or one company, while it provides no benefit for the country’s overall economic health, produces significant, immediate benefits to one or another of our businessmen.

The defense of the Italian-ness of flagship air carrier Alitalia by former Prime Minister Silvio Berlusconi and the “patriots” had no beneficial long-term effects for the nation’s flagship carrier, but it allowed Carlo Toto to come out brilliantly from his investment in AirOne.

The same goes for the defense of Mediaset: scuttling that idea is not in the interest of Italy but of the controlling shareholders, the Berlusconi family. So a combination of incompetence and political short-sightedness are preventing us from successfully defending our economic rights in Italy and in the world, condemning us to a beggarly patriotism that ends up damaging our nation.

And then we’re surprised if Italians are becoming anti-Europe? We won’t be able to survive in this European political class. Either we show we can change or we will end up leaving Europe in desperation.

Il modo giusto di opporsi a Trump: una lezione dall’Italia/ The Right Way to Resist Trump

Traduzione Italiana, a cura de Il Sole 24 Ore, dell’articolo pubblicato sul New York Times  con il titolo “The Right Way to Resist Trump.
En Español: “Lecciones de la era Berlusconi para lidiar con Trump“. 

Cinque anni fa mettevo in guardia dal rischio di una presidenza Trump. Quasi tutti ridevano. Pensavano che fosse inconcepibile.

Non è che abbia particolari doti di preveggenza: è solo che sono italiano e questo film lo avevo già visto, con protagonista Silvio Berlusconi, che è stato presidente del consiglio per un totale di 9 anni tra il 1994 e il 2011. Sapevo come sarebbero potute andare le cose.

Ora che Trump è stato eletto presidente, il parallelo con Berlusconi potrebbe offrire indicazioni utili su come evitare di trasformare una vittoria di strettissima misura in una saga ventennale. Se pensate che il limite dei due mandati e l’età avanzata del magnate possano preservare il Paese da questo fato, siete troppo ottimisti: il suo mandato potrebbe facilmente trasformarsi in una dinastia Trump.

Berlusconi è riuscito a governare così a lungo l’Italia grazie principalmente all’incompetenza dell’opposizione che aveva di fronte, così sfrenatamente ossessionata dalla sua personalità da tralasciare qualsiasi dibattito politico concreto e concentrare tutti i suoi sforzi su attacchi personali che ottenevano l’unico effetto di accrescere la sua popolarità. Il segreto di Berlusconi era la capacità di innescare una reazione pavloviana tra i suoi avversari di sinistra, che ingenerava una simpatia istantanea nella maggior parte degli elettori moderati. Trump non è diverso.

Abbiamo visto in opera questa dinamica durante la campagna per le presidenziali. Hillary Clinton era talmente concentrata a spiegare tutti i difetti di Trump che spesso e volentieri ha trascurato di promuovere le sue idee, di fornire ragioni positive per votare per lei. I mezzi di informazione erano così intenti a ridicolizzare i comportamenti di Trump che hanno finito per garantirgli una pubblicità gratuita.

Purtroppo questa dinamica non è finita con le elezioni. Poco dopo il discorso della vittoria di Trump sono scoppiate proteste in tutta l’America. Contro cosa stavano protestando queste persone? Che ci piaccia o no, Trump ha vinto in modo legittimo. Negarlo non fa che alimentare la percezione che esistano candidati «legittimi» e candidati «illegittimi», e che un’élite ristretta stabilisca quali sono gli uni e quali gli altri. Se è così, le elezioni sono soltanto un concorso di bellezza tra candidati che hanno ricevuto la benedizione dei chierici del Consiglio dei guardiani, come in Iran.

Queste proteste sono anche controproducenti. Ci saranno mille motivi per lamentarsi durante la presidenza Trump, quando verranno prese decisioni pessime. Perché lamentarsi adesso, quando non è stata presa ancora nessuna decisione? Delegittima le future proteste e rivela i pregiudizi dell’opposizione.

Anche la petizione che chiede ai membri del Collegio elettorale di violare il loro mandato e non votare per Trump potrebbe fare il gioco del presidente eletto. È un’idea incauta. Su quali basi potremmo protestare in futuro, quando Trump truccherà le carte per ottenere ciò che vuole?

L’esperienza italiana offre un modello per sconfiggere Trump. Solo due uomini in Italia hanno vinto una competizione elettorale contro Berlusconi: Romano Prodi e l’attuale presidente del consiglio Matteo Renzi (anche se nel secondo caso si trattava soltanto di elezioni europee). Tutti e due hanno trattato Berlusconi come un avversario normale e si sono concentrati sulle questioni, invece che sul personaggio. In modi diversi, tutti e due sono visti come outsider, e non come membri di quella che in Italia viene definita «la casta».

Il Partito democratico in America dovrebbe imparare la lezione. Non deve fare quello che hanno fatto i Repubblicani dopo l’elezione del presidente Obama. La loro opposizione preconcetta a qualunque sua iniziativa ha avvelenato il pozzo della politica nazionale, alimentando la reazione anti-establishment (anche se per il partito si è rivelata una strategia elettorale vincente). Ci sono moltissime proposte di Trump con cui i Democratici possono concordare, per esempio i nuovi investimenti in infrastrutture. La maggior parte dei Democratici, inclusi politici come Hillary Clinton e Bernie Sanders ed economisti come Lawrence Summers e Paul Krugman, hanno perorato l’idea delle infrastrutture come mezzo per incrementare le domanda ed espandere l’occupazione tra i lavoratori senza un livello di istruzione superiore. Potranno esserci delle differenze di dettaglio con il piano dei Repubblicani, ma l’opposizione democratica guadagnerà credibilità se cercherà di trovare i punti in comune, invece di focalizzarsi unicamente sulle differenze.

E un’opposizione focalizzata sulla personalità di Trump lo incoronerebbe come guida delle masse nella lotta contro la casta di Washington. E indebolirebbe la voce dell’opposizione sulle questioni dov’è importante condurre una battaglia di principio.

I Democratici, inoltre, farebbero bene a offrire a Trump una sponda contro l’establishment repubblicano, un’offerta che lo costringerebbe a rivelare se il suo populismo sono soltanto parole o posizioni reali. Per esempio, con l’incoraggiamento di Trump, il programma repubblicano invocava la reintroduzione della legge Glass-Steagall, che separava l’attività delle banche d’affari da quella delle banche commerciali. I Democratici dovrebbero dichiarare il loro sostegno a questa separazione, una misura a cui molti Repubblicani sono contrari. L’ultima cosa che dovrebbe volere l’opposizione è che Trump possa usare l’establishment repubblicano come foglia di fico per i suoi fallimenti, rovesciando su di esso la responsabilità di aver bloccato le riforme popolari che ha promesso durante la campagna e probabilmente non ha mai avuto intenzione di mettere in pratica. Una cosa del genere non farebbe che ingigantire la sua immagine di eroe del popolo ostacolato dalle élite.

Infine, il Partito democratico dovrebbe trovare un candidato credibile tra i leader giovani, una persona al di fuori dei bramini del partito. La notizia che Chelsea Clinton sta pensando di presentarsi alle elezioni è la peggiore che si possa immaginare. Se il Partito democratico si sta trasformando in una monarchia, come può pensare di combattere le tendenze autocratiche di Trump?


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Brexit e Trump: le radici della protesta sono simili (e l’intellighenzia si ostina a demonizzarle)

Articolo pubblicato su L’Espresso

Sarà per la “relazione speciale” con l’Inghilterra, sarà per il desiderio di sfruttare la vicenda a fini elettorali, ma negli Stati Uniti la Brexit ha occupato le prime pagine di tutti i giornali. Involontariamente, il miglior commento è stato formulato dal candidato repubblicano Donald Trump.

Appena arrivato nelle sue proprietà in Scozia, Trump ha twittato che i locali «stavano celebrando il voto. Si sono riappropriati del proprio Paese, come noi ci riprenderemo l’America». Peccato che gli scozzesi abbiano votato a favore di rimanere nell’Unione Europea e ora stiano pensando di indire un referendum per riprendersi veramente il proprio Paese, secedendo dal Regno Unito e restando nella Ue.

Il tweet è emblematico perché dimostra come in America (e forse non solo lì) ci sia un’enorme ignoranza, anche tra le persone più istruite, su cosa sia veramente Brexit e quali conseguenze possa avere. Ma è anche emblematico perché dimostra le emozioni prodotte da Brexit in America.

Prima ancora delle conseguenze economiche (che dipendono dal risultato di trattative molto complicate sul futuro delle relazioni tra Ue e Regno Unito), la Brexit ha avuto un forte impatto emotivo. Manda un forte segnale che il processo di integrazione non è irreversibile.

Se questo vale per l’Europa, può valere anche per gli Stati Uniti. Non a caso qualcuno in Texas parla di secessione. Una tentazione tanto più forte quanto più elevato sarà il prezzo del petrolio. Crea anche delle speranze che si possa fermare, se non invertire il processo di globalizzazione, un processo che ha prodotto nel complesso benefici economici, ma ha colpito in modo sproporzionato le classi medie.

Ma la connessione più forte con il voto su Brexit riguarda le polemiche sull’immigrazione. Anche se non è chiaro che il voto cambi la situazione, non c’è dubbio che il risultato sia stato in gran parte determinato da un fenomeno di rigetto nei confronti degli immigrati. Nelle aree dove erano maggiormente presenti, il voto per Brexit ha raggiunto l’80%.

Questo è il carburante che negli Stati Uniti ha alimentato il voto per Trump. Non a caso il ”New York Times” si affretta a sottolineare la differenza tra i due fenomeni, per paura che l’analogia trascini alla vittoria il candidato repubblicano. Ed è vero che l’America è molto più etnicamente diversa del Regno Unito e le minoranze – in particolare gli ispanici – detengono una quota di voti molto rilevante in Stati determinanti, come quello della Florida. È troppo tardi per salvare l’America bianca: quest’anno per la prima volta i bambini bianchi non sono la maggioranza nella coorte che entra in prima elementare.

Ma c’è un terzo aspetto, molto importante, che non viene sufficientemente sottolineato: il fallimento dei sondaggisti e dei mezzi di comunicazione di anticipare e capire il fenomeno Brexit. Questo fallimento è simile a quello visto negli Stati Uniti con Trump. Lo stesso partito repubblicano si è accorto del pericolo troppo tardi. Il motivo è molto semplice: entrambi questi voti di protesta nascono dalle periferie, dai colletti blu, dai meno abbienti, mentre i giornalisti – soprattutto in un mondo internet – sono diventati molto più urbani, cosmopoliti e completamente distaccati culturalmente dal mondo che ha votato Brexit, che è poi quello che sostiene Trump.

Tranne per i tabloid popolari in mano a Murdoch, tutta la stampa inglese sosteneva le ragioni dell’Unione Europea, al punto da considerare irrazionali (per non dire stupidi) i sostenitori della Brexit.

Non è diverso da quello che abbiamo sperimentato in Italia con Berlusconi. Ed è quello che sta succedendo negli Stati Uniti con Trump. Invece di capire le ragioni del dissenso e rispondere con delle proposte che possano sottrarre voti alla rivolta, l’intellighenzia americana continua a demonizzare Trump, aumentando il rischio che sia eletto presidente. Parafrasando Goya, si potrebbe dire che l’arroganza della ragione genera mostri. Ha generato Berlusconi. Ha generato Brexit. Ora dobbiamo assolutamente evitare un Trumpxit. Per il mondo avrebbe conseguenze infinitamente più serie.

Berlusconi riscopre il bimetallismo

“Creare una seconda moneta che possa essere stampata da noi e messa sul mercato che poi valuterà il cambio con l’euro.”
Con questa dichiarazione Berlusconi ha lanciato ieri la fase due del suo riposizionamento entieuro (v. mio post “Berlusconi comincia la campagna contro l’euro?”). Anche se infattibile all’interno dei trattati esistenti (ma i trattati possono sempre essere rinegoziati), la proposta avanzata da Berlusconi va discussa.

È possibile tecnicamente avere due monete? Se sì, è questa la soluzione giusta?

La risposta al primo quesito è affermativa. Nella seconda meta del XIX secolo gli Stati Uniti avevano due monete: una basata sull’oro, l’altra sull’argento. Il tasso di cambio tra le due fluttuava. Durante i periodi di crisi, molti paesi dell’America Latina hanno operato con due valute: quella locale e il dollaro. Il dollaro è stato usato per tutti i beni “tradeable” (ovvero con un mercato internazionale), mentre la valuta locale per tutti i beni non tradeable (senza un mercato internazionale), inclusi i salari. Questo ha permesso la massima flessibilità di aggiustamento.
Teoricamente lo stesso si potrebbe fare con l’euro e con la lira. Ma questo risolverebbe i problemi dell’Italia?

Affinché le lire fossero accettate come valuta di scambio, lo Stato Italiano dovrebbe accettarle in pagamento delle proprie imposte. Siccome la moneta cattiva scaccia quella buona, tutte le imposte finirebbero per essere pagate in lire. Questo trasformerebbe immediatamente il debito pubblico italiano in debito in valuta estera, con i problemi di sostenibilità che questo comporterebbe.
O si ridenomina anche il debito in lire o il debito diventa insostenibile. Se il debito viene ridenominato, abbiamo tutti i rischi connessi ad un’uscita dall’euro (corsa agli sportelli, default delle imprese indebitate in euro, etc.).
Quindi il bimetallismo non risolve i problemi di transizione.

La doppia moneta non risolve neppure il problema cruciale di ogni proposta alternativa all’euro (v. mio precedente post su Grillo) ovvero come si pensa di gestire la politica monetaria una volta usciti dall’euro.
Su questo nessuno è chiaro.

Berlusconi comincia la campagna contro l’euro?

La proposta, lanciata da Grillo, di un referendum sull’euro ha già sortito un effetto: le condizioni di Berlusconi per la permanenza dell’euro. In un intervento telefonico durante un convegno del partito sull’UE a Quartu (Cagliari), Berlusconi ha preso per la prima volta una posizione molto chiara sulla moneta unica (http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-10-25/berlusconi-si-moneta-unica-solo-tre-condizioni-122558.shtml). Affermando che “non si può più andare avanti, serve un cambiamento”, Berlusconi ha messo le seguenti tre condizioni per la sopravvivenza della moneta unica:
1) La BCE deve diventare il finanziatore di ultima istanza dei governi europei
2) La BCE deve controllare il tasso di cambio con il dollaro per mantenerlo in parità
3) La BCE deve seguire le politiche di quantitative easing del Giappone e gli Stati Uniti.

Delle tre condizioni solo la terza è vagamente fattibile all’interno dei trattati esistenti (anche se incontra la feroce opposizione dei tedeschi). La seconda è contraria al mandato della BCE e molto pericolosa a livello internazionale perché potrebbe innescare una guerra al ribasso tra valute che avrebbe effetti devastanti sul commercio internazionale. La prima non solo è contraria ai trattati costitutivi della BCE, ma è la cosa contro cui tutti i banchieri centrali si schierano. Sarebbe come ritornare alla situazione precedente al “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia del 1981. I tedeschi (e non solo) preferirebbero uscire non solo dall’euro, ma dalla stessa Unione Europea piuttosto che accettare questa condizione.
Si potrebbe pensare ad una sparata casuale (Berlusconi non è insolito a questo genere di cose), ma è troppo ben articolata per non essere stata preparata.
Berlusconi sta mettendo delle condizioni impossibili per iniziare la sua campagna antieuro?