Testo dell’intervista pubblicata sul quotidiano “La Stampa” il 9 Agosto 2015, a cura di Luigi Grassia.
Dall’economia arrivano segnali misti: come li giudica? L’Italia aggancerà o no il treno della ripresa? La stima di Pii +0,7% quest’anno è realistica?
«Cominciamo a considerare lo scenario europeo» risponde Luigi Zingales dall’Università di Chicago, dove insegna finanza alla Booth School of Business. «La ripresa in Europa c’è, grazie ai bassi tassi della Bce e al petrolio a buon mercato. Perciò sì, l’Italia avrà un incremento di Pil, nell’ordine dello zero virgola. Ma questo ci basta? Io dico di no».
Perché l’Italia aggancia a fatica la ripresa internazionale?
«È dal 1995 che il Pil italiano cresce molto poco: un +0,5% annuale ogni tanto. Ci sono problemi di fondo. Il primo è che l’Italia ha mancato la rivoluzione digitale. Molta della crescita della produttività americana è dovuta agli investimenti nelle tecnologie dell’informazione. Invece in Italia questo non si è visto».
Eppure tutti i bambini italiani hanno lo smartphone e l’iPad. E in passato siamo stati all’avanguardia nella robotica. Stavolta che cosa è mancato?
«Ecco un esempio concreto. In America la Wal Mart ha fatto un balzo di produttività grazie a sistemi avanzati di gestione della logistica . E negli Usa è normale la gestione dei clienti attraverso software. Invece in Italia, a parte qualche eccellenza, nella distribuzione non si fa certo un uso massiccio delle tecnologie digitali. Perché? In parte perché le aziende sono, in media, troppo piccole, ma in parte perché i manager, ad esempio i responsabili del marketing, preferiscono mantenere direttamente le leve del potere nelle loro mani».
Curioso: lei sta facendo ai manager privati la stessa critica che in molti fanno agli alti burocrati dello Stato. Poi in Italia ci sono altri problemi di fondo?
«Si è parlato molto in Italia della necessità di rendere flessibile il lavoro; e questo, è vero, è un problema. Ma si parla poco della scarsa flessibilità del capitale. In un sistema efficiente dovrebbe essere facile sia disinvestire dai settori in declino (perché subiscono, ad esempio, la concorrenza della Cina) sia dirottare le risorse verso i settori in ascesa e a più alto valore ag giunto. Ma in Italia tutte e due queste cose sono difficili. Intanto perché c’è un sistema finanziario che non aiuta la circolazione del capitale. Poi perché abbiamo avuto, storicamente, una legge fallimentare che ha mancato il suo scopo principale, che è salvare le imprese per poi rilanciarle. Spero che la nuova sia meglio. Poi le imprese italiane sono spesso in mano a famiglie che non amano disinvestire, perché poi non avrebbero altro da fare. E non è solo un fatto culturale: se queste famiglie finanziassero aziende nuove dirette da altri, e questi si rivelassero degli incapaci o dei manigoldi, i proprietari non riuscirebbero a tutelare il loro investimento. Abbiamo un sistema giudiziario che non riesce mai a mandare in galera i ricchi che se lo meritano, come è successo in America, per esempio, a un ex capo di McKinsey e a uno della Enron. Parlo di galera, non di arresti domiciliari o obbligo di firma».
Per caso sta invocando una bella dose di giustizialismo?
«No, al contrario. Il giustizialismo vuole tutti colpevoli, io vorrei un sistema giudiziario fondato sulla selettività e l’efficienza. In Italia c’è il mito dell’azione obbligatoria. È nella legge, ma è solo un mito. Ogni volta che un pm avvia un’azione giudiziaria dice che lo fa perché è costretto dalla notizia di reato. In realtà, sceglie fra le moltissime notizie di reato quelle che vuole perseguire, e non si giustifica mai, perché dice che l’azione è obbligatoria. Cosi un pm avvia magari 25 cause senza ottenere nessuna condanna. E tutto questo senza conseguenze negative sulla sua carriera. Invece della responsabilità civile dei magistrati vorrei una responsabilità gestionale: che i magistrati fossero incentivati a misurare i costi e i benefici delle azioni legali che scelgono di intraprendere e che vengano promossi sulla base dei loro risultati. una riforma di questo tipo servirebbe molto all’economia».
Il rallentamento della Cina minaccia la ripresa globale?
«Un Paese non può crescere per sempre al 10% annuo. Se il rallentamento si accompagnerà a un aumento dei consumi interni non provocherà una crisi internazionale».