Come proteggere l’interesse italiano in Europa

Lettera al Premier – di Francesco Giavazzi, Lucrezia Reichlin e Luigi Zingales
Testo della lettera pubblicato il 23.06.2018 sul Corriere della Sera 

Signor Presidente del Consiglio,

le dichiarazioni rilasciate a Meseberg dal presidente francese Emmanuel Macron e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel sono un segno importante della volontà dei due maggiori Paesi della eurozona di riformare l’Unione monetaria. Se ne discute da anni, proposte diverse sono pervenute da parte di esperti e di istituzioni federali, ma per la prima volta l’iniziativa è stata presa da capi di Stato eletti e questa la rende più credibile.
La trattativa che si svolgerà durante l’incontro dei capi di governo la prossima settimana è quindi un momento da non sottovalutare e a cui l’Italia deve partecipare con una strategia chiara.
Le inviamo questa lettera aperta per condividere con Lei il nostro pensiero su quali debbano essere le linee di fondo che dovrebbero ispirarLa. Scriviamo insieme pur avendo nel passato espresso posizioni diverse sui benefici dell’euro, ma proprio per sottolineare ciò su cui si può trovare una linea unitaria nell’interesse dell’Italia in un’occasione che può essere una opportunità, ma che comporta anche rischi.
Ci limitiamo a parlare della parte della proposta che riguarda i problemi economici perché è su questi che ci riteniamo più competenti.
Innanzitutto apprezziamo l’impegno del Suo governo sulla partecipazione dell’Italia all’Unione monetaria, ma — data la comunicazione a volte contraddittoria di alcuni membri della coalizione — La sollecitiamo a chiarire ogni dubbio onde evitare di minare la nostra efficacia nella trattativa.
A fronte di un impegno non ambiguo dell’Italia a re stare nell’euro deve esservi un analogo impegno del governo tedesco a opporsi a chi oggi in Germania solleva questioni sul saldo delle partite tra banche centrali, altrimenti noto come Target 2. Finché l’euro esiste, tale saldo non rappresenta in alcun modo un debito dell’Italia. Qualsiasi discussione su un possibile limite alla dimensione di questo saldo corrisponde a una richiesta di escludere l’Italia dall’Unione monetaria e in quanto tale è destabilizzante, sia dal punto di vista economico che politico.
Comprendiamo chi ha criticato elementi della proposta franco-tedesca ma La invitiamo a non esprimere un parere negativo e accogliere invece gli elementi di progresso, insistendo sui punti che per noi sono cruciali. Con questa premessa veniamo alla sostanza della proposta.

1. Bilancio dell’eurozona
È la prima volta che si propone un bilancio comune per gli investimenti, la convergenza e la stabilizzazione nell’area dell’euro. Per quanto riguarda gli investimenti si va oltre al piano Juncker. Si afferma per la prima volta la necessità di un meccanismo comune che serva a trasferire temporaneamente risorse a quei Paesi che hanno subito impatti ciclici più negativi di altri. Non è chiaro quale sarà la dimensione di questo bilancio, ma il principio è positivo e va sostenuto. I dettagli su come finanziare questo strumento sono da definire. L’Italia deve affermare il principio che nel disegnare questo bilancio comune sia necessario riconoscere che la stabilizzazione e la convergenza si devono ottenere non solo allocando la spesa, ma anche allocando in modo diverso i contributi. Per mantenere un livello di inflazione più omogeneo nell’area euro è necessario che le economie in espansione contribuiscano con maggiori fondi rispetto alle economie in recessione. Se nel 2005 la Spagna avesse contribuito in modo più che proporzionale a sostenere la disoccupazione tedesca, non ne avrebbe beneficiato solo la Germania, ma la Spagna stessa, perché avrebbe ridotto l’eccessivo aumento dei prezzi, che poi ha dovuto correggere con una pesante recessione. Su questo l’Italia deve insistere.

2. Assicurazione comune alla disoccupazione
Un’assicurazione comune alla disoccupazione è una novità che introduce il principio della condivisione del rischio ciclico e va sostenuta. Rimangono comunque da chiarire dettagli e dimensioni del programma.

3. Fondo di stabilità
Qui ci sono progressi ma anche insidie.
i. Un passo avanti importante è la proposta di cambiare le regole che governano il fondo, un passo che contempla un cambiamento del Trattato ad hoc che lo ha istituito. Si propone di abbandonare una gestione intergovernativa, soggetta alla regola dell’unanimità incorporando il fondo nei Trattati europei. La possibilità di un veto tedesco rimarrà — ma anche l’Italia ha un diritto di veto — ma non ci sarà più bisogno dell’unanimità, condizione essenziale per la sua credibilità;
ii. Si contempla la possibilità di linee di credito precauzionali instaurando quindi il principio che bisogna attrezzarsi per poter aiutare un Paese prima che una crisi sia esplosa quando è spesso troppo tardi. Il credito si erogherebbe previa valutazione della sostenibilità delle politiche del Paese in questione, ma senza richiedere un vero e proprio programma. Anche questa proposta va accolta positivamente;
iii. Si propone di introdurre maggiore trasparenza nell’analisi di sostenibilità del debito. Anche qui dobbiamo difendere il principio per evitare fenomeni, come quelli accaduti in Grecia del 2010, dove gli Stati membri pagano per gli errori delle banche. Tuttavia, è cruciale affermare il principio che i criteri di sostenibilità del debito devono basarsi su variabili storiche (per esempio il saldo di bilancio primario degli ultimi anni) e non prospettiche, per evitare che una paura del mercato si trasformi in una condanna, come successe all’Italia nel 2011. Questo è l’aspetto più insidioso dove l’Italia deve fare valere il suo punto di vista.

4. Unione bancaria e dei mercati dei capitali
Sulle banche la proposta è al di sotto delle aspettative. Si afferma la volontà di far sì che l’Esm (il Meccanismo europeo di stabilità) possa erogare una linea di credito che alimenti il fondo di ricapitalizzazione delle banche («backstop»), ma si condiziona l’introduzione di questo strumento ad una sostanziale riduzione del rischio delle banche in termini di crediti deteriorati ed altri criteri che non si specificano chiaramente. Si nega quindi il principio che riduzione e condivisione del rischio debbano procedere insieme e si propone invece di procedere in sequenza: riduzione del rischio prima, condivisione dopo. La proposta rimane inoltre molto vaga sui tempi dell’introduzione di un’assicurazione comune ai depositi bancari e sulle condizioni necessarie ad introdurre il fondo di ricapitalizzazione. Chiaramente l’accordo per completare l’Unione bancaria in tempi brevi non c’è e si rimanda l’analisi a tavoli tecnici. L’Italia deve esprimere un parere critico ma adoperarsi per migliorare la proposta sui tavoli in cui verrà discussa.

Queste le linee principali. Data la mancanza di dettagli su aspetti importanti della proposta, e l’invocazione di tavoli tecnici per metterli a punto, è importante che l’Italia partecipi al processo anche a livello tecnico per fare valere i suoi diritti e che non si deleghino discussione e trattativa alla Francia e alla Germania.
È un primo passo, certamente ancora incompleto, per migliorare il funzionamento dell’eurozona e dotarla degli strumenti necessari ad affrontare una crisi. Ma è un passo avanti dopo sei anni in cui i progressi sono stati pressoché inesistenti. Anche il fatto che di questa proposta si discuta non nel mezzo di una grave crisi, come è avvenuto in passato, è un segnale importante. E cruciale, quindi, per l’Italia entrare attivamente e in modo costruttivo nel negoziato politico e tecnico della prossima settimana, e in quelli che seguiranno.
Lo sguardo è oggi giustamente rivolto al grande tema delle migrazioni, ma il processo di costruzione europea sta segnando passi che per il nostro Paese sono altrettanto importanti.

La vicenda Fincantieri apre grosse incognite sul futuro dell’Europa

Intervista pubblicata il 30 luglio 2017 sul quotidiano “Il Piccolo”, a cura di Piercarlo Fiumanò.

Zingales: «Futuro dell’Europa cupo dopo l’altolà a Fincantieri»
L’economista: «L’Italia fa bene a indignarsi di fronte alla manovra protezionista di Macron su Stx: è una discriminazione verso il gruppo triestino»

Luigi Zingales è professore di Finanza all’University of Chicago Booth School of Business. Tra gli economisti più citati, nel 2012 è stato inserito dalla rivista Foreign Policy come uno dei 100 pensatori più influenti al mondo. A lui abbiamo rivolto qualche domanda in merito alla vicenda Fincantieri-Stx.

Francamente non ne vedo. Penso che mettendo il veto all’acquisizione abbia sicuramente ceduto a pressioni di tipo protezionistico. L’ingresso di Fincantieri è avvenuto nell’ambito della procedura fallimentare del gruppo coreano proprietario di Stx.

Mi chiedo quale sia la logica di Macron nel non permettere agli italiani quello che era permesso ai coreani, soprattutto in uno scenario europeo dove si sta lavorando al progetto di creazione di una Difesa comune europea. L’Italia fa bene a indignarsi.

L’Europa dominata da un asse franco-tedesco che vuole orientare le decisioni di politica industriale a scapito dell’Italia?
Non credo a una sorta di cospirazione internazionale contro l’Italia. Piuttosto si ripropone un esempio della migliore tradizione francese nella difesa dei campioni nazionali.

Leggi anche: “Come vanno difese le imprese Italiane”

Ci troviamo di fronte a un deciso cambio di rotta da parte di Macron che in campagna elettorale per le presidenziali si era presentato come fautore di una piattaforma europeista e liberista. Stupisce di conseguenza questa sterzata in senso protezionistico che ha avuto come conseguenza la rottura dei patti con Fincantieri.

Nel suo ultimo libro lei descrive un’Europa che mostra tutte le sue fragilità: sogno da realizzare o incubo da cui uscire. Il ritorno alla difesa degli interessi nazionali è un sintomo di questa debolezza?
Il protezionismo è una costante della storia della Francia che diventa europeista innanzitutto per proteggere l’interesse nazionale minacciato dalla Germania.

Macron in campagna elettorale sembrava suggerire una svolta in senso europeista. La vicenda Fincantieri lascia pensare che in realtà sia stata solo una messa in scena a fini elettorali.

Il sogno europeo inizia con la nascita della moneta unica. Questo sogno rischia di andare in frantumi?
La casa comune europea ha fondamenta fragili se costruita da politici eletti su base nazionale. L’Europa in questo modo diventa l’ideologia dominante di una ristretta élite perché tutti cercheranno di proteggere gli interessi del proprio Paese.

È una costruzione fragile perché manca un vero presidente eletto dall’Europa. L’unica istituzione che ha poteri reali è la Commissione europea per la concorrenza che cerca di imporre le stesse regole a tutti. Ci lamentiamo dei francesi, ma anche il salvataggio delle banche venete è stato compiuto approfittando delle debolezze dell’Europa.

Fincantieri è una delle poche grandi industrie multinazionali in Italia che in questo caso ambisce a diventare protagonista di un progetto europeo, l’Airbus dei mari. L’interdizione dei francesi, secondo la Commissione Ue, non comporta aiuti di Stato. Che ne pensa?
Sono d’accordo sul fatto che non siamo di fronte a un caso di aiuto di Stato da parte della Francia ma piuttosto di una manovra protezionista. È una forma di discriminazione nei confronti di Fincantieri, in quanto gruppo non francese, che vìola gli stessi principi e regole sui quali dovrebbe fondarsi un mercato comune europeo.


“L’Italia soffre da sempre di una scarsa capacità di proposta e di difesa dei propri interessi a Bruxelles e a Francoforte.”


Nel frattempo i francesi hanno lanciato una campagna di investimenti in Italia: non dovrebbe esserci reciprocità?
In realtà sbaglieremmo a porre veti sugli investimenti dei transalpini nel nostro Paese. Dovremmo invece farci sentire a livello europeo spiegando che non è su basi protezionistiche che si costruisce l’Europa.

Inutile allora lamentarci per il ritorno dei populismi quando un leader che si presenta come un campione di europeismo si comporta esattamente come Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon, suoi avversari alle presidenziali.

Padoan lamenta una sfiducia nei confronti dell’Italia. Ma quale forza negoziale possiamo esercitare anche a livello europeo?
L’Italia soffre da sempre di una scarsa capacità di proposta e di difesa dei propri interessi a Bruxelles e a Francoforte.

La Germania è abile a scegliere principi logici e nell’interesse del Paese che si traducono in leggi europee. Noi italiani dobbiamo essere capaci di difendere i nostri interessi in Europa nello stesso modo. Invece ci affidiamo a inutili tatticismi che non portano a risultati concreti.

Italia debole e Europa incompiuta. É la famosa frase di Kissinger “chi devo chiamare quando voglio chiamare l’Europa”.
Germania e Francia sono molto più forti economicamente e possono fare valere i propri interessi. L’Italia però ha meno influenza e peso politico di quanto potrebbe esercitare con i suoi rappresentanti in Europa.


“Non dobbiamo difendere una singola grande impresa ma l’intero sistema industriale.”


Ma c’è un problema di forza del nostro sistema industriale? Secondo una recente indagine di Mediobanca le nostre grandi imprese (compresa Fincantieri) sono ormai molto poche.
Non dobbiamo difendere una singola grande impresa ma l’intero sistema industriale. Quando la politica interviene per difendere Fincantieri nella vicenda Stx deve agire come se difendesse gli interessi dell’Italia in Europa.

La partita italo-francese è anche una conseguenza della Brexit? Questo è il terzo schiaffo dato all’Italia, dopo quelli sulla gestione dei migranti e sulla questione libica…
Distinguerei fra la vicenda Fincantieri e la questione libica.

Macron sta modellando la sua politica nella migliore tradizione gollista e dell’ex presidente Sarkozy che è stato uno dei principali responsabili dell’intervento in Libia che ha prodotto grande instabilità ed è stato un vero disastro.

L’Europa continua a essere assente e Macron continua a fare gli interessi francesi. L’Italia, ancora una volta, sta facendo la parte del vaso di coccio perchè nel nuovo scenario internazionale e in particolare sul fronte migranti sta soffrendo più di tutti.

Come finirà la vicenda Stx Fincantieri?
É possibile che dietro le quinte dello scontro in realtà si stia lavorando a una mediazione con un bilanciamento di concessioni reciproche. Certo, da questa vicenda l’immagine europeista di Macron esce molto ridimensionata. La vicenda Fincantieri apre grosse incognite sul futuro dell’Europa che oggi mi sembra molto più cupo.

Anche Stiglitz d’accordo: se l’euro non cambia si sfascia

A tre anni dall’uscita di Europa O No, Joseph Stiglitz con il suo libro e la sua intervista di oggi al Corriere arriva alle stesse conclusioni: se l’euro non cambia si sfascia.

Fiscalità Comune e Vera Unione Bancaria o questa Europa si dissolverà.

Testo dell’intervista pubblicata su “Il Mattino” di Napoli, a cura di Nando Santonastaso, il 19 gennaio 2017.

Le parole del ministro Padoan a Davos non lo hanno sorpreso. Anzi. «Ha perfettamente ragione», dice Luigi Zingales, economista, docente presso la University of Chicago Booth School of Business. E spiega: «Quello che ha detto a proposito della mancanza di una visione dell’Europa lo avevo già sostenuto in un libro del 2014. È vero, bisogna avere una nuova visione dell’Europa anche perché ormai ci sono molte contraddizioni che stanno esplodendo ed è possibile che l’idea che ha guidato l’Europa si stia dissolvendo. Padoan teme, ancora una volta a ragione, che l’Italia non ce la faccia a restare in Europa».

Vuol dire che bisogna prendere decisioni drastiche in tempi anche brevi?
«Voglio dire che non ci sono molte alternative: o bisogna cambiare radicalmente alcune delle istituzioni che sostengono la moneta comune o dobbiamo trovare un percorso di separazione consensuale».

Italia fuori dall’euro?
«È una possibilità, certo. Sarebbe ottimale che fosse la Germania ad uscire ma è difficile costringerla. L’alternativa positiva che ho cercato di descrivere nel mio ultimo libro, “Europa o no” è dare vita finalmente ad un sistema in cui esista una fiscalità comune che aiuti i Paesi nei momenti di crisi e una vera Unione bancaria che oggi c’è solo a metà».

C’entrano per caso in questo ragionamento la spinta della Brexit e l’annuncio di Trump per un ripristino del protezionismo americano?
«Non so fino che punto i piani di Trump si tradurranno in un vero protezionismo. Lo dirà solo il tempo. Oggi possiamo solo constatare che la Brexit non ha avuto conseguenze disastrose e immediate: ha aumentato invece la domanda di uscita dall’Unione europea. La posizione di Trump favorisce questa possibilità perché non interverrà come aveva fatto Obama per evitare l’uscita della Grecia o dell’Italia dall’euro».

Sembra di capire che per lei l’Ue ha i giorni contati…
«Come capita per i matrimoni che non funzionano, bisogna ammettere la verità: o si cerca di salvarlo o si arriva al divorzio consensuale, non c’è nulla di peggio di una coppia infelice. L’Italia è in una situazione molto grave: abbiamo buttato via tre anni di grandi opportunità perché c’erano tassi di interesse molto bassi, il petrolio costava pochissimo, l’economia mondiale era in crescita. Oggi ci troviamo con un debito più alto di tre anni fa e una percentuale di crescita che bisogna apprezzare solo con il bilancino del farmacista. Oltre tutto la prospettiva è destinata a peggiorare, con il prezzo del greggio in risalita e i prodromi di una recessione dell’economia globale. Se oggi a stento sopravviviamo, figuriamoci dopo».

Cosa dovrebbe fare allora il governo Gentiloni?
«Gentiloni dovrebbe aprire il tavolo della discussione su quale futuro per l’euro e per l’area della moneta comune. Non ci può essere più una prospettiva come quella attuale con una parte dell’Europa che cresce e un’altra no».

Ma la rigidità dei tedeschi non è il problema numero uno per la tenuta dell’Ue?
«Non credo. Guardi che il problema del deficit e del debito italiani è un problema serio. Non possiamo continuare a indebitarci perché prima o poi il mercato si renderà conto che non possiamo pagare interessi così elevati e le regole europee ce lo ricordano puntualmente. Io direi invece che il problema maggiore riguarda altre mancate scelte. La colpa della Germania non è di imporci questo limite ma di non volere un’Unione bancaria completa e una forma di redistribuzione fiscale come un sussidio per la disoccupazione. Noi, di sicuro, dobbiamo ammettere che abbiamo sottovalutato la gravità della crisi bancaria degli ultimi 14-15 mesi. Se sia stata colpa solo nostra o anche della Germania, francamente lo lascio decidere agli altri. La verità che siamo di fronte ad un risultato assai negativo del quale forse non ci rendiamo ancora conto pienamente».

Inauguration Day: inizia l’era Trump (anche per l’Europa)

Nei due mesi che separano l’elezione dal giuramento, Trump ha dedicato molte attenzioni a Russia e Cina. Quanto all’Europa, ha – senza mezzi termini, come suo solito finora – lodato la Brexit, aggiunto che altri Paesi seguiranno l’esempio della Gran Bretagna e affermato che la NATO è obsoleta.

Cosa cambia per l’Europa con la presidenza Trump? Ne ho parlato con Giovanni Minoli a “Mix 24“.

Qui di seguito il podcast della conversazione (durata 8min12sec):

 


Qui altri miei articoli su Trump e le elezioni americane

Come vanno difese le imprese Italiane

Testo dell’articolo pubblicato il 15.01.2017 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole”. English translation below.

Dopo la reazione francese all’acquisizione da parte dell’italiana Fincantieri dei cantieri navali di Saint-Nazaire, alcuni lettori mi hanno scritto adirati: perché noi dovremmo accettare gli investimenti francesi in Italia, quando i francesi ostacolano in tutti i modi gli investimenti delle nostre imprese nel loro Paese? La domanda è più che legittima e merita una risposta adeguata.

Ci sono due modi di difendere le imprese italiane. Il primo è quello di utilizzare la nostra diplomazia per assicurarci che, sia a livello europeo che a quello internazionale, le nostre imprese non siano ingiustamente discriminate. Questo non vale solo nel caso di acquisizioni, come quella di Fincantieri.  Ma vale ancora di più per le direttive europee decise a Bruxelles, che spesso colpiscono ingiustamente le nostre imprese. Sarebbe compito dei nostri funzionari e dei nostri politici assicurarsi che le decisioni prese in sede comunitaria se non favoriscono, almeno non creino danno alle nostre imprese.

Il secondo modo di difendere le imprese italiane è quello di creare difficoltà politiche contro le acquisizioni delle nostre imprese da parte di stranieri, come ventilato dal Ministro Calenda e dal Governo Gentiloni nel caso degli acquisti di azioni Mediaset da parte della francese Vivendi.

È ovvio che per l’interesse generale il primo modo di difendere l’italianità è di gran lunga superiore al secondo. Invece di contribuire all’escalation di una guerra commerciale, si contribuisce a rendere effettivo un principio di imparzialità che, alla lunga, beneficia tutti.

Meno ovvio, ma proprio per questo più importante, è che il primo metodo domina il secondo anche dal punto di vista dell’efficacia. L’Italia non è né la Cina, né gli Stati Uniti, e neppure la Germania. Queste nazioni hanno un grande mercato interno da difendere. Per questi Paesi vale la pena di rischiare delle ritorsioni sui mercati esteri, pur di proteggere il grande mercato domestico dalle incursioni straniere. Per l’Italia non è così. Perdere accesso ai mercati esteri è di gran lunga più costoso. Da qui la miopia di una politica protezionistica.

Se non bastasse, il primo modo di difendere le imprese italiane è superiore al secondo anche da un punto di vista strategico. L’Italia non ha la forza politica di Cina, Stati Uniti, e Germania. Quindi non può vincere le dispute internazionali con la forza. Lo può fare solo con il supporto delle norme internazionali e della ragione. Da qui l’importanza che l’Italia applichi queste norme in modo rigoroso nel nostro Paese. In caso contrario non avrebbe alcuna legittimità per chiedere una loro applicazione a livello internazionale.

Perché allora i nostri governi sembrano sempre adottare la strategia perdente? Innanzitutto, perché è una strategia con un immediato ritorno d’immagine. È facile ergersi a parole a difesa dell’italianità delle imprese, più difficile difendere le ragioni delle imprese italiane nel segreto di una commissione europea o nei colloqui bilaterali riservati con i principali esponenti politici degli altri Paesi.

Temo che il secondo motivo sia perché la nostra burocrazia e i nostri governi non hanno le risorse umane e le capacità tecniche per elaborare delle tesi e sostenerle con le appropriate motivazioni a livello europeo e mondiale. Non siamo riusciti neppure a opporci a livello europeo a un’accelerazione dell’introduzione della regola del bail in (inizialmente programmata per il 2018) quando sapevamo i danni che questa nuova regola avrebbe prodotto sul nostro debole sistema bancario. Come possiamo sperare che i nostri governi contestino con successo a Francia e Germania i loro abusi?

Ma c’è un altro motivo per cui i governi italiani tendono ad adottare la strategia perdente per difendere gli interessi nazionali. Anche se non beneficia la nostra economia nel suo complesso, la difesa ad personam (o ad aziendam) produce grandi benefici immediati a qualche imprenditore nostrano.  La difesa dell’italianità di Alitalia fatta da Berlusconi e dai “patrioti” non ha beneficiato nel lungo periodo la nostra compagnia di bandiera, ma ha permesso a Carlo Toto di uscire brillantemente dal suo investimento in AirOne.  Lo stesso vale per la difesa di Mediaset: non è nell’interesse dell’Italia, ma solo della famiglia Berlusconi.

Insomma un misto di incapacità e miopia politica ci impedisce una difesa dei nostri diritti economici in Italia e nel mondo, condannandoci ad un patriottismo straccione che finisce per danneggiare il nostro Paese. E poi ci stupiamo se gli Italiani stanno diventando anti-Europa? Con questa classe politica in Europa non riusciamo a sopravvivere. O la cambiamo o finiremo per uscire dall’Europa per disperazione.

Sul tema dell’Italianità delle imprese leggi anche:
– Magari con uno “straniero” a Mediaset l’Italia diventa un Paese normale
– Interesse nazionale o pretesto per distorcere le regole a favore di qualche giocatore (nostrano)?
– Per attrarre gli investitori stranieri occorre una corporate governance trasparente, non orwelliana
– Telecom, ora il rischio è che diventi pedina del gioco straniero

Qui gli altri articoli della rubrica “Alla Luce del Sole”


The right way to defend the italian firms

After the France’s cautious reaction to the acquisition by Italy’s state controlled shipbuilder Fincantieri of the naval yard in Saint-Nazaire, several readers wrote me angry letters: why must we accept French investment in Italy, when France blocks our companies from investing in their country at every turn? The question is more than fair and deserves a suitable response.

There are two ways to defend Italian companies. The first is using our diplomacy to ensure that our businesses are not unfairly discriminated against on the European or the international level. This doesn’t just mean in the case of acquisitions, like that of Fincantieri. But even more in the case of European directives handed down from Brussels, which often unfairly penalize our companies. It should be the role of our officials and politicians to ensure that decisions made at the Community level, even if they don’t favor us directly, at least do not harm our businesses.

The second way to defend Italian companies is to create political obstacles defending the acquisition of our companies by foreigners, the path suggested by Economic Development Minister Carlo Calenda in the case of a possible acquisitions of broadcaster Mediaset by France’s Vivendi.

It’s obvious that in terms of the general interest, the first path of defending the Italian-ness of Italian business is much superior to the second. Instead of leading to an escalating trade war, it contributes to strengthening a principal of impartiality that benefits everyone in the long run.

The first method is also clearly more efficient than the second in the sense that Italy is not like China, or the U.S., or even Germany, which all have a massive domestic market to defend.

For these nations, it’s worth risking retaliation in foreign markets in order to protect their massive internal market from foreign incursions. That’s not the case in Italy. Losing access to the foreign market is much more costly. That’s why a protectionist policy is myopic.

The first method of defending Italian companies is also more strategic. Italy does not have the political clout of China, the U.S. or Germany. So it cannot win international disputes with force. It can only do so with the backing of international norms and with reasoning.
So it is important for Italy to apply these norms rigorously in our country. If not, Italy wouldn’t have much legitimacy in requesting they be applied on an international level.
Why, then, does our government always seem to adopt a losing strategy?

First of all, because it’s often a strategy with an immediate, short-term payoff in terms of image.

It’s easy to stand up and shout about keeping Italian companies Italian. But it’s harder to defend the logic of Italian companies, behind the scenes in closed European Commission meeting or secret bilateral discussions with the major political representatives of other nations.

I’m afraid our bureaucracy and our governments don’t have the resources or the technical skill to elaborate and defend their ideas up at a European or global level.

On a European level, for instance, we have not been able to oppose the acceleration of the bail-in rule (initially planned for 2018) when we knew the damage it would cause our weak banking system. Why should we think that our governments can successfully contest the abuses of France and Germany?

The other reason for our losing strategy in defending national interests is that heated rhetoric by one individual or one company, while it provides no benefit for the country’s overall economic health, produces significant, immediate benefits to one or another of our businessmen.

The defense of the Italian-ness of flagship air carrier Alitalia by former Prime Minister Silvio Berlusconi and the “patriots” had no beneficial long-term effects for the nation’s flagship carrier, but it allowed Carlo Toto to come out brilliantly from his investment in AirOne.

The same goes for the defense of Mediaset: scuttling that idea is not in the interest of Italy but of the controlling shareholders, the Berlusconi family. So a combination of incompetence and political short-sightedness are preventing us from successfully defending our economic rights in Italy and in the world, condemning us to a beggarly patriotism that ends up damaging our nation.

And then we’re surprised if Italians are becoming anti-Europe? We won’t be able to survive in this European political class. Either we show we can change or we will end up leaving Europe in desperation.

Video of “The Euro: a Conversation with Stiglitz & Brunnermeier moderated by Zingales”

Qui il video del confronto sul Futuro dell’Euro, tra il Premio Nobel Joseph StiglitzMarkus Brunnermeier e Luigi Zingales.
L’evento si è svolto il 30 Novembre allo Stigler Center della Booth School of Business dell’Università di Chicago.


Watch the video of yesterday’s panel – hosted by the Stigler Center – on the Future of the Euro, featuring the Nobel Prize Joseph Stiglitz, Markus Brunnermeier, and Luigi Zingales.

EUROPE OR NOT liberamente scaricabile fino al 30 Novembre / Until November 30 “EUROPE OR NOT” available for free download

Fino al 30 Novembre la traduzione inglese del mio libro “EUROPA O NO” – “EUROPE OR NOT“, formato pdf e eBook – è liberamente scaricabile qui.

Until November 30 my book “EUROPE OR NOT” is available for free download (eBook and pdf) from here.  

Un’assicurazione comune contro la disoccupazione per salvare l’Unione Europea

Testo dell’articolo pubblicato l’11.09.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”. 

L’influenza che Angela Merkel e la Germania hanno sulla politica europea non è dovuta solo alla dimensione del paese o alla sua forza economica, ma anche alla straordinaria capacità che i politici ed intellettuali tedeschi hanno di influenzare il dibattito europeo. Scelgono sempre di concentrare le loro battaglie su dei principi economici condivisibili. Poi martellano in tutte le sedi in modo compatto finché ottengono quello che vogliono, dal pareggio di bilancio al bail-in.

La loro determinazione non sarebbe un problema se gli altri paesi – il nostro in primis – facessero altrettanto. Ma non lo fanno. E i politici tedeschi sono molto accorti nella scelta dei principi da sostenere: prediligono solo quelli che sono nel loro stretto interesse nazionale, dimenticandosi degli altri. Ad esempio, si parla poco della mancata implementazione dell’assicurazione comune sui depositi bancari, decisa nel 2012: non è nell’interesse della Germania.

Ma il caso più eclatante è quello della politica fiscale. Qualsiasi economista degno di questo nome riconoscerà che una moneta comune non è sostenibile senza una qualche forma di politica fiscale comune. Eppure dopo 17 anni di moneta comune i passi in avanti su questo fronte sono stati minimi, per non dire nulli. Per anni i nostri governi hanno inutilmente reclamato l’introduzione degli eurobond.  Perché mai i tedeschi dovrebbero accettare di condividere i debiti altrui? Dalla loro non hanno solo l’interesse nazionale, ma anche il principio: la condivisione dei debiti spingerebbe le cicale italiane a contrarre ulteriori debiti. E come dare loro torto?

Per prevalere intellettualmente, bisogna spingere su una forma di politica fiscale che non sia un trasferimento unidirezionale di risorse dalla Germania al Sud Europa e che non distorca gli incentivi dei governi a comportarsi in modo virtuoso. Questa politica esiste: è un’assicurazione europea contro la componente ciclica della disoccupazione. Non si tratta di un trasferimento unidirezionale: nel 2005 la disoccupazione era molto più alta in Germania che in Spagna ed Italia, e quindi il trasferimento sarebbe andato dal Sud al Nord. Disegnando il trasferimento in funzione della componente ciclica della disoccupazione, questa assicurazione non solo non distorce gli incentivi dei governi, ma li migliora: i governi che abbassano la componente strutturale della disoccupazione ricevono più trasferimenti durante una crisi.  Infine, aiuta i governi a mantenere la disciplina fiscale: riducendo la necessità di deficit di bilancio quando uno shock negativo colpisce un Paese.

Proprio per questo dobbiamo rallegrarci dell’iniziativa del nostro Ministero delle Economia, che ha pubblicato sul suo sito una proposta di assicurazione europea per la disoccupazione. Sono poche pagine che illustrano come un’assicurazione comune avrebbe un costo relativamente limitato (50 miliardi all’anno) e genererebbe trasferimenti non unidirezionali.  La proposta prende anche posizione su alcuni nodi cruciali, come l’amministrazione comune di questa assicurazione, scelta che dovrebbe tranquillizzare i paesi nordici dal rischio di abusi.

Al momento, però, si tratta di un timido sforzo, sia dal punto di vista intellettuale che politico. Fintantoché il governo italiano è isolato in questo sforzo, non ha possibilità di riuscita. E fintantoché concentra tutti i propri sforzi nell’elemosinare decimali di “flessibilità” sul deficit, non ha l’autorità politica e morale per creare una coalizione a sostegno di questa idea.  È necessario il massimo impegno a tutti i livelli per fare di questa proposta la bandiera della nuova Europa, non tanto e solo per il benessere dell’Italia, ma per quello dell’Europa intera. Senza una politica fiscale comune, la moneta comune non ha futuro. Ben lo sapevano i fondatori, ma confidavano che – con il tempo – questa politica fiscale comune sarebbe emersa. Dopo 17 anni la fiducia non basta più. Bisogna passare ora dalle buone intenzioni alle azioni. Domani potrebbe essere troppo tardi.


Qui di seguito i link ai precedenti articoli della Rubrica “Alla Luce del Sole”: 

– Quale soluzione per il Monte Paschi?
– Crisi bancarie, chi non impara dalla storia le ripete
– Quel «tesoretto» della bad bank del Banco di Napoli
– Quante sofferenze si nascondono negli “incagli”?
– Cosa Insegnano ad Atlante le Sofferenze del Banco di Napoli 
– Le Operazioni di Sistema sono Aiuti di Stato?
– Aguzzate la vista
L’azione di responsabilità è fondamentale per ricostruire la fiducia nelle banche Italiane
Deutsche Bank e Monte Paschi: similitudini e differenze
– Salvare le banche per far ripartire l’economia
– L’importanza di un Buon Piano di Successione e il Ruolo del Consiglio di Amministrazione 
Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia
– Cosa fare per evitare che il “decreto banche” diventi solo un regalo alle banche
– Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori
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Banche: ogni mese in cui ritardiamo l’intervento sistemico è un mese di crescita buttato via (intervista)

Intervista a cura di Fabrizio Patti, pubblicata il 31.08.2016 su linkiesta.it

Siamo ancora a rischio di implosione. Luigi Zingales, economista all’Università Chicago Booth, non usa giri di parole. Si augura che l’operazione di salvataggio di Mps, attraverso l’acquisto di Npl da parte del fondo Atlante 2, e poi attraverso una nuova ricapitalizzazione, finisca per avere successo. Ma i dubbi rimangono. Tanto che resta una convinzione: sarebbe stato meglio percorrere la via di un intervento diretto dello Stato nelle banche, a costo di andare incontro alla tutela dell’ex Troika. Che, più di danni al Paese, “farebbe pulizia nelle banche”.

Professore, l’operazione di salvataggio di Mps è partita, ma è difficie. Si dovranno vendere sofferenze per 9 miliardi, di cui sei miliardi da collocare sul mercato con garanzia dello Stato, mentre Atlante 2 metterà sul piatto 1,6 miliardi. Poi bisognerà trovare i sottoscrittori di un aumento di capitale (sceso, secondo anticipazioni, da 5 a 3 miliardi di euro, ndr). La stampa economica nelle ultime settimane ha dato notizie positive sia riguardo al coinvolgimento di numerose banche nel consorzio di garanzia nell’aumento di capitale di Mps sia riguardo alla raccolta di fondi da parte di Atlante 2. Siamo di fronte a una svolta per la vicenda Mps o c’è un eccesso di ottimismo?
Io mi auguro che l’operazione riesca, perché se non riuscisse sarebbe una situazione molto destabilizzante. Io continuo ad avere dei dubbi, in particolar modo sulla volontà degli azionisti di entrare e mettere altri miliardi di euro, dopo quelli che sono stati buttati via con i precedenti aumenti di capitale. Il secondo dubbio riguarda le cosiddette sofferenze. Ricordiamoci che negli altri Paesi esiste un termine, non performing loans, ossia crediti deteriorati, che include sia le sofferenze sia quelli che una volta chiamavamo incagli e che oggi si chiamano inadempienze probabili o unlikely to pay. L’operazione Atlante 2 ha semplicemente sottratto dal bilancio di Mps le sofferenze definite in maniera ristretta. Rimane questa componente di inadempienze probabili: è grossa ed è valutata ancora ancora con numeri ottimistici. Il grosso rischio è che si nasconda un altro buco. Sarebbe devastante. Mi auguro che questi aspetti siano stati valutati seriamente e che l’operazione vada in porto. Dal mio punto di vista i rischi rimangono.

Quanto questa operazione si può definire “di mercato”, come ha fatto Padoan?
Bisogna vedere cosa si intende per “di mercato”. Ricordiamo il caso di Long Capital Management. Quando stava per fallire, la Federal Reserve chiuse in una stanza tutte le investment bank finché non si trovò una soluzione. Il giorno dopo Alan Greenspan (ex presidente della Fed, ndr) abbassò il tasso di sconto. Lei la chiama un’operazione di mercato? Io la chiamo operazione di sistema. Sicuramente non è una soluzione spontanea del mercato. Se lo fosse stata, non si capisce perché il presidente del Consiglio avrebbe dovuto incontrare tutte queste persone con tanta solerzia.

Qual è il rischio di queste operazioni, in termini di trasparenza?
Certamente ogni volta che il presidente del Consiglio si incontra con qualcuno, riguardo a un’operazione cosiddetta di mercato, c’è il rischio che ci siano delle assicurazioni, degli accordi, non chiaramente trasparenti. Il modo migliore è che il governo non si metta proprio in mezzo.

«Ogni mese in cui ritardiamo l’intervento sistemico, è un mese di crescita buttatO via. A questo si aggiunge il rischio che la questione scappi di mano. Finora si è intervenuti all’ultimo giorno dell’ultima ora. A me sembra che si scherzi col fuoco»

È auspicabile che dopo Mps Atlante 2 intervenga anche sulle sofferenze di Vicenza e Veneto Banca, come abbiamo letto nei giorni scorsi?
Non è proprio un fatto banale. Da quello che mi risulta, le sofferenze delle due banche venete sono in bilancio a 45 centesimi per euro di valore nominale. Ricordiamo che la junior tranche che si sono ripresi gli azionisti di Mps è stata valutata zero e che le sofferenze di Mps sono state valutate 27 centesimi. Da 27 a 45 c’è un gap molto forte. Non so esattamente come intendano coprire questo gap.

Lei a luglio ha propugnato una soluzione diversa, con intervento diretto dello Stato nel capitale delle banche, sul modello del Tarp americano. Se la soluzione “di sistema” fallisse, sarebbe troppo tardi per un intervento come quello che lei ha proposto?
Ci sono due problemi. Il primo è che in questa fase di incertezza le banche continuano a non prestare e l’economia a non crescere. Ogni mese in cui ritardiamo l’intervento sistemico, è un mese di crescita buttato via. A questo si aggiunge il rischio che la questione scappi di mano. Finora si è intervenuti all’ultimo giorno dell’ultima ora e per fortuna c’è stata una calma notevole, gli italiani sono stati maturi non facendo una corsa agli sportelli. Non so fino a che punto possiamo giocare con la fortuna. A me sembra che si scherzi col fuoco.

Domanda del popolo: in sintesi, quando torneremo a poter avere dei mutui in banca per attività di impresa in una situazione di normalità?
È esattamente il punto a cui accennavo. Bisogna risolvere la crisi in una maniera radicale e sistemica. Finora si è scelto di farlo attraverso delle pezze e queste non cambiano la situazione. Nel momento in cui si cambierà pagina, le banche ricominceranno a dare i mutui. Oggi le banche ricapitalizzate sono ansiose di prestare i soldi, perché li prendono a prezzo zero, se le tengono alla Bce costa loro soldi, ci sono tutte le condizioni per prestare. Quello che manca è il capitale. Quindi la ricapitalizzazione diventa l’elemento essenziale perché questa politica monetaria abbia un effetto.

«Se il modello [di intervento della Troika] è quello della Spagna, mi sembra un modello di grande successo. Oggi la Spagna cresce a ritmi invidiabili. Se quello è il prezzo da pagare ben venga»

In caso di intervento pubblico (stile Tarp) lei ha ipotizzato che tale intervento seguisse due strade. La prima è l’intervento della Cdp come acquirente delle azioni delle banche. La seconda, è l’intervento dell’Europa. Dovremmo quindi affidarci alla ex Troika?
Sì.

Quale sarebbe il costo politico? Ci dobbiamo aspettare un intervento come quello che abbiamo visto da parte della Troika, se non in Grecia almeno in Spagna o in Irlanda?
Se il modello è quello della Spagna, mi sembra un modello di successo. Oggi la Spagna cresce a ritmi invidiabili. Se quello è il prezzo da pagare ben venga.

Quali misure sarebbero imposte all’Italia a suo parere?
Se io fossi dalla parte del Fmi, quello che chiederei come condizione sarebbe una pulizia dei vertici delle varie banche. Cosa che in parte si sta facendo, in parte non si sta facendo. Sicuramente il costo sarebbe elevato per i banchieri, non penso sarebbe elevato per il Paese.

Pensa che la riforma del lavoro e delle pensioni, che abbiamo già fatto, eviterebbe che fossero chieste altre riforme strutturali?
Se le riforme strutturali facessero migliorare il processo di collocamento, sarebbero benvenute. Lo possiamo fare anche senza il bisogno della Troika, non mi sembra che sia una tragedia. Inoltre il Fmi ultimamente si è dimostrato molto più aperto della Germania, ben venga quindi un Fondo monetario internazionale che ci supervisioni.

«Nel lungo periodo l’unione monetaria non funziona se non c’è una qualche forma di redistribuzione fiscale. Allora, discutiamo di quale forma ma non se questa redistribuzione fiscale debba esistere. A me sembra che la via meno coinvolgente e la meno politicamente difficile sia quella di avere una assicurazione comune sulla disoccupazione» 

A proposito di Europa, lei in un recente articolo sembra aver sposato, almeno sul piano della teoria economica, l’idea di un euro a due velocità. I vertici a cui ha partecipato Angela Merkel nelle scorse settimane, uno a Ventotene con Italia e Francia e uno a Varsavia con Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, hanno dato l’idea di un’Europa che potrà trovare dei compromessi o un’Europa destinata sempre più a dividersi in due?
Merkel è molto brava a gestire l’esistente. Ma guardiamo la prospettiva di lungo periodo. Nel lungo periodo l’unione monetaria non funziona se non c’è una qualche forma di redistribuzione fiscale. Allora, discutiamo di quale forma ma non se questa redistribuzione fiscale debba esistere. Se mettiamo in dubbio che esista, mettiamo in dubbio la moneta unica. A me sembra che la via meno coinvolgente e la meno politicamente difficile sia quella di avere una assicurazione comune sulla disoccupazione. Se la Germania non vuole questa misura, ci dica cosa vuole. Se la risposta è “nulla”, allora dobbiamo trarne le conseguenze.

Un’Italia in un euro di seconda fascia avrebbe solo vantaggi, considerata la sua grande diversità interna tra Nord e Sud? 
Dunque: che la flessibilità dei cambi abbia dei vantaggi non c’è dubbio. Il problema vero è duplice. Il primo è che abbiamo dato via questa flessibilità per avere dei tassi di interesse più bassi sul debito. Quindi dobbiamo porci la domanda di cosa succederebbe al costo al debito, una volta ottenuta la flessibilità dei cambi. Il secondo è che se domani l’Italia uscisse in maniera unilaterale dall’euro sarebbe una catastrofe. Quindi l’idea dei due euro, che ho proposto già nel 2010, è un modo più soft per uscire dall’euro senza creare un patatrac. Ma questo richiede la compartecipazione della Germania. Un divorzio consensuale fa sempre meno danni di uno unilaterale.

La garanzia unica sui depositi potrebbe essere un modo per integrare maggiormente l’economia europea. Come sappiamo, però, la Germania intende rimandarla, per mancanza di fiducia di Paesi che tendono a creare problemi di stabilità come l’Italia. La Germania dovrebbe rischiare di più su questo fronte?
Date le condizioni a cui questa garanzia è stata introdotta, il rischio è minimo. In più la Germania si era impegnato a farlo nel 2012. Quindi sta rinnegando la promessa.

Ma l’Italia dovrebbe prendere in considerazione misure come l’abbassamento della quota di titoli di Stato detenuti dalle banche italiane, chiesto da Jens Weidmann, il governatore della Bundesbank?
No. I tedeschi usano un argomento che ha una validità. Il problema è che questa non è una novità. C’era anche nel momento in cui hanno firmato un accordo che prevedeva l’unione bancaria. Il fatto che lo tirino fuori dopo ricorda la storia di Bertoldo: condannato a morte per impiccagione, chiede come ultimo desiderio di scegliere l’albero a cui farsi impiccare. Naturalmente non trova mai quello giusto. Se uno non vuole una cosa trova sempre delle scuse. Questo mi pare sia l’atteggiamento tedesco: ha delle scuse anche ragionevoli, ma c’è di fondo una non volontà di una condivisione del rischio. Quello che farei io, come Italia, sarebbe di dire: “Non volete l’unione bancaria? Benissimo, facciamo l’assicurazione sulla disoccupazione”, che per me è più importante ancora.

Ci vorrebbe un trattato ad hoc.
Certamente. Ricordiamoci quello che disse Prodi nel 2001: “Per come è stato creato, l’euro non è sostenibile. Verrà una crisi e da questa crisi nasceranno le istituzioni politiche per sostenerlo”. Se però non le facciamo nascere, perché diciamo che non sono nei trattati, dobbiamo dichiarare che l’euro è morto.

«Ricordiamoci quello che disse Prodi nel 2001: “Per come è stato creato, l’euro non è sostenibile. Verrà una crisi e da questa crisi nasceranno le istituzioni politiche per sostenerlo”» 

Torniamo in Italia. Dopo il terremoto è stato detto molte volte che la prevenzione sismica sarebbe la grande opera che serve all’Italia. È un ragionamento che la convince?
Che l’Italia debba investire moltissimo nel patrimonio, sia di arte che naturale che ha disposizione, è condivisibile. Il problema è come investire. Guardiamo la scuola di Amatrice, dove abbiamo fatto un intervento pochi anni fa e non è servito a nulla. Ritorniamo a uno dei problemi fondamentali dell’italia: come fare della spesa in maniera seria e non corrotta.

Prima del terremoto si erano già sprecate le indiscrezioni sulla manovra 2017. Ci sono state uscite da parte degli esponenti del governo, che si sono anche divisi. Il sottosegretario Zanetti ha detto che il governo avrebbe puntato tutto sulle misure per far crescere gli investimenti e altri come il ministro del Lavoro Poletti che le misure per investimenti e per le fasce deboli della popolazione non possono andare divise. Come la vede?
Le due cose sono sicuramente legate. Il rischio maggiore è che stimolare i consumi significa stimolare i consumi di prodotti stranieri senza stimolare la crescita italiana. La difficoltà è che però stimolare gli investimenti non è facile. Il modo migliore sarebbe quello di ridurre in maniera credibile la tassazione sulle imprese in Italia. Questa è l’unica cosa che si possa fare per aumentare gli investimenti.

«Per aumentare gli investimenti in Italia c’è bisogno di rendere più attraente il fare business in Italia. Il modo migliore per farlo è ridurre l’imposizione sulle società»
Una delle misure di cui si è discusso, sul lato dei consumi, riguardava una quattordicesima per i pensionati. È possibile immaginare una manovra che prescinda da interventi simili che agiscono sul lato dei consumi?
La cosa importante è che qualsiasi cosa venga fatta sia un intervento permanente e non transitorio. La gente è più furba dei governi: se c’è un aumento una tantum, si rende conto che è così e non spende. Lo stesso vale per i sussidi alle imprese: le riduzioni temporanee valgono il tempo che trovano. Bisogna trovare una formula che abbia una sua credibilità nel lungo periodo.

L’Italia vorrebbe fare una manovra da 25-30 miliardi, chiedendo di sforare il deficit. Fa bene o male l’Italia a chiedere di superare i limiti del fiscal compact in questa fase? È una strada corretta o siamo in una fase in cui è il caso di tagliare in maniera più consistente la spesa pubblica?
Le due cose non sono in contraddizione. Se si riuscisse a ridurre gli sprechi della spesa pubblica e ad abbassare le imposte in maniera permanente, questa sarebbe la soluzione ideale. Come raggiungerla? Sappiamo che tagliare la spesa non è facile. Vuol dire tagliare degli interessi molto forti. E tanto più la spesa è improduttiva, tanto più sono forti questi interessi, perché la spesa completamente sprecata è quella che diventa una rendita per chi la riceve. Politicamente è difficile fare tutto questo. A me pareva che inizialmente Renzi avesse avuto un’ottima idea, che era quella di ridurre le imposte a una sola categoria, con i famosi 80 euro, e poi tagliare la spesa improduttiva per rendere permanente questo cambio. Mi pare che il taglio di spesa non sia seguito. C’è comunque un secondo punto da ricordare.

Prego.
Per aumentare gli investimenti in Italia c’è bisogno di rendere più attraente il fare business in Italia. Il modo migliore per farlo è ridurre l’imposizione sulle società.

Solo Berlino potrebbe stimolare la crescita europea. Ma non lo fa.

Articolo pubblicato su L’Espresso

Per imprestare i soldi alla Germania, oggi i risparmiatori devono pagare ed incolpano di questo Mario Draghi. Ma il problema è globale: dalla Svizzera al Giappone, dalla Danimarca alla Svezia sono molti i Paesi fuori dall’area euro con tassi di interesse nominali negativi.
Il tasso di interesse altro non è che il prezzo che eguaglia la domanda e l’offerta di risparmio. La domanda di risparmio viene dalle imprese: tanto più basso è il tasso di interesse tanto più prenderanno a prestito. L’offerta viene dalle famiglie: tanto più elevato il tasso di interesse, tanto più le famiglie saranno disponibili a posporre il consumo oggi per un maggiore consumo domani.

Il motivo per cui domanda ed offerta si incontrano ad un tasso negativo va trovato in problemi demografici e politici. Nei Paesi sviluppati la generazione del baby boom sta per andare in pensione. Preoccupata di avere di che vivere nella vecchiaia, oggi sta risparmiando molto. Paradossalmente, più i tassi di interesse si abbassano e più i figli del baby boom sentono che devono risparmiare, perché – se i tassi si mantengono bassi – hanno bisogno di più risparmi per mantenersi nella vecchiaia. Da qui un eccesso di risparmio.
In aggiunta le grandi opportunità di investimento oggi sono nei Paesi emergenti: Cina, India, Africa. Ma quali garanzie ha un investitore occidentale che i suoi risparmi un domani non vengano espropriati da quei Paesi? Quindi il flusso di risparmio in quella direzione è insufficiente. Per di più esiste un perverso flusso inverso. I ricchi di quei Paesi vogliono assicurarsi contro il rischio di futuri espropri, per questo spostano i loro capitali nei paesi sviluppati, anche se i tassi sono negativi. Meglio perdere l’1 per cento l’anno che rischiare di perdere il 100 per cento al prossimo cambio di regime. Il risultato è un eccesso di risparmio a livello mondiale, che provoca una caduta del tasso di interesse di equilibrio.

L’eccesso di risparmio è tale che il mercato vorrebbe un tasso ancora più negativo dell’attuale, ma è difficile da raggiungere. Il tasso di interesse di cui parliamo è quello reale (tasso nominale meno inflazione). Anche con tassi di interesse nominali positivi, è possibile rendere il tasso di interesse reale negativo: basta aumentare l’inflazione. Oggi però fatichiamo a raggiungere un’inflazione dell’1 per cento. Quindi anche con i tassi nominali a zero, il tasso reale non può scendere al di sotto del meno 1 per cento. E se questo non bastasse ad eguagliare domanda ed offerta?

Fintantoché la moneta non è tutta elettronica, c’è un limite a quanto negativi possono essere i tassi di interesse nominali. Se fossero meno 10 per cento, sarebbe preferibile detenere i propri risparmi in contante nella cassetta di sicurezza. Se oggi osserviamo dei tassi nominali leggermente negativi è perché i costi di transazione di detenere grandi quantità di contante rendono questa opzione non conveniente. Ma difficilmente i tassi di interesse possono scendere sotto il meno 1 per cento, senza che i risparmiatori comincino a investire in contante.

Quindi se la domanda e l’offerta di risparmio si incontrano ad un tasso reale inferiore al meno 2 per cento, cosa succede? Qui è dove i macroeconomisti si dividono. La tesi prevalente è che l’aggiustamento avrà luogo attraverso una recessione. Se il reddito delle famiglie scende, scende anche il risparmio. La recessione continuerà fino a quando offerta e domanda potranno incontrarsi ad un tasso superiore al meno 2 per cento.

Oggi nessun governo vuole prendersi la responsabilità politica di alzare l’inflazione.

La soluzione più semplice sarebbe aumentare l’inflazione o – meglio – le aspettative di inflazione, visto che sono queste aspettative che determinano il tasso di interesse reale atteso al momento dell’investimento. Per gli ultimi 40 anni i banchieri centrali hanno cercato di guadagnarsi credibilità, promettendo un’ inflazione stabile intorno al 2 per cento. Quindi non possono svegliarsi una mattina e decidere che la vogliono al 5 per cento. Ci vorrebbe una decisione politica. Ma un aumento dell’inflazione attesa è una tassa sul risparmio che ricadrebbe principalmente sugli anziani, che sono la maggioranza e vanno a votare in modo massiccio. Quindi nessun governo vuole prendersi la responsabilità politica di alzare l’inflazione.

Finora ho ignorato la politica fiscale. Un governo può entrare nel mercato del risparmio prendendo a prestito dei fondi ed investendoli – ad esempio – in infrastrutture. In questo modo aumenta la domanda di risparmio. Fintantoché uno stato ha un debito sostenibile, una politica fiscale di questo tipo aiuta a risolvere il problema. Il mercato del risparmio – però – oggi è globale, quindi difficilmente un Paese – soprattutto un Paese piccolo – può risolvere il problema da solo. Certamente non lo può fare l’Italia, che non ha un debito sostenibile e che non controlla neppure la propria moneta.

Potrebbe farlo la Germania. Con tassi di interesse negativi sul debito, la Germania sta sprecando enormi opportunità di investimento pubblico, sull’altare di principi ideologici. E con questo danneggia non solo se stessa, ma tutta l’area euro.

Per conto suo il Giappone, che controlla la sua moneta, ha provato a perseguire una politica fiscale molto aggressiva, accumulando deficit su deficit, raddoppiando il rapporto tra debito e Pil. Al momento questo debito è sostenibile grazie ad una politica monetaria estremamente espansiva e ad un risparmiatore giapponese che si ostina a detenere titoli di stato in yen, nonostante un rendimento nominale nullo e un deprezzamento dello yen. Non è chiaro fino a quando questa situazione possa durare. Nel frattempo, il Pil giapponese è cresciuto, ma molto lentamente.

Urge una locomotiva europea, soprattutto tedesca.

Chi ha gestito meglio di tutti la crisi è stata l’America. Ha avuto il coraggio di effettuare subito un grosso stimolo fiscale e di continuare poi a lungo con una politica monetaria molto espansiva. Il risultato sono stati 7 anni di crescita del Pil ad un ritmo modesto (+2.1 per cento), ma di gran lunga superiore a quello europeo e giapponese. Ma la locomotiva americana non è più sufficientemente potente da trascinare la crescita del mondo intero, soprattutto con un rallentamento della Cina all’orizzonte. Urge una locomotiva europea, soprattutto tedesca. Ma le formiche tedesche sono troppo intente a dare lezioni morali alle cicale del Sud Europa, per contribuire alla crescita europea e mondiale. Nel frattempo, aspettiamoci bassi tassi, deflazione e recessione.

Are Two Euros Better than One? (Published May 9, 2010)

Article published in the Italian Newspaper “Il Sole 24 Ore” May 9, 2010
Qui l’articolo in Italiano

The difficulties of life often push apart even the most loving couples. When differences of opinion become incurable, it serves no purpose to remember the love that was. Trying to attribute responsibility for the failure of the relationship is counterproductive. It only makes things worse. It’s better to come to an amicable separation and, as the English say, move on.

This same concept applies to the euro. It was a love marriage. Against the pessimism of the intellect, the founding fathers advanced the optimism of the will: the hope (delusion?) that the obvious incompatibilities would be overcome in the process of integration. To those (American economists) who said that the euro are was not made to have a single currency, they retorted that they were speaking out of envy, or worse, for fear that the euro would one day supplant the dollar.

As with many couples, the fatal attraction was born of differences. Southern Europe was looking for an external engagement that would give them the monetary and fiscal discipline that they had not been able to achieve alone.

Northern Europe hoped that in marriage the South would put its head on straight and abstain from the continuous devaluations that created tensions on the foreign exchange and export markets. As with many couples, these differences, so attractive initially, have become unsustainable over time.

Economic theory suggests that to share the same currency a geographical area must satisfy two conditions. The first is that it has a relatively homogenous economy, subjected to the same shocks. If part of the economy relies on oil and part on high tech, shocks will be very different, and monetary policy that fits one area will not work in the other.

The second condition, even more important, is internal mobility. If Texas (traditionally an oil-driven economy) can coexist with California (mostly relying on high tech), it is because Californians can easily move to Texas and vice versa. So much so that Austin, Texas has become one of the capitals of personal computers.

This is not true for Europe. It’s not just that the economy of the North of Europe, mainly based on the advanced manufacturing industry, is very different from that of the South, which is based on tourism, but mobility is very limited. What little mobility that exists is from the South to the North, not vice versa.

Since the introduction of the euro, the South has seen prices increasing at a faster rate than the North. Paradoxically, this growth was the euro’s “fault.” The introduction of a single currency resulted in a reduction in interest rates for the countries of southern Europe that favored a real estate boom. If this had been in the United States, residents of Michigan and Minnesota would be moving to Florida and Louisiana. This was not the case in Europe. The Germans and the Dutch in Greece and Spain are there to vacation, not to work.

The result of this segmentation is that for many years, prices in southern Europe have grown more than in the North, without the domestic markets forcing realignment. Now that the real estate boom has ended, the South is much less competitive than the North.

Without the option of devaluation, there are only three possible forms of adjustment. The first is to make prices in the South grow less than prices in the North. The problem with this is that with low global growth and the ECB’s monetary policy, prices in the North hardly grow more than two percent.

To recoup differentials of 20-30% (as they have in the southern markets), the South must undergo many years of zero inflation, or worse, deflation. The high levels of private debt in countries such as Greece and Spain, however, makes deflation extremely costly. If prices fall and debt remains fixed in nominal terms, there will be a chain of failures. The Greek government crisis “ce n’est qu’un début”: the problem will quickly move to the private sector.

An alternative is for the countries of the North to accept a higher inflation level, making it possible for the southern countries to regain competitiveness without having to accept a dangerous deflation. But this is the equivalent of asking a spouse to no longer be themselves in order to save the marriage. The Germans will not accept this. Their condition for joining was that the ECB would follow the strict monetary policy of the Bundesbank. This agreement has been incorporated into the treaties and is unlikely to be changed, especially without Germany’s consent. And the Germans do not see why they should have to accept much-despised inflation to correct the mistakes of others.

The only painless way out would for southern Europe to gain competitiveness with respect to the North and increase productivity. But this would require reforms, time, and investment. While the impact of the Greek crisis may have increased the pressure for reform, it has dramatically reduced the time available and the incentives to invest. How many years of double-digit unemployment are the Greeks and Spanish willing to bear?

Most economists accept this analysis, even Nobel Laureate Stiglitz, who certainly cannot be accused of being a right-wing economist. Where they disagree is in the remedy. Many, including Stiglitz, argue that the solution to the present crisis is further political and fiscal integration. Of course if the European government itself could borrow and allocate resources to the South, the current crisis could be alleviated.

This reasoning is correct, but it raises two major problems. The first is political. Politically it is not easy to explain to the Germans that they need to take on more debt (and therefore pay higher taxes in the future) to solve their Greek and Spanish cousins’ problems. It cannot be done in an electorally weak and divided government like Merkel’s. And it probably would not be possible even in the government of the best German leader.

We Italians live in a country that speaks the same language and that, for better or worse, united more than 150 years ago and is moving towards fiscal federalism, which will contribute to a reduction in transfers from the North to the South. How can we expect the European nations to go in a completely opposite direction, even while lacking a unified history?

The second problem is economic. Transfers alleviate economic problems in the short term, but do not solve them. Indeed, they will become chronic. Thanks to subsidies, areas not in line with the market can afford to remain so, without adjusting prices. The South of Italy has a price level higher than its average productivity. Sixty years of transfers have not alleviated this problem, but have turned it into gangrene. Do we want to transform the South of Europe into southern Italy?

The only solution left is to accept that the differences are irreconcilable and amicably break up the euro area. In economics, the greatest evil is uncertainty. The Greek crisis has sown the seed of doubt that one or more countries could leave the euro. Such doubt can hardly be dispelled. But the market has no idea how this exit will occur. Overwhelmed by passionate love, the euro’s founders refused to contemplate a way out. The euro, they said, is irreversible. But even the Catholic Church, which does not recognize divorce, has a procedure for separation in extreme situations. Why not for the euro?

This lack of rules is casting panic into the financial markets and paralyzing investment. Who will leave first? What will happen to contracts processed in euros in that country? What consequences will it have on other countries and their banks? A driven and rapid separation would be the lesser evil.

Creating two blocks would reduce the stigma on each country and allow the South to continue to hold a liquid currency. The euro-south’s depreciation against the euro-north would reduce the weight of public and private debt and allow a recovery of competitiveness that would relaunch the economy.

Is this inconceivable? Even the United States did this in the 30s, in the face of economic and social costs arising from the Great Depression, the United States abandoned the gold standard and turned all contracts written in dollar-gold to contracts in devaluated paper dollars. Why shouldn’t the southern European states abandon parity with the euro and transform contracts written in euros into contracts in a devalued euro-south?

A legitimate passion for European unity blinded the founding fathers of the euro. Like two lovers who hope that marriage will eliminate all their faults, the founding fathers were under the delusion that the European Union would create the European spirit. Indeed, the free movement of people, the Erasmus scholarships, and the increasingly widespread use of English are slowly forming a European spirit.

But it will take many decades, even centuries, before a Finnish citizen views a Greek citizen in the same way as their neighbor. More than a millennium of division is not erased in the space of a decade. A compulsory union does not help the economy or even the possibility of a future union. To save the European spirit it’s better to divorce amicably, which would preserve the economic union without forcing the monetary union. The alternative, an endless stream of bickering and recriminations, could be devastating.