Banche, quella commissione d’inchiesta che non s’ha da fare

Testo dell’articolo pubblicato il 10.09.2017 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole”. 

“Sì alla commissione d’inchiesta” sulle crisi bancarie, dichiarava Renzi nel 2015, rispondendo alle molte richieste in questo senso. Dopo 2 anni, la commissione, istituita solo lo scorso luglio, deve ancora partire. Difficilmente, da qui alla fine della Legislatura, riuscirà a fare alcunché.

In assenza di un’inchiesta, i cittadini devono accontentarsi dei libri sull’argomento. A Marzo, Greco e Vanni hanno pubblicato “Banche Impopolari” (Mondadori), un racconto utile e dettagliato sulla storia del nostro sistema bancario. Qualche mese dopo sono stati depositati gli atti di citazione contro i vertici delle Popolari Venete, basati sulle indagini interne effettuate dal nuovo management.

C’è da prendere paura. Per esempio, il cda della BPVi ha accordato 50 milioni di prestiti al sig. Ravazzolo “in assenza di analisi economico-reddituali sul cliente” (non venivano fornite né le dichiarazioni dei redditi, né informazioni di dettaglio sugli immobili), senza garanzie, nonostante il Nucleo Analisti di Direzione avesse segnalato l’opportunità di adeguato “supporto garantistico”. Ma si tratta di un atto di citazione. Decideranno i giudici la fondatezza di queste accuse. Sempre che i processi si celebrino, perché in Non c’è spazio per quel giudice, di Cecilia Carreri (Mare Verticale), scopriamo che un processo contro Zonin non venne mai celebrato. Nel 2001 Bankitalia aveva effettuato un’ispezione da cui erano nati pesanti rilievi al CdA e una denuncia all’autorità giudiziaria. Dall’indagine che ne seguì emerse “una continua commistione tra interessi istituzionali della BPVi e interessi personali o societari del tutto estranei”. Il processo non avvenne mai.
Invece, un processo celebrato (anche se solo in 1° grado) è quello descritto nel libro di Carlotta Scozzari Banche in sofferenza (GoWare), sulla Carige. Visto che in Italia la presunzione di innocenza vale fino alla sentenza passata in giudicato (ovvero per i reati economici fino a quando la prescrizione libera tutti), quanto riferito nel libro non deve essere interpretato come verità assodata. Ciononostante è interessante scoprire che secondo i giudici Giovanni Berneschi, padre padrone di Carige, gestiva da anni un’associazione a delinquere usando il trucco più vecchio del mondo: dei sodali compravano immobili a 100 e li rivendevano a Carige Vita a 200. Scrivono i giudici: “l’anomalo incremento dei prezzi degli immobili in percentuali macroscopicamente elevate in brevissimo tempo è emerso in maniera evidente: gli immobili – prevalentemente a destinazione alberghiera – venivano acquistati da società del gruppo Cimatti e, in seguito, del gruppo Cavallini e rivenduti nel giro di pochi giorni – se non addirittura lo stesso giorno – agli istituti assicurativi, subendo una lievitazione di prezzo ben lontana dal margine normalmente tollerato.” In sostanza il gruppo Cavallini ha acquistato immobili per 71 milioni di euro rivendendoli a Carige Vita a più del doppio. Il tutto per anni.

“La magistratura ha strumenti d’indagine – mi si dirà – che consiglieri, presidenti di società, perfino le autorità di vigilanza non hanno. Quindi non è colpa loro se non hanno visto. Non c’è governance che possa evitare tutte le frodi”. Ma ciò può essere vero per operazioni complicate, non per semplici acquisti d’immobili a prezzi gonfiati, facili da prevenire. Basta che le regole interne di una società quotata prevedano l’identificazione dei proprietari effettivi di tutte le imprese da cui la società stessa acquista. Perdere qualche legittimo affare perché un venditore non vuole rivelare i propri azionisti è un piccolo prezzo da pagare per evitare frodi di questo tipo. Inoltre, in tutti gli acquisti l’audit interno di una società quotata dovrebbe monitorare le deviazioni significative dei prezzi dagli standard di mercato.

Né frodi, né mala gestio bastano a spiegare le crisi bancarie, ma, come dice Warren Buffett, “quando c’è bassa marea si scopre chi nuota nudo.” Ed è durante le crisi economiche che si scopre chi ruba e chi è incompetente. Anche se gli inetti e i ladri non sono la sola causa della crisi, perché non approfittare della crisi per mandare a casa i primi e sbattere in galera i secondi? Almeno c’è la speranza di ripartire dopo la crisi con una classe dirigente migliore.


“La commissione d’inchiesta sulle banche è praticamente svanita: si è persa un’altra occasione per imparare dai propri errori e avere una classe dirigente migliore.”

Lo scopo delle indagini non è solo quello di mettere in galera i colpevoli, ma anche quello di imparare dagli errori. Così, la totale trasparenza societaria delle controparti di società quotate è una condizione semplice per evitare questo tipo di frode. In Italia è adottata da tutte le quotate? Purtroppo lo scorso autunno abbiamo scoperto che non era adottata neanche dal Gruppo 24 Ore, proprietario di questo giornale. Con i problemi che sono emersi. Sarebbe opportuno che la Consob richiedesse alle quotate almeno di dichiarare se seguono questa best practice.

Questo è solo un piccolo esempio dei benefici che si sarebbero potuti ottenere da una seria Commissione d’Inchiesta. Purtroppo è un’altra occasione perduta. Pur con tutte le sue lentezze, non ci resta che sperare nella magistratura. Sempre che non arrivi prima la prescrizione.


Qui altri miei articoli sul tema “banche”.

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Il nostro Far West finanziario attira solo i cowboy

Testo dell’articolo pubblicato il 30.07.2017 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole”. 

Anche Flavio Cattaneo ha lasciato Tim, o meglio è stato accompagnato all’uscita a suon di milioni (si dice 25 milioni, ma per saperlo esattamente si dovrà aspettare il bilancio di fine anno).
Prima di lui era capitato a Marco Patuano nel 2016 (con una buonuscita di “solo” 7 milioni) e nel 2013 a Franco Bernabè (con una buonuscita di 6,6 milioni). Nel giro di quattro anni, ben tre cambi al vertice motivati da trasferimenti tra gli azionisti principali e tensioni con l’azionista. Oggi tutti urlano allo scandalo per una Tim francese, ma il vero scandalo è che una delle nostre principali aziende è stata mal gestita per decenni e oggi è solo l’ombra di quello che era.

 Leggi anche: “Gli stipendi degli AD e quei paracadute troppo grandi” 

Si dirà che è colpa della privatizzazione e colpa del mercato. Certamente la privatizzazione è stata fatta male. Per massimizzare i ricavi, si ignorarono le caratteristiche del mercato italiano (che a differenza degli altri Paesi non possedeva una rete di tv via cavo) e non si separò la rete dal resto, sostituendo ad un monopolio pubblico un monopolio privato. Si privatizzò con l’obiettivo di mantenere l’azienda in mani italiane, invece che farla prosperare. La Nuovo Pignone fu venduta alla General Electric, e oggi è un’impresa molto più grande di quello che era all’epoca, che impiega più lavoratori in Italia di quelli che erano impiegati allora. A dimostrazione che non conta il passaporto dell’azionista di controllo, ma la sua capacità gestionale.

Quali sono le colpe del mercato? Il mercato non è un’entità astratta, ma un insieme di regole che disciplinano la libertà economica degli individui. Nella visione di Einaudi, la figura centrale del mercato sono i carabinieri che una volta presidiavano le fiere di paese. Se ci sono furti in fiera, non è colpa del “mercato”, ma dei carabinieri che non fano rispettare la legge.


Spetta alla Consob far rispettare le regole.
Perché ha aspettato tanto? 


Lo stesso vale nel nostro mercato azionario, dove la figura del carabiniere, però, è rimpiazzata da quella della Consob. Spetta alla Consob fare rispettare le regole, garantendo che le imprese siano gestite nell’interesse di tutti gli azionisti e non solo di chi ha più azioni. Uno dei principi fondamentali in questa supervisione è l’identificazione di chi in pratica controlla una società (il cosiddetto controllo di fatto). Dal 2003 il codice civile è molto chiaro su questo punto e – tra le altre condizioni – considera controllate “le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria” (articolo 2459). Non occorre essere un giurista per capire che Telecom prima e Tim poi erano controllate da Olimpia (Tronchetti Provera), Telco, e alla fine Vivendi (almeno da quando la società francese ha imposto la sua maggioranza del consiglio). Ma la Consob si è svegliata solo ora. Tanto che giovedì Vivendi ha “volontariamente” dichiarato la direzione e coordinamento di Tim, solo per evitare possibili sanzioni.

Perché la Consob ha aspettato così tanto? Perché una delle conseguenze della direzione e coordinamento (almeno in Italia) è il consolidamento dei bilanci. Olimpia e Telco avrebbero dovuto consolidare i bilanci, esponendo la reale quantità di debito in capo al gruppo. Ma altrettanto dovrebbe fare Mediobanca con Generali.
Il secondo punto dolente sono le operazioni con parti correlate. In Italia queste operazioni non sono l’anomalia, ma il modello di business. Per fortuna, dal 2010 esiste un regolamento che le disciplina, ma quante sanzioni ha comminato la Consob per farlo rispettare?


Non è colpa dello straniero. Siamo noi che dobbiamo far rispettare le regole. 


Il problema non è tanto il controllo di Tim da parte di uno straniero. Se lo straniero è come General Electric, ben venga. Il Regno Unito non “possiede” alcuna casa automobilistica, ma produce più automobili dell’Italia. Il problema è il controllo da parte di un finanziere spregiudicato che, con le nostre regole, potrà fare il bello e cattivo tempo. Ma non è colpa dello straniero, è colpa nostra che non facciamo rispettare le regole. Davigo ha scritto che se ci sono molti criminali rumeni nel nostro Paese, non è perché i rumeni sono più criminali degli italiani, ma perché nel nostro Paese è più facile delinquere impunemente, quindi attiriamo i criminali.
Un ragionamento analogo vale per il nostro mercato finanziario. Il nostro Far West attira solo spregiudicati cowboy. Ma la colpa è nostra, non dei cowboy.

(Luigi Zingales è stato dal 2007 al 2014 amministratore indipendente di Telecom)


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L’Unione Bancaria si infrange sul Piave

Articolo pubblicato su “Il Sole 24 Ore” il 25.06.2017 nella Rubrica Alla Luce del Sole 

Per le due banche popolari venete non poteva finire in modo peggiore. Ci perderanno i contribuenti, che dovranno pagare circa due anni di Imu sulla prima casa per ripianare il buco che si creerà con la liquidazione coatta amministrativa delle due banche. Ci perderanno i clienti, che al posto di tre linee di credito (da Veneto Banca, BPVi, e Banca Intesa) se ne troveranno solo una di gran lunga inferiore alla somma delle tre. Ci perderanno i dipendenti che negli ultimi 18 mesi hanno visto scappare i depositanti, i clienti e le opportunità di mercato e che presto saranno “efficientati” nel nome del consolidamento. Ma soprattutto ci ha perso la credibilità delle istituzioni italiane ed europee, per come l’intera vicenda è stata gestita.

In nome del principio secondo cui il costo dei fallimenti bancari deve essere pagato dagli investitori e non dai contribuenti, l’Europa aveva introdotto la regola del bail-in: ad assorbire le perdite dovevano essere i creditori subordinati, poi quelli senior, per arrivare anche ai depositi sopra i 100mila euro. L’Italia, pur sapendo che le nostre banche avevano venduto subordinati e obbligazioni a clienti inconsapevoli, non si era opposta con sufficiente forza né all’approvazione di questa regola, né alla sua introduzione anticipata al primo gennaio 2016.

Ma quella stessa Europa che si era opposta a qualsiasi tentativo di salvare le banche venete attraverso un intervento statale in nome di un principio, ha gettato il principio alle ortiche quando si è trattato di liquidarle, permettendo al governo italiano di intervenire per rimborsare tutti i creditori, anche quelli che non erano stati truffati. Al tempo stesso, lo Stato italiano che non aveva avuto la forza di ritardare l’introduzione della regola, che non aveva trovato in 18 mesi una soluzione per salvare le due popolari, ha trovato una scappatoia legale per salvare chi? Non certo i risparmiatori truffati, che avrebbero comunque ricevuto un rimborso. Solo gli investitori furbi (o bene informati), che ancora 10 giorni fa compravano al 30% del nominale debito in scadenza di Veneto Banca, che valeva zero e nel prossimo futuro sarà rimborsato alla pari. *
La scelta di rimborsare in toto i creditori non ha una logica economica, ma una politica: si cerca di contenere la rabbia in vista delle prossime elezioni.

Nel maldestro tentativo di prolungare l’agonia di qualche giorno, il Governo italiano ha anche introdotto un pericolosissimo precedente. Dieci giorni fa ha posticipato per decreto la scadenza di un’obbligazione di Veneto Banca. Se il bond fosse stato detenuto dalle grande banche di investimento internazionali, la notizia sarebbe stata sulla prima pagina del Financial Times, ma per qualche vecchietto veneto si muove a stento il Gazzettino. Decisioni come questa spiegano perché in Italia non ci si fida né dello Stato, né delle banche.

Il mercato finanziario si basa sulla fiducia: fiducia che i contratti saranno rispettati e non cambiati in corsa, a seconda del potere politico del contraente. Il decreto del governo mina questa fiducia e crea un pericolosissimo precedente. Quello che è stato fatto per Veneto Banca può essere ripetuto un domani per un’altra banca, o per il governo stesso. Questo è il motivo per cui gli investitori internazionali vogliono titoli emessi secondo il diritto inglese. Ma il nostro debito pubblico è per la stragrande maggioranza emesso sotto il diritto italiano e quindi può essere consolidato in qualsiasi momento con un decreto simile a quello approvato l’altro venerdì dal governo. All’estero si domandano se abbiamo assistito alle prove generali del default della Repubblica Italiana.

Due banche sono morte, uccise non solo dalla cattiva gestione precedente, ma anche dall’incertezza sul futuro, che le ha ulteriormente depauperate. Sono state immolate sull’altare dell’unione bancaria e dell’Europa. Ma sono morte invano. La speranza di una vera unione bancaria si è infranta sul Piave: l’escamotage scelto dal nostro governo svuota l’intera Bank Resolution Recovery Directory e rimanda alle calende greche la possibilità di un’assicurazione europea sui depositi. Perché mai i tedeschi dovrebbero assicurare con i propri soldi chi cambia le carte in tavola?

Ma è la stessa idea di Europa che viene messa in dubbio, almeno nella formulazione cara a molti: l’Europa come fonte di disciplina che costringe i nostri governi a scelte giuste, ma politicamente costose. Nella vicenda delle popolari venete, abbiamo visto il peggio da entrambi i lati. Delle regole logiche (come il bail-in), ma non adatte al nostro sistema economico, vengono applicate in modo arbitrario da una gruppo di sedicenti tecnocrati, più interessati alla sopravvivenza del sistema che li ha generati che a quello dell’economia dei Paesi amministrati. E lungi dal servire da busto ortopedico per raddrizzare l’operato del nostro governo, queste regole servono da scudo per coprire gli errori e gli interessi di chi ci governa. Il risultato è un papocchio che rende l’Italia ancora più inaffidabile di prima.

Al tempo del fallimento del vecchio Banco Ambrosiano fecero molto meglio Andreatta e la Banca d’Italia di allora. È triste che la Seconda Repubblica ci faccia rimpiangere la Prima, ma ancora più triste che a farcela rimpiangere sia anche l’Europa.


*Errata corrige: Un lettore mi ha gentilmente fatto notare che il bond la cui scadenza è stata allungata era un subordinato e quindi riceverà zero, non sarà pagato al 100%. Quest’errore (di cui mi scuso con i lettori)  elimina la preoccupazione che i bene informati ci abbiano guadagnato, non cambia il resto del ragionamento.

Problemi e prospettive del sistema bancario in Italia (video)

Video del mio intervento al convegno “La tutela del risparmio e le prospettive del sistema bancario in Italia – In memoria di Renzo Soatto”, svoltosi a Padova il 25 Febbraio 2017.

Quelle banche condannate a cambiare (in fretta) – Video

Il 31 marzo scorso, nell’ambito del Festival Città Impresa diretto da Dario Di Vico, si è svolto un confronto tra Ferruccio de Bortoli e me, sul tema delle banche. Qui di seguito il video dell’incontro, che è stato moderato da Nicola Saldutti.


Qui altri miei articoli sul tema “banche”.

Orrori bancari, la responsabilità non è delle famiglie (che hanno ripagato il 95% dei debiti). Il Caso Veneto.

Intervista pubblicata su Corriere Imprese NordEst il 13 Marzo 2017, a cura di Alessandro Macciò.

Il suo lavoro, presentato all’Università di Padova nel corso di un convegno sulla tutela del risparmio, sarà anche “artigianale” come ha detto, ma rende bene l’idea. Luigi Zingales, docente padovano di Finanza alla University of Chicago Booth School of Business, ha preso la lista dei primi trenta debitori della Banca Popolare di Vicenza, resa nota dal TG La7 di Enrico Mentana, ha spostato indietro le lancette di qualche anno e ha fatto un po’ di calcoli. Il risultato è che nel 2008, quindi agli albori della crisi, il 35% di questi clienti (che alla fine del 2015 rappresenteranno il 29% delle sofferenze in bilancio di Bpvi) navigava già in cattive acque, con un rapporto medio tra posizione finanziaria netta e margine operativo lordo ampiamente sopra la soglia fissata per ottenere il credito. Dal sospetto alla certezza, per Zingales il passo è breve. “Le banche non hanno fatto bene il loro mestiere”. Al convegno del Bo, organizzato dallo studio Cortellazzo&Soatto, c’era anche il viceministro Morando. E Zingales ha colto la palla al balzo per spronare il governo a indagare sui grandi debitori delle banche Venete.

Professor Zingales, partiamo dal quadro internazionale. Brexit, Trump, spinte populiste: quali sono le ripercussioni economiche sul sistema economico del Nordest?
Il clima politico certamente non aiuta e le tensioni nell’Area Euro possono avere un riverbero negativo, ma nel caso si può dire che piove sul bagnato: l’Italia sta uscendo dalla crisi troppo lentamente e con ripercussioni eccessive in certi settori. I Non performing loan (Npl, cioè i crediti deteriorati delle banche che i debitori non riescono a ripagare) ci dicono che le famiglie sono state virtuose e che i problemi di concessione del credito hanno riguardato soprattutto l’edilizia. In Spagna i prezzi degli immobili sono crollati molto più che in Italia, eppure il tasso di non performing loan raggiunge il 35% delle imprese Spagnole e il 50% di quelle Italiane: questo livello di perdite è difficile da spiegare, per fare meglio bastava buttare i soldi a caso. La domanda quindi è: perché la vigilanza non si è accorta di questi errori sistematici? Per evitare di ripeterli serve un’indagine seria, come quelle dell’aviazione americana dopo gli incidenti aerei.

 

Finora si conosce la lista dei primi trenta debitori di Bpvi. Cosa emerge dall’analisi?
Viene da chiedersi perché i responsabili della banca abbiano esteso il credito e non abbiano fatto qualcosa per evitare l’aumento dei debiti. E la vigilanza?  Ha visto e non poteva intervenire, o non ha proprio visto? Nel primo caso bisogna adottare nuovi strumenti, nel secondo bisogna fare altri tipi di riflessione. Manca la pistola fumante, ma le domande sono forti.

Oltre a Bpvi, anche Veneto Banca ha rischiato il default e si è salvata solo grazie all’intervento del fondo Atlante. Qual è il suo giudizio sulla vicenda delle due ex Popolari Venete?
Un sistema di grandi banche con capitali di rischio a prezzi fatti in casa era sbagliato dal principio, ma ci sono gravi colpe di chi ha guardato dall’altra parte. Dove sono oggi i commercialisti che hanno validato i prezzi delle azioni? Dov’erano le autorità di vigilanza, anche la Consob, quando le banche hanno approvato gli aumenti di capitale? Nel 2014 ho scritto più volte che serviva più trasparenza sui prezzi e che le semplici spiegazioni allegate ai prospetti non bastavano: la mia non è una critica ex post, ma fatta sul momento. Per tutta risposta c’è stato un silenzio di tomba, e gli investitori hanno perso tutto.

Il piano di rilancio di Bpvi e Veneto Banca prevede la fusione tra i due istituti: le sembra la soluzione corretta? 
Oggi la situazione è molto brutta: servirà un aumento di capitale massiccio e il fondo Atlante non può sostenerlo. La domanda a questo punto è: lo Stato azzererà l’investimento in Atlante o no? Per me sì, perché Atlante è un soggetto privato che ha investito e ha perso. Per ridurre le perdite si farà un consolidamento che comporterà la riduzione dei posti di lavoro e una concentrazione delle forze bancarie: quando c’è una fusione in vista e le banche parlano di sinergie, il risultato sono tagli sui costi del personale e sul potere di mercato.

Se l’operazione andrà in porto, quale scenario dobbiamo aspettarci? 
Il Veneto avrà un sistema bancario più snello e la fusione peggiorerà le cose, è inevitabile. Il governo Italiano dovrebbe seguire l’esempio di quello Spagnolo, che ha ricapitalizzato il settore bancario e oggi assiste a una crescita economica superiore al 3%. In Italia invece si fanno solo interventi tampone, troppo tardi e con risorse inadeguate: per mettere la parola fine al problema c’è bisogno di una svolta.


Qui altri miei articoli sul tema “banche”

Banche, non si gioca con la Commissione d’Inchiesta

Testo dell’articolo pubblicato il 10.01.2017 su “Il Sole 24 Ore”. 

Le crescenti perdite dovute a crediti deteriorati hanno già portato all’intervento dello Stato in Monte dei Paschi di Siena e rischiano di portare ad un intervento statale in altre banche.

Sull’onda della rabbia scatenata da quest’intervento la proposta di pubblicare i nomi dei primi 100 debitori insolventi di MPS sembra trovare consenso da più parti, non ultima dal Presidente dell’Associazione Bancaria Italiana (ABI) Antonio Patuelli.  Continua a leggere

Interesse nazionale o pretesto per distorcere le regole a favore di qualche giocatore (nostrano)?

La mia risposta a Il Foglio sulla questione dell'”Italianità” e “difesa degli asset strategici” dagli stranieri.

Bisogna ricordare che l’entrata degli investitori stranieri non danneggia gli operai né l’economia in generale, ma danneggia una piccola fetta dell’establishment locale 

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Banche: dobbiamo capire cosa non ha funzionato, per evitare che si ripetano gli errori (intervista)

Testo dell’intervista pubblicata su Il Fatto Quotidiano il 3.01.2017, a cura di Carlo Di Foggia.

“Senza una commissione d’inchiesta sul sistema bancario, l’Italia è condannata a ripetere gli errori del passato”.  Dall’Università di Chicago, dove insegna Finanza, l’economista Luigi Zingales lancia un appello alla classe dirigente ora che il governo ha approvato il soccorso al Monte dei Paschi (e non solo).
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Monte dei Paschi, come evitare un altro scandalo

Testo dell’articolo pubblicato l’11.12.2016 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole”.

Anche se la notizia non è ancora ufficiale, le principali agenzie internazionali la riportano come un fatto certo: la Banca Centrale Europea (Bce) ha rifiutato l’estensione di 20 giorni del termine entro il quale Mps deve aver completato la ricapitalizzazione di 5 miliardi. La decisione era largamente prevedibile. Mps ha avuto 5 mesi di tempo per realizzare questa operazione. Se non c’è riuscito in 5 mesi, cosa potranno 20 giorni in più? È vero che la crisi di governo non ha aiutato la situazione, ma neppure prima c’era la ressa per investire. Quella che fin dall’inizio sembrava una missione impossibile, si è rivelata tale.

Ma la BCE ha un altro motivo per non rimandare. Il 31 dicembre finirà la sua ispezione dei crediti “in bonis”, ovvero dei prestiti a debitori solventi. Si tratta di un’ispezione di routine, ma il risultato potrebbe essere tutto tranne che routinario. Molte banche, quando sono in crisi, applicano la tecnica di estendere il credito, magari aumentando il fido, per coprire le difficoltà finanziarie del cliente. Nel mondo bancario questa pratica ha addirittura un nome: evergreening. Difficile pensare che una banca in crisi da anni, come Mps , non lo abbia praticato almeno un po’. La domanda inquietante è quanto. La risposta verrà a gennaio e potrebbe aprire un altro buco nei conti: una buona ragione per non rimandare la ricapitalizzazione.

La domanda stessa alla Bce sembra essere una tattica politica. La vittoria del No al referendum non era una sorpresa: dall’inizio di settembre era in vantaggio nei sondaggi. Come è possibile che Mps non abbia preparato un piano B?  E se questo piano B prevedeva un rinvio della decisione, possibile che Mps ed il governo non abbiano preventivamente sondato la Bce sulle sue intenzioni? Mi rifiuto di credere che entrambe queste mosse non siano state fatte, sarebbe un segnale sulla qualità della nostra classe dirigente ben più preoccupante della crisi del Mps.

L’unica ragionevole spiegazione è che questa domanda di rinvio sia stata fatta sapendo che sarebbe stata rigettata, solo per scaricare sulla Bce la responsabilità del bail-in delle obbligazioni subordinate, che verranno trasformate in azioni. Rimane da capire in che termini avverrà questo bail-in: in particolare come verranno tutelati gli investitori al dettaglio a cui questi subordinati sono stati venduti senza spiegazioni adeguate.

Ci sono due modi per ovviare a quest’errore. Il primo è che lo Stato si compri sul mercato tutta l’emissione che era stata venduta alla clientela retail. Rimane da stabilire il prezzo, che non deve essere necessariamente il 100% del valore facciale. Vista l’alternativa, i risparmiatori accetterebbero di buon grado anche un valore pari all’80%. Ma rimane il rischio di cause per il 20% mancante. Quindi è facile che l’offerta avvenga al valore nominale. Questo significa un esborso per lo Stato intorno ai due miliardi (il costo è inferiore perché lo Stato riceverebbe in cambio le azioni ottenute dalla conversione dei subordinati). L’alternativa è rimborsare gli investitori retail dopo la conversione dei subordinati e in cambio della cessione delle azioni in cui questi subordinati saranno convertiti.

Questo secondo metodo ha due vantaggi. Il primo è la rapidità. Per quanto veloce, un’offerta pubblica di acquisto richiede tempi tecnici (permesso della Consob, periodo di offerta, ecc.). Con le feste imminenti, difficilmente il tutto potrebbe essere completato entro la fine dell’anno. La seconda è che in un’offerta pubblica è difficile (se non legalmente impossibile) discriminare in base all’identità del venditore, mentre in un rimborso lo è. Questo significa che in un’offerta pubblica anche tutti gli hedge fund che hanno comprato in questi mesi i titoli dagli investitori individuali si troverebbero a beneficiare dell’acquisto al nominale, realizzando guadagni da favola. Nel caso del rimborso, invece, sarebbe relativamente facile limitarlo agli investitori retail che hanno comprato originariamente e detenuto in portafoglio il subordinato. Non so quanto sia il risparmio, ma penso possa facilmente arrivare a centinaia di milioni.

Molti hedge fund che hanno comprato negli ultimi mesi e stanno facendo lobbying sul governo affinché si segua la prima strada. Se il governo cedesse alle pressioni, sarebbe uno scandalo.


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Magari con uno “straniero” a Mediaset l’Italia diventa un Paese normale

Testo dell’articolo pubblicato il 20.12.2016 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole”.

Il Ministero dello Sviluppo Economico ha un sito web destinato ad attirare gli investimenti esteri in Italia (http://www.investinitaly.com/). Tra le iniziative promosse spicca il Global Roadshow, volto a spiegare “le politiche dell’Italia per l’attrazione degli investimenti esteri.” Il sito, però, specifica che “l’evento è su invito.” Forse per questo il Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda, discutendo dell’acquisto del 20% di Mediaset da parte del francese Bolloré, ha dichiarato che non è “il modo più appropriato di procedere per rafforzare la propria presenza in Italia.” Non era stato invitato.

Il governo e la nostra classe politica vogliono l’Europa e la globalizzazione “su invito”. Almeno quando si tratta dell’entrata nei salotti buoni, perché non c’è altrettanta simpatia per i lavoratori che si sentono minacciati dagli immigrati. Dopo Brexit, Calenda aveva affermato: “Quanto più <gli inglesi> regoleranno e limiteranno la presenza di cittadini comunitari nel Regno Unito, tanto più noi limiteremo la presenza di merci del Regno Unito in Europa.”

Passi per chi viene dai salotti buoni, dove si chiede permesso prima di entrare e dove si sta molto attenti a non offendere gli invitati, ma dove è lecito spellare il parco buoi degli azionisti. Ma come può tale posizione venire da un esponente di un partito che si definisce ancora di sinistra?  Passi il nazionalismo economico di Salvini e quello di Fassina, almeno entrambi sono coerenti nel rifiutare il mercato in tutte le sue forme e metodi. Passi anche l’opposizione dell’ex Ministro dello Sviluppo Economico Paolo Romani: ha sempre dimostrato un amore personale per l’azienda del capo del suo partito. Ma come spiegarlo da parte di Carlo Calenda, esponente del PD e grande sostenitore del libero scambio? Quel Calenda che era stato uno strenuo sostenitore del Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), un accordo che avrebbe severamente limitato la capacità degli stati sovrani di regolare le multinazionali. Proprio quella sovranità che Calenda implicitamente minaccia di usare contro Bolloré.

Se non bastassero i principi dell’Europeismo e del libero mercato, a convincerci che il governo debba accogliere di buon cuore qualsiasi investimento estero, c’è la natura dell’impresa oggetto di attenzione.  Per decenni il PDS prima e il PD poi hanno (giustamente) combattuto l’anomalia italiana di un Presidente del Consiglio che controlla personalmente metà del mercato televisivo italiano. Ora che l’opportunità di sanare per sempre quest’anomalia si presenta su un piatto d’argento, uno dei suoi esponenti protesta nel silenzio generale del resto del partito?

Sia chiaro che in nessun modo voglio difendere Bolloré, uno spregiudicato finanziare che temo si comporterà in modo da far rimpiangere i capitalisti nostrani (che poco hanno da essere rimpianti). Ma difendo il principio di libera concorrenza. Non possiamo essere europeisti a giorni alterni. Non possiamo difendere la concorrenza e il mercato per gli altri e poi diventare protezionisti quando il mercato ci tocca direttamente. E penso che sia solo positivo che attività “strategiche” come la televisione siano in mano a non italiani. Almeno c’è una speranza che le nostre autorità si sveglino e facciano il loro dovere.

L’unica volta che la Consob di Vegas ha mostrato dei segni di vita è stato proprio quando Bolloré ha cercato di impadronirsi di Fonsai. Solo allora si sono ricordati delle regole del Testo Unico della Finanza. E guarda a caso l’Agcom si è svegliata solo ora, brandendo nientemeno che la legge Gasparri. A dimostrazione delle ferite profonde lasciate dal conflitto di interesse berlusconiano, la legge fatta su misura dal governo Berlusconi per l’azienda di famiglia torna comoda per difendere il patriarca.

Magari con uno “straniero” a capo di Mediaset, l’Agcom si ricorderà di far rispettare la par condicio, il Governo imporrà il limite di due reti televisive, e le frequenze per le televisioni saranno messe all’asta come quelle per i telefoni.  Magari con uno “straniero” a capo di Mediaset diventiamo un Paese normale.


Qui la lettera del Ministro Carlo Calenda al Sole 24Ore in risposta al mio articolo.

Questa la mia replica al Ministro:
Ringrazio il ministro Calenda per le precisazioni, dalle quali emerge chiaramente come egli voglia sottoporre gli investimenti francesi a un test ulteriore rispetto a quelli italiani. Le «incursioni speculative» sono deleterie solo quando sono fatte dagli «stranieri»? Io auspico un sistema che tratti tutti ugualmente, sia che uno sia francese, sia che sia italiano, sia che sia l’ex presidente del Consiglio che il calzolaio dell’angolo. Il ministro la chiama ideologia, io lo chiamo un ideale meritevole di essere difeso. (L.Z.)


Qui gli altri articoli apparsi nella Rubrica “Alla Luce del Sole”.

È il momento di un “TARP all’Italiana” per salvare le banche / To save banks the time has come for an Italian TARP

Article written for Il Sole 24 Ore – Articolo scritto per Il Sole 24 Ore
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Why we need an “Italian TARP” / Perché servirebbe un “TARP all’Italiana”
Why I support an Italian Tarp, but I opposed the U.S. one

 

Winston Churchill amava ripetere che si poteva contare sul fatto che gli americani facessero sempre la cosa giusta, dopo aver esaurito tutte le alternative possibili. Per il governo italiano si tratta di una speranza, più che di una certezza. L’unica certezza è che tutte le alternative per salvare il sistema bancario italiano sono state già esplorate senza successo. E che il tempo stringe. L’incertezza sul reale valore dei crediti deteriorati nei bilanci delle banche sta producendo una crisi generalizzata di fiducia nel sistema bancario, che potrebbe avere effetti devastanti. Per evitarla rimane solo un intervento diretto dello stato nel capitale delle banche. Non è una raccomandazione che ripeto a cuor leggero, ma a mali estremi, estremi rimedi. E certo i mali oggi sono estremi.

Il motivo per cui sono arrivato già da tempo a questa raccomandazione è l’esperienza diretta che ho avuto della crisi americana del 2007-2008. Anche in quel caso, si cercò prima di creare un fondo per acquistare i mutui tossici (la versione americana dei nostri crediti deteriorati), poi di farli comprare allo stato, alla fine si capì che l’unica soluzione era immettere capitale pubblico nel sistema bancario.

Questa soluzione ha numerosi vantaggi. Primo, si fa molta più strada con gli stessi soldi. Grazie all’elevata leva finanziaria delle banche gli stessi fondi investiti in azioni possono indirettamente comprare quasi 20 volte l’ammontare di crediti deteriorati. Secondo, è molto più rapida. Se lo stato non vuole strapagare per i crediti deteriorati e rimetterci molti soldi, deve organizzarne in modo molto serio l’acquisto. Non esiste il tempo per farlo. Terzo, permette maggiori meccanismi di protezione dei contribuenti. Il contribuente americano ha finito per guadagnarci dall’intervento dello stato nelle banche avvenuto nel 2008.

In un mondo ideale questo intervento dovrebbe essere effettuato dal Tesoro italiano. Siccome non viviamo in un mondo ideale e le regole europee ci proibiscono un tale intervento prima di aver effettuato un bail-in pari all’8% dell’attivo bancario, l’unica soluzione possibile è fare questo intervento tramite la Cassa depositi e prestiti (Cdp), che è fuori dal perimetro dello Stato. Nel colmo della crisi del 2008 ad investire non ci fu solo il Tesoro americano, ma anche Warren Buffet, che guadagnò profumatamente. Se l’intervento avviene a condizioni di mercato non solo l’Italia si mette al riparo da critiche dell’Europa, ma protegge anche i suoi contribuenti.

Per funzionare, questo intervento deve essere rapido e deve essere decisivo. Per essere rapido deve essere basato su regole semplici e facilmente verificabili. Al contempo deve proteggere i soldi dei contribuenti, senza violare i diritti degli attuali azionisti. Raggiungere tutti questi obiettivi contemporaneamente è difficile ma non impossibile, facendo tesoro dell’esperienza americana.

Innanzitutto, capiamo l’entità del problema. Ci sono circa 200 miliardi di crediti deteriorati. In media questi crediti sono valutati al 40%, ma il mercato ritiene che valgano solo il 20%. Quindi un’iniezione di capitale pari a 40 miliardi è in grado di assorbire le perdite anche nell’ipotesi peggiore e quindi tranquillizzare i depositanti e gli obbligazionisti.

La Cdp dovrebbe quindi impegnarsi ad investire in ogni banca una cifra pari al 20% dei crediti in sofferenza. Il segreto è immettere capitale sotto forma di azioni “preferred” convertibili in azioni ordinarie. Il vantaggio delle preferred americane, rispetto alle nostre privilegiate, è che sono redimibili da parte della società emittente ad un valore predeterminato. Se la banca è sana, può facilmente nei mesi successivi emettere azioni ordinarie sul mercato e riacquistare le preferred emesse, tutelando il valore degli azionisti esistenti. Se invece la banca non è solida, questo capitale servirà di garanzia.

Le preferred sono subordinate a tutti i titoli di debito (compresi i bond subordinati), ma hanno priorità rispetto al capitale azionario esistente. Quindi i contribuenti non vanno a proteggere gli azionisti, ma solo i depositanti e gli obbligazionisti. Se le perdite sono elevate, gli azionisti esistenti sono spazzati via e le preferred diventano azioni ordinarie.

Per evitare che i banchieri se ne approfittassero, le preferred americane avevano tre clausole importanti. Primo, proibivano il pagamento di qualsiasi dividendo alle ordinarie fino a quando le preferred non erano state riacquistate. Secondo, ponevano dei limiti molto rigidi (e molto bassi) ai compensi del management. Terzo, contenevano un warrant (ovvero il diritto a comprare ulteriori azioni ad un prezzo prestabilito al di sopra dell’attuale prezzo di mercato). Questo garantiva al contribuente parte del beneficio dell’operazione in caso di successo. Dovremmo anche noi seguire quest’esempio.

Nel caso americano le preferred erano prive dei diritti di voto fino a quando non erano convertite, perché si temeva un’eccessiva ingerenza dello stato nell’allocazione del credito. Ovviamente questo problema esiste anche in Italia, ma – data la qualità inferiore della corporate governance italiana – esiste anche il rischio che il management approfitti dei soldi dei contribuenti. Per questo penso sia un buon compromesso assegnare alle preferred il diritto di nominare l’intero collegio sindacale e il presidente del consiglio di amministrazione, lasciando agli attuali azionisti il diritto di gestire la società, almeno fino a quando le preferred non sono convertite.

Ovviamente esiste anche un problema politico. Negli Stati Uniti l’intervento statale ha prodotto come reazione il Tea Party e – in qualche modo – ha creato il consenso per un personaggio come Donald Trump. Come evitare che questo succeda in Italia?

Da un lato bisogna spiegare quale è oggi l’alternativa: il caso Etruria moltiplicato per 100. L’intervento statale non è quindi per salvare i banchieri, ma per salvare i depositanti e tutti coloro ai quali sono stati rifilati i bond bancari “sicuri”. Dall’altro bisogna fugare anche il minimo dubbio che questa manovra sia fatta per salvare i soliti noti. Per questo contestualmente all’investimento deve essere varata una commissione d’inchiesta, composta non da parlamentari, ma da esperti indipendenti. Questi dovranno accertare le possibili responsabilità di persone e istituzioni e riportare in modo pubblico al Parlamento nel giro di 9 mesi.

In questo difficile momento il governo non deve avere paura di agire: l’inazione sarebbe una colpa ben maggiore. Non deve neppure temere che i cittadini non capiscano. Se opportunamente informati, sono più che capaci di capire e oggi più che mai meritano rispetto e fiducia. L’importante è non mentire loro dicendo che è tutta colpa del Regno Unito. La Brexit è stata sola la famigerata scintilla, tutto il resto è di produzione nazionale.

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Winston Churchill loved to say that the Americans would alway do the right thing — after having exhausted all other possible alternatives. For Italy’s government and its banks, this is a hope more than a certainty. The only certainty is that every possible alternative to save the Italian banking system has been explored, unsuccessfully. And that time is short. Questions as to the real value of deteriorated credit on bank balance sheets is producing a generalized crisis of confidence in the banking system that could end up being devastating. To avoid it, the only option is direct intervention in the capital situation of banks. It’s not a recommendation that I offer with a light heart — but desperate times call for desperate measures. And desperation there is.

The reason why I came to this conclusion some time ago is the first-hand experience I had with the US crisis of 2007-2008. In that case as well, the first attempt was to create a fund to acquire toxic debt (the American version of our deteriorated loans), then to have the state buy them. In the end, it became clear that the only solution was to inject public capital into the banking system. 

In an ideal world, this would be carried out by the Italian Treasury. Since we don’t live in an ideal world, and EU rules forbid a move like that before having carried out a bail-in for 8% of bank assets, the only possible solution is to go through the Cassa depositi e prestiti (CDP) outside the perimeter of the state. 

First of all, we understand the size of the problem — about €200 billion worth of deteriorated credit valued at 40%, while the market insist on valuing it at 20%. So a capital infusion equal to €40 billion would be able to absorb the losses even in the worst case scenario, thus calming account holders and bond holders.

Thus the CDP should commit itself to invest in every bank a figure equating to 20% of non performing loans. The secret is to issue the capital in the form of “preferred” convertible shares. The advantage of U.S. preferred shares compared with ours is that they are redeemable by the issuer at a predetermined value. If the bank is healthy, it can easily, over successive months, issue ordinary shares on the market to re-acquire the preferred shares it issued, protecting the value of existing shares. If, instead, the bank is not healthy, this capital can serve as a guarantee. 

The preferred shares are subordinate to all debt (including subordinated bonds) but they have priority over existing shares. So this doesn’t protect shareholders, but only account holders and bond holders. If losses are high, existing shareholders are swept away and preferred shares become ordinary shares. 

To avoid bankers profiting, US preferred shares are bound to three important clauses. First, it’s prohibited to pay any form of dividend on ordinary shares until the preferred are reacquired. Second, there are rigid (and very low) limits on management compensation. Third, they contain a warrant (the right to purchase additional shares at a predetermined price that is above the current market price). This guarantees the taxpayer part of the benefit of the transaction if it succeeds. We need to follow that example. 

In the US case, the preferred shares had no voting rights until they were converted, because there was fear of an excessive interference in credit allocation. Obviously, this problem also exists in Italy but — given the inferior quality of Italian corporate governance — there’s also a risk that management would profit from taxpayer money. That’s why I think it was a good compromise to assign to the preferred shares the right to name the entire board of auditors and the chairman of the board, leaving current shareholders the right to manage the company, at least until the preferreds are converted. 

There’s obviously a political problem. In the US, government intervention produced the Tea Party in reaction and, in a way, created a degree of consensus around a personality like Donald Trump. How can we avoid that happening in Italy? 

On one hand, it’s necessary to explain what the alternative is:the Etruria case times one hundred. State intervention isn’t meant to rescue bankers but to save account holders and all those who were sold supposedly “secure” bank bonds. And on the other hand, there must be no shadow of a doubt that the move was meant to protect the usual suspects. So there should be an investigatory commission set up, composed not of politicians but of independent experts. They must determine the potential responsibility of people and institutions and bring their findings publicly to Parliament within nine months. 

At this difficult time, the government should not be afraid to act: inaction would be a much greater fault. Nor should it fear that Italian citizens won’t understand. If appropriately informed, they are more than able to understand and today, more than ever, they deserve respect and trust. The important thing is not to lie to them by saying that it’s all the U.K.’s fault. Brexit was only the famed spark, all the rest is locally produced.