Il modo giusto di opporsi a Trump: una lezione dall’Italia/ The Right Way to Resist Trump

Traduzione Italiana, a cura de Il Sole 24 Ore, dell’articolo pubblicato sul New York Times  con il titolo “The Right Way to Resist Trump.
En Español: “Lecciones de la era Berlusconi para lidiar con Trump“. 

Cinque anni fa mettevo in guardia dal rischio di una presidenza Trump. Quasi tutti ridevano. Pensavano che fosse inconcepibile.

Non è che abbia particolari doti di preveggenza: è solo che sono italiano e questo film lo avevo già visto, con protagonista Silvio Berlusconi, che è stato presidente del consiglio per un totale di 9 anni tra il 1994 e il 2011. Sapevo come sarebbero potute andare le cose.

Ora che Trump è stato eletto presidente, il parallelo con Berlusconi potrebbe offrire indicazioni utili su come evitare di trasformare una vittoria di strettissima misura in una saga ventennale. Se pensate che il limite dei due mandati e l’età avanzata del magnate possano preservare il Paese da questo fato, siete troppo ottimisti: il suo mandato potrebbe facilmente trasformarsi in una dinastia Trump.

Berlusconi è riuscito a governare così a lungo l’Italia grazie principalmente all’incompetenza dell’opposizione che aveva di fronte, così sfrenatamente ossessionata dalla sua personalità da tralasciare qualsiasi dibattito politico concreto e concentrare tutti i suoi sforzi su attacchi personali che ottenevano l’unico effetto di accrescere la sua popolarità. Il segreto di Berlusconi era la capacità di innescare una reazione pavloviana tra i suoi avversari di sinistra, che ingenerava una simpatia istantanea nella maggior parte degli elettori moderati. Trump non è diverso.

Abbiamo visto in opera questa dinamica durante la campagna per le presidenziali. Hillary Clinton era talmente concentrata a spiegare tutti i difetti di Trump che spesso e volentieri ha trascurato di promuovere le sue idee, di fornire ragioni positive per votare per lei. I mezzi di informazione erano così intenti a ridicolizzare i comportamenti di Trump che hanno finito per garantirgli una pubblicità gratuita.

Purtroppo questa dinamica non è finita con le elezioni. Poco dopo il discorso della vittoria di Trump sono scoppiate proteste in tutta l’America. Contro cosa stavano protestando queste persone? Che ci piaccia o no, Trump ha vinto in modo legittimo. Negarlo non fa che alimentare la percezione che esistano candidati «legittimi» e candidati «illegittimi», e che un’élite ristretta stabilisca quali sono gli uni e quali gli altri. Se è così, le elezioni sono soltanto un concorso di bellezza tra candidati che hanno ricevuto la benedizione dei chierici del Consiglio dei guardiani, come in Iran.

Queste proteste sono anche controproducenti. Ci saranno mille motivi per lamentarsi durante la presidenza Trump, quando verranno prese decisioni pessime. Perché lamentarsi adesso, quando non è stata presa ancora nessuna decisione? Delegittima le future proteste e rivela i pregiudizi dell’opposizione.

Anche la petizione che chiede ai membri del Collegio elettorale di violare il loro mandato e non votare per Trump potrebbe fare il gioco del presidente eletto. È un’idea incauta. Su quali basi potremmo protestare in futuro, quando Trump truccherà le carte per ottenere ciò che vuole?

L’esperienza italiana offre un modello per sconfiggere Trump. Solo due uomini in Italia hanno vinto una competizione elettorale contro Berlusconi: Romano Prodi e l’attuale presidente del consiglio Matteo Renzi (anche se nel secondo caso si trattava soltanto di elezioni europee). Tutti e due hanno trattato Berlusconi come un avversario normale e si sono concentrati sulle questioni, invece che sul personaggio. In modi diversi, tutti e due sono visti come outsider, e non come membri di quella che in Italia viene definita «la casta».

Il Partito democratico in America dovrebbe imparare la lezione. Non deve fare quello che hanno fatto i Repubblicani dopo l’elezione del presidente Obama. La loro opposizione preconcetta a qualunque sua iniziativa ha avvelenato il pozzo della politica nazionale, alimentando la reazione anti-establishment (anche se per il partito si è rivelata una strategia elettorale vincente). Ci sono moltissime proposte di Trump con cui i Democratici possono concordare, per esempio i nuovi investimenti in infrastrutture. La maggior parte dei Democratici, inclusi politici come Hillary Clinton e Bernie Sanders ed economisti come Lawrence Summers e Paul Krugman, hanno perorato l’idea delle infrastrutture come mezzo per incrementare le domanda ed espandere l’occupazione tra i lavoratori senza un livello di istruzione superiore. Potranno esserci delle differenze di dettaglio con il piano dei Repubblicani, ma l’opposizione democratica guadagnerà credibilità se cercherà di trovare i punti in comune, invece di focalizzarsi unicamente sulle differenze.

E un’opposizione focalizzata sulla personalità di Trump lo incoronerebbe come guida delle masse nella lotta contro la casta di Washington. E indebolirebbe la voce dell’opposizione sulle questioni dov’è importante condurre una battaglia di principio.

I Democratici, inoltre, farebbero bene a offrire a Trump una sponda contro l’establishment repubblicano, un’offerta che lo costringerebbe a rivelare se il suo populismo sono soltanto parole o posizioni reali. Per esempio, con l’incoraggiamento di Trump, il programma repubblicano invocava la reintroduzione della legge Glass-Steagall, che separava l’attività delle banche d’affari da quella delle banche commerciali. I Democratici dovrebbero dichiarare il loro sostegno a questa separazione, una misura a cui molti Repubblicani sono contrari. L’ultima cosa che dovrebbe volere l’opposizione è che Trump possa usare l’establishment repubblicano come foglia di fico per i suoi fallimenti, rovesciando su di esso la responsabilità di aver bloccato le riforme popolari che ha promesso durante la campagna e probabilmente non ha mai avuto intenzione di mettere in pratica. Una cosa del genere non farebbe che ingigantire la sua immagine di eroe del popolo ostacolato dalle élite.

Infine, il Partito democratico dovrebbe trovare un candidato credibile tra i leader giovani, una persona al di fuori dei bramini del partito. La notizia che Chelsea Clinton sta pensando di presentarsi alle elezioni è la peggiore che si possa immaginare. Se il Partito democratico si sta trasformando in una monarchia, come può pensare di combattere le tendenze autocratiche di Trump?


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Snobismo e Disprezzo sono Benzina per l’Antipolitica

Pubblico qui di seguito un commento al mio articoloPerché Hillary Clinton ha fallito“. È lungo (approfitto dell’occasione: siate sintetici nei commenti…), ma mi fa piacere condividerlo con voi perché vale davvero la pena leggerlo.
All’autore/autrice, che si firma “imlostinmilan”, il mio grazie sia per l’attenzione riservata al mio articolo, sia per l’acuto commento inviatomi.


Questo il commento di “imlostinmilan”:

Più che pensare alla debacle di Hillary trovo molto più interessante riflettere su ciò che sta accadendo nel mondo. C’è un sottile filo che ci unisce tutti: M5S, Brexit, vittoria di Trump.
Mi ricorda un po’ quel periodo in cui in Olanda era esploso lo show Big Brother e i cosiddetti opinionisti, critici televisivi e la gente del mondo dello spettacolo non avevano capito nulla. Tutti lo criticavano come se fosse una follia olandese da cui gli altri paesi erano immuni. Poi il format è velocemente arrivato in ogni nazione ed è stato un successo strepitoso, non si parlava d’altro. Nonostante questo si continuava a parlarne con un certo snobismo, specie da chi temeva di essere soppiantato da dei dilettanti. Tutto ciò non intaccò minimamente il suo successo. Dico questo non essendo un fan del programma, ma penso che allora avere quell’atteggiamento fosse da persone ottuse. Se una cosa esplode è inutile fare gli struzzi o mettersi su un piedistallo.

Lo stesso sta accadendo in politica e nei media. I politici temono le nuove forze, ma le contrastano solo con lo snobismo e una dose di disprezzo che piove dall’alto. Mentre i social network stanno soppiantando i vecchi media. Perché sui social si può dire quello che si vuole e tutti hanno spazio. Maggiore libertà ha un mezzo e maggiore è la sua potenza espressiva e divulgativa. Sia nel bene che nel male. Anzi forse più nel male, perché la volgarità, il linguaggio violento e delle becere semplificazioni attirano più attenzione rispetto alla pacatezza, all’educazione e a discorsi articolati, complicati e lunghi.

Quello che accade ora è che in contrapposizione alla globalizzazione abbiamo un’enorme montagna di sterco che non smetterà di crescere. La montagna è composta da pseudo-esperti che tirano fuori teorie strampalate che mettono su Internet, iniziano a diffondersi e poi vengono invitati anche dai media tradizionali. Ci sono leader che usano questi pseudo-esperti come sponda oppure estrapolano frasi di esperti veri distorcendole e abbinano a ciò un po’ di populismo basato su semplificazioni dove si fanno un paio di correlazioni per spiegare un fenomeno e una relativa soluzione (esempio: stiamo male? Usciamo dall’euro). E infine giornali, televisioni e social network. Più la spari grossa e più i media tradizionali ti danno spazio. Dopo seguono i social network che amplificano tutto perché ci sono gli under-achiever, gente che ha fallito nella vita e non ha niente da fare. Passano il tempo a veicolare questi messaggi. Poca qualità, ma tantissima quantità. Messaggi che funzionano come spot mandati avanti da gente che praticamente lavora gratis.

È difficilissimo essere convincenti contro questa montagna di sterco perché fare una correlazione è la cosa più facile del mondo, mentre per controbatterla bisogna essere esperti su quell’argomento specifico. Siccome gli esperti hanno altro da fare e in genere vogliono essere pagati c’è un livello di forza 100 vs 1 o anche 1000 vs 1 sui social network.

Si può però mettere un link a un articolo che smonta delle tesi. Ma le spiegazioni sono sempre troppo lunghe e molta gente non le leggerà, non le capirà perché è di fretta oppure non è proprio in grado di capire. Una buona sintesi poi non ha la stessa carica emotiva di una becera semplificazione che colpisce alla pancia. In ogni caso quando un esperto corregge una tesi sbagliata seguirà sempre la contro replica da parte degli pseudo-esperti e verrà veicolata in maniera massiccia dagli under-achiever. È una lotta impari contro un’enorme montagna di sterco.

L’unica soluzione per me è un miglioramento dei media. Molti per anni hanno elogiato la BBC. La BBC non basta, ci vuole qualcosa che vada oltre, in UK hanno la BBC e hanno avuto Brexit. Ci vogliono editori in grado di creare una strategia che funzioni su tutti i livelli: giornale, tv, social network. Devono formare vari team di persone in grado di analizzare la complessità e di presentarla in una sintesi che sia corretta, ma che sia anche anche accattivante, convincente e che spinga alla condivisione. Bisogna puntare di meno sul talk show e più su cose visuali: clip, animazioni, infografiche. Ci vuole da una parte chi sa analizzare e sintetizzare in modo corretto e dall’altra chi è in grado di trasformare questi concetti in una forma di comunicazione di forte impatto, chiara ed efficace.


Sul ruolo centrale dei media ho scritto molti articoli. Qui di seguito i link ai più recenti, per chi volesse leggerli. LZ
– “Una Democrazia senza una Stampa Indipendente non funziona“, proprio alla vigilia del primo dibattito televisivo Clinton-Trump
– “Brexit e Trump: le radici della protesta sono simili (e l’intellighenzia si ostina a demonizzarle)
– “The Real Lesson From Brexit” (in inglese, all’indomani del Referendum in Gran Bretagna)

Perché Hillary Clinton ha fallito

Testo dell’articolo pubblicato il 10.11.2016 su “Il Sole 24 Ore”.

Nel 1972 il Partito Repubblicano di Nixon manipolò le primarie Democratiche con lo spionaggio al Watergate per far vincere Mc Govern, un candidato che non aveva chance di vincere nel test a testa con Nixon. Dicky Tricky vinse con un plebiscito.

Quest’anno a truccare le primarie Democratiche ci ha pensato lo stesso Partito Democratico. Come hanno evidenziato le email rivelate da Wikileaks, Debbie Wasserman Schultz – la presidente del partito Democratico – invece di essere un arbitro imparziale delle primarie, si era trasformata in uno dei principali sostenitori della Clinton. Se non bastasse, sempre da Wikileaks è emerso che una giornalista amica ha passato alla Clinton le domande prima di un dibattito con Bernie Sanders. Tutto l’establishment Democratico ha fatto squadra contro un candidato che avrebbe avuto maggiori chance di vincere contro Trump.

Perché lo ha fatto? Perché era sentimento comune che la presidenza fosse dovuta a Hillary Clinton, come se gli Stati Uniti fossero una monarchia. Le era dovuta per aver resistito a fianco del marito Bill, nonostante i continui tradimenti. Le era dovuta da Obama, che dopo averla battuta sul filo di lana nel 2008, aveva abbracciato il clan Clinton, al punto da scoraggiare il suo vicepresidente Biden, un candidato con migliori chance di vincere, dal partecipare alle primarie. Le era dovuta perché era giusto che una donna diventasse presidente, nonostante Hillary Clinton fosse arrivata alla fama principalmente come “moglie di”. Margaret Thatcher e Angela Merkel sono diventate primo ministro per meriti personali, non perché mogli di primi ministri. Perché gli Stati Uniti dovrebbero meritarsi di meno? O le quote rosa (su cui – in alcuni casi – sono d’accordo) si devono applicare anche alla posizione di presidente degli Stati Uniti?

Non era considerata la candidata più preparata? Sulla carta aveva indubbiamente molta più esperienza, ma aveva sbagliato le più importanti decisioni che aveva preso, dal voto a favore dell’invasione dell’Iraq alla decisione di invadere la Libia, fino a quella di lasciare senza soccorso l’ambasciatore americano a Bengasi, il cui cadavere finì trascinato per le strade della città libica.

gli errori del Partito Democratico

Come è possibile che il Partito Democratico abbia commesso un errore così madornale? Perché ha pensato che le elezioni si vincessero con i soldi e non con i voti. Hillary Clinton ha raccolto $687 milioni contro i $307 milioni di Trump. Con il sostegno degli amministratori delegati delle grandi imprese (tutti a suo favore) e non quello dei colletti blu. Con il consenso dei principali media, non capendo che la fiducia degli americani nei mezzi di comunicazione è così bassa che ogni attacco a Trump era pubblicità gratuita a suo favore. Più che vinta da Trump, questa elezione è stata persa da Hillary Clinton e dall’establishment democratico che l’ha sostenuta.

Il Partito Democratico ha sbagliato anche perché ha scelto un candidato sordo alla sofferenza dell’americano medio, un candidato che non “sentiva la bruciatura” (“feel the Bern”), come recitava lo slogan inventato con un gioco di parole da Sanders (Bern è il suo diminutivo e “burn” è la parola inglese per bruciatura).  Dall’alto dei $139 milioni guadagnati negli ultimi 7 anni, dall’alto del favoloso banchetto di nozze della figlia, pagato – sempre secondo Wikileaks – dalla Fondazione Clinton, dall’alto dei meeting con i sovrani più repressivi del mondo, che riversavano soldi nella Fondazione Clinton nella speranza di avere dei favori, Hillary Clinton non poteva identificarsi con la pena di quei colletti blu, che lei stessa aveva definito “deplorevoli”. E loro non potevano identificarsi con lei.  Hillary Clinton era il peggior candidato che il Partito Democratico potesse scegliere in un anno come questo. E questo era chiaro a chiunque non vivesse solo tra i salotti di New York e i golf di Palm Beach, leggendo il New York Times e ascoltando CNN, ribattezzata il Clinton News Network. Il partito Democratico è rimasto vittima della bolla mediatica che ha creato e in cui vive. Così facendo non solo si è autocandidato alla sconfitta, ma ha condannato il mondo intero ad almeno quattro anni di Presidenza Trump.

NON POSSIAMO RIDURRE TUTTO QUESTO A POPULISMO. sI CHIAMA democrazia

Il Partito Democratico americano deve fare una seria autocritica. Ma l’autocritica dobbiamo farla anche noi. Non possiamo ridurre tutto questo a populismo. Si chiama democrazia. Se in una democrazia la maggioranza dei cittadini non vede migliorare le proprie condizioni di vita per molti anni di seguito, finisce per votare contro chi governa, contro l’establishment, anche a costo di prendersi dei rischi. È il coraggio della disperazione. Non dimentichiamocelo.


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Chiunque vinca l’America non è più la stessa

Testo dell’editoriale pubblicato il 6.11.2016 su “Il Sole 24 Ore”.

A 36 ore dal voto, con 33 milioni di schede già consegnate, l’esito delle elezioni presidenziali americane sembra ancora molto incerto. Gli ultimi sondaggi danno i due candidati pressoché alla pari, mentre i siti di scommesse vedono Hillary Clinton in leggero vantaggio. Ma non sarebbe la prima volta che sbagliano. I sondaggisti sono molto più bravi a predire le preferenze politiche che la partecipazione al voto ed oggi le elezioni si vincono motivando i propri elettori a votare, non convertendo gli elettori altrui.  Come hanno sbagliato per la Brexit, c’è il serio rischio che i sondaggi sbaglino anche qui. La tensione è talmente alta che gli psicologi hanno notato un aumento degli attacchi di ansia tra i loro pazienti. Il mondo intero guarda con il fiato sospeso. Siamo veramente sull’orlo del baratro?

Penso proprio di no. Con tutta probabilità la Camera avrà una maggioranza Repubblicana e il Senato una Democratica. Quindi chiunque vincerà le elezioni presidenziali dovrà fare compromessi per governare. Uno svantaggio se si desidera un’azione di governo rapida ed incisiva, ma un grosso vantaggio se si teme che il Presidente possa prendere decisioni inconsulte (vantaggio da non dimenticare in tempi di riforme costituzionali). È proprio questa divisione dei poteri a rassicurarci che il danno potenzialmente prodotto da un presidente degli Stati Uniti sia limitato. Per questo, chiunque risulti eletto attuerà una politica fiscale più espansiva, una politica estera più isolazionista e avrà una maggiore riluttanza a firmare nuovi trattati di libero scambio.  Queste sono le indicazioni emerse durante le lunghe primarie e questa sarà la direzione di marcia del nuovo presidente chiunque esso sia. Giudici della Corte Suprema a parte, chi vincerà la corsa presidenziale non sarà così determinante per il futuro degli Stati Uniti e del mondo. Non per questo la campagna elettorale non lascerà un segno, anzi.

Il primo segno riguarda la massa di “deplorevoli”, come li ha chiamati Hillary Clinton, alla ricerca di una rappresentanza politica. Sono l’americano medio che non vede crescere il proprio reddito reale da quarant’anni, sono gli operai che vedono il loro lavoro eliminato e non hanno prospettive per riqualificarsi, sono i senzalavoro che si suicidano lentamente imbottendosi di medicine offerte dal servizio sanitario nazionale.  Quello stesso stato sociale che non li aiuta quando sono in difficoltà, distribuisce loro gratuitamente e copiosamente le medicine più pericolose, per la gioia dell’industria farmaceutica. Questi “deplorevoli” sono disposti a tutto pur di cambiare l’establishment di Washington, anche a votare per un candidato considerato deplorevole. Anzi più è considerato deplorevole dalla maggior parte dei media, e più lo sostengono, perché si identificano con lui. Che Trump vinca o no, questa massa ha assunto rilevanza politica e non la perderà facilmente.

Il secondo segno riguarda la fine dei partiti tradizionali come li abbiamo conosciuti. Il Partito Repubblicano si era basato su una coalizione tra una élite pronta a sacrificare la tolleranza sui diritti civili per la difesa dei suoi interessi economici ed una base pronta a sacrificare il suo naturale protezionismo ed isolazionismo, in nome della difesa dei tradizionali valori cristiani. Trump ha spezzato questa coalizione dimostrando che si può vincere le primarie rivolgendosi solo alla base.  Dopo questa rivelazione è difficile immaginare se e come il Partito Repubblicano possa sopravvivere senza rifondarsi completamente. Ma anche il Partito Democratico affronta una crisi esistenziale. Si era basato su una coalizione tra le minoranze etniche e una élite che aveva scoperto i benefici i benefici dell’interventismo statale per i grandi gruppi. Come lo scandalo delle email ha rivelato, questa élite non ha esitato a truccare le regole del gioco per far vincere il suo candidato a spese di Bernie Sanders. Se Hillary Clinton è così in difficoltà con un rivale come Trump vuol dire che i “deplorevoli” democratici e parte dei giovani l’hanno abbandonata.

Ma il cambiamento più rilevante riguarda l’atteggiamento degli Americani verso il proprio sistema politico. Nel 1960 Nixon riconobbe (senza alcun ricorso) la vittoria di Kennedy nonostante in Illinois avessero votato anche i morti. Dopo una battaglia giudiziaria, nel 2000 Gore riconobbe la vittoria di Bush in Florida per 154 voti, nonostante i dubbi sui voti espressi. Oggi da una parte Donald Trump mette in dubbio preventivamente i risultati delle elezioni se a vincere non sarà lui, sulla base di ipotetici brogli di cui non c’è alcuna evidenza. Dall’altra, Hillary Clinton mette in dubbio l’imparzialità ed indipendenza dell’FBI per coprire i propri errori. Se gli stessi leader accusano il sistema di essere truccato, come può l’americano medio fare diversamente?

Questa rischia di essere l’eredità più pesante di queste elezioni. Senza un’accettazione delle regole del gioco è impossibile per un presidente raccogliere il paese dietro di sé. E senza questa coesione è difficile governare. Noi italiani lo sappiamo fin troppo bene. Per questo le regole del gioco devono cambiare per riguadagnare credibilità, a partire dal modo in cui i finanziamenti elettorali sono raccolti. Difficile immaginare che, se eletti, questi candidati vadano in questa direzione. Ma se non lo faranno, a soffrire non sarà solo la democrazia americana, ma il mondo intero.


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Una Democrazia senza una Stampa Indipendente non funziona

Testo dell’articolo pubblicato il 25.09.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”, con il titolo “La (pericolosa) disaffezione degli americani per i media“.
Lo ripubblico qui a dibattito Clinton-Trump avvenuto, invitandovi a (ri)leggerlo anche alla luce dei commenti (pressoché unanimi) dei media su chi ne è risultato vincente. 

Domani sera (26 Settembre, ora americana) ci sarà il dibattito presidenziale più seguito della storia (si parla di 100 milioni di spettatori). A determinare tanto interesse, non c’è solo la natura eccezionale dei candidati: l’improbabile Trump con le sue incredibili sparate razziste e la prima donna candidato, sopravvissuta a più scandali del nostro Andreotti. L’evento è così importante perché potrebbe essere determinante per le elezioni. I sondaggi danno i candidati testa a testa e – più che in passato – molti elettori decideranno sulla base dell’opinione che si formeranno durante il dibattito. Il motivo è che non si fidano più dei media.

Un sondaggio effettuato regolarmente da Gallup ci mostra una discesa sorprendete: nel 2000 il 51% degli elettori americani si fidava dei media, con poca differenza tra Repubblicani, Democratici, ed Indipendenti. Oggi, solo il 32% si fida, con un’enorme variazione tra i tre gruppi: il 51% dei Democratici si fida dei media, contro il 30% degli Indipendenti, e il 14% dei Repubblicani. Non sorprende dunque che nelle primarie tanto più i media ridicolizzavano Trump, tanto più lui prendeva voti: con una fiducia verso i media così bassa, le loro critiche risultavano pubblicità gratuita. Anche gli Indipendenti che, come sempre, decideranno le elezioni, non sembrano fidarsi molto dei media, quindi saranno i dibattiti a determinarne il loro voto.

i giornalisti “amici” RICEVONO informazioni in anticipo, MENTRE quelli “nemici” non solo NON HANNO accesso alle fonti, ma sono spesso depistati.

Perché i cittadini americani hanno perso fiducia nei media? Ci aiuta a rispondere alla domanda un articolo pubblicato sull’ultimo numero di Scientific American. Contiene un’indagine sui rapporti tra media e l’agenzia governativa che controlla la sicurezza delle medicine e del cibo (FDA). Secondo Scientific American la FDA regola arbitrariamente l’accesso dei giornalisti alle informazioni per influenzare il contenuto dei loro articoli.  È la tattica perfezionata da Alastair Campbell, capo della comunicazione dell’allora primo ministro inglese Tony Blair. Ai giornalisti “amici” vengono fornite informazioni in anticipo, a quelli “nemici” non solo viene negato l’accesso alle fonti, ma sono spesso depistati. Una delle fonti spesso discriminate dalla FDA è Fox, la televisione ultraconservatrice. Questo potrebbe spiegare la scarsa fiducia dei Repubblicani.

A noi italiani queste interferenze sui media non sorprendono: sono sempre state all’ordine del giorno. Ma in America, la patria del giornalismo investigativo e del Watergate, risultano nuove ed inaccettabili. Sono il prodotto di un’ inversione del rapporto di forza tra media e poteri costituiti. Una volta i media erano profittevoli e potevano permettersi di mettere in ginocchio sia i presidenti (vedi Nixon) che le società (vedi il caso contro British American Tobacco). Oggi i media tradizionali, sull’orlo del fallimento, sono alla caccia disperata di scoop per sopravvivere e quindi sono in balia delle fonti.

Perché i Democratici continuano a fidarsi? Oggi il governo e tutte le principali imprese sostengono massicciamente la Clinton, per paura di cosa possa fare un candidato anti establishment. Non è tanto il suo razzismo a spaventarli, ma la sua ingovernabilità. Se eletto Trump potrebbe introdurre barriere doganali o liberalizzare l’importazione delle medicine dal Canada (dove costano una frazione di quello che costano negli Stati Uniti), perché non è stato finanziato dalle principali imprese. I “poteri forti” votano tutti per Hillary e per questo gli elettori non sfacciatamente Democratici non si fidano di quello che viene riportato dai media.

Purtroppo in questa spirale di sfiducia, a perderci è la verità dei fatti. Se gli elettori non si fidano dei media, chi garantisce che ad essere eletto non sia chi la spara più grossa? Per fortuna nelle elezioni presidenziali esistono i dibattiti televisivi e la posta in gioco è talmente alta da attirare l’interesse degli elettori. Ma per tutto il resto? Raramente gli elettori guardano i dibattiti tra senatori e quasi mai tra membri del Congresso. Una democrazia senza una stampa indipendente non funziona. Su questo noi italiani possiamo dare lezioni.


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State alla larga dai gestori figli di papà

Testo dell’articolo pubblicato il 18.09.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”. 

La mela non casca lontana dall’albero – recita un proverbio inglese. Forse anche per questo in Italia le origini familiari vengono utilizzate per valutare le persone. Quando ero bambino, gli adulti usavano chiederti “come nasci?” Non era una domanda indiscreta su come eri stato partorito, ma sul tuo lignaggio. L’assunto era che le famiglie notabili (se non nobili) generassero figli altrettanto notevoli. Oggi questa domanda è meno comune, ma la discriminazione dinastica no. Solo qualche anno fa il curriculum vitae di un rampollo della Brescia bene recitava “figlio dell’avvocato Amilcare Di Mezza, professionista e imprenditore bresciano, e di Gnutti Giuliana figlia di Cesarino Gnutti, capostipite della notissima famiglia di imprenditori della Val Trompia”.   Questa dichiarazione veniva prima di qualsiasi titolo di studio o risultato professionale, a dimostrazione che in Italia valgono più i meriti dinastici che quelli personali. Non a caso esistono associazioni basate esclusivamente sul merito dei genitori.

La selezione basata sul lignaggio è discriminatoria, ma non necessariamente inefficiente dal punto di vista individuale. Non c’è dubbio che vi sia una predisposizione ereditaria a certo tipo di professioni e che – in aggiunta – una parte importante del capitale umano venga accumulato in famiglia. In media un figlio di Yo-Yo Ma sarà un musicista migliore e quello di Messi un calciatore migliore del figlio di uno come me che a stento sa suonare il campanello o calciare un tiro tra i pali. Non sapendo null’altro di una persona, tranne la professione dei genitori, è ottimale (almeno dal punto di vista individuale) utilizzare il lignaggio per selezionare. Il quesito interessante è se questa conclusione valga anche conoscendo i risultati scolastici e lavorativi di una persona. In altri termini, dobbiamo valutare positivamente o negativamente l’informazione aggiunta dal bresciano al suo curriculum vitae?

Finora era difficile rispondere a questa domanda perché non c’era nessun dataset che contenesse informazioni sul reddito dei padri e la performance dei figli. Di recente gli Stati Uniti hanno reso disponibili tutti i dati dei censimenti fino al 1940, con tanto di nomi e cognomi. Due professori di finanza hanno avuto la pazienza di collegare i nomi dei gestori di fondi comuni di investimento attuali con quelli dei loro genitori, studiando la relazione tra performance dei figli e reddito dei padri. I risultati sono sorprendenti. Il rendimento medio di un gestore di umili origini eccede quello di un gestore “figlio di papà” di 2,16 punti percentuali l’anno. Sembra poco, ma si tratta di performance aggiustata per il rischio (quella che in finanza si chiama alfa). Come alfa è molto elevato.

Questo non vuol dire che in media i figli dei poveri siano più bravi dei figli dei ricchi, ma solo che è più facile per un figlio di un ricco diventare gestore di un fondo (anche con una performance mediocre). Gli autori dello studio sembrano trovare conferma di questa ipotesi nei dati. I manager nati ricchi hanno maggiori probabilità di essere promossi, mentre quelli nati poveri sono promossi solo se dimostrano dei risultati molto buoni.  L’esempio più eclatante di questo fenomeno, anche se si tratta di un genero e non di un figlio, viene da un episodio di cronaca recente.  Il marito di Chelsea Clinton, la figlia di Bill e Hillary, era riuscito ad ottenere – anche grazie alle relazioni dei suoceri – 25 milioni di dollari da gestire nel suo hedge fund. Peccato che nel giro di due anni abbia perso il 90 per cento del capitale investito ed abbia dovuto liquidare il fondo.

Le scarse capacità dei figli di papà sono confermate anche da uno studio sui maschi norvegesi, che è stato in grado di collegare la professione dei figli non solo con il reddito dei genitori, ma anche con il quoziente di intelligenza dei figli stessi (in Norvegia viene misurato alla visita di leva). Lo studio documenta che i figli che seguono la professione del padre sono mediamente meno intelligenti di quelli che non lo fanno. Il probabile motivo è che il vantaggio comparato dato dalle relazioni paterne è più importante per una persona meno brillante.

Lungi dal segnalare le capacità individuali, i successi dei genitori indicano che una persona è stata più fortunata che brava.  Forse conviene chiedere “come nasci”, ma solo per stare alla larga dai figli di papà.


Qui di seguito i link ai precedenti articoli della Rubrica “Alla Luce del Sole”: 

– Un’assicurazione comune contro la disoccupazione per salvare l’Unione Europea
– Quale soluzione per il Monte Paschi?
– Crisi bancarie, chi non impara dalla storia le ripete
– Quel «tesoretto» della bad bank del Banco di Napoli
– Quante sofferenze si nascondono negli “incagli”?
– Cosa Insegnano ad Atlante le Sofferenze del Banco di Napoli 
– Le Operazioni di Sistema sono Aiuti di Stato?
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– Salvare le banche per far ripartire l’economia
– L’importanza di un Buon Piano di Successione e il Ruolo del Consiglio di Amministrazione 
Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia
– Cosa fare per evitare che il “decreto banche” diventi solo un regalo alle banche
– Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori
– Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi 
– Le Responsabilità della Consob sulle Obbligazioni Subordinate
– Gli stipendi degli AD e quei paracadute troppo grandi

Cosa (non) cambierà, se Hillary Clinton diventerà presidente

Testo dell’intervista pubblicata sul Giornale di Sicilia il 28.07.2016

L’economista Zingales: «Obama lascia un Paese migliore di quello che ha trovato. C’è però un malessere diffuso nella classe media impoverita».
«Ma con Hillary nessuna vera svolta nella politica americana»

«Cosa cambierà, se Hillary Clinton dovesse diventare presidente? Temo niente!». Luigi  Zingales, l’economista italiano che insegna alla «Booth School of Business» dell’Università di Chicago, sta vivendo senza troppo entusiasmo «la stagione delle convention» negli Usa. Democratici a Philadelphia per incoronare l’ex senatrice dello Stato di New York, dopo che i repubblicani avevano fatto lo stesso con Donald Trump a Cleveland.

– Hillary Clinton, candidata della continuità?
«Nelle scelte di politica economica e politica estera Hillary Clinton non è molto diversa da Obama, né da George W Bush. L’unica cosa che cambierà veramente saranno i giudici della Corte suprema e quindi anche le decisioni sui diritti civili ed in particolare sui diritti delle donne, cui Hillary è molto sensibile. Ma Hillary Clinton non sembra essere molto sensibile all’impoverimento della classe media. Tanto che molti degli elettori di Sanders preferiscono non andare a votare piuttosto che votare per lei».

Disoccupazione in calo e Pil in aumento, ma anche stipendi che non crescono da anni e classe media in affanno. Obama lascia davvero in eredità un Paese che ha ormai alle spalle la crisi economica?
«In America gli effetti della crisi finanziaria del 2008 sono largamente superati, la disoccupazione è a livelli minimi ed entriamo nel settimo anno di crescita. Soprattutto vista dall’Italia, l’America sembra un sogno. Ma rimangono molti problemi strutturali, che predatano il 2008 e quindi non sono attribuibili ad Obama, ma che non sono stati ancora risolti. Tra i molti l’impoverimento relativo della classe media e l’aumento degli uomini al picco dell’età lavorativa che escono dalla forza lavoro, ovvero che hanno perso pure la speranza di trovare un lavoro. Ciononostante, Obama lascia un Paese migliore di quello che ha trovato».

– Nella convention repubblicana, Donald Trump ha affermato che «i redditi delle famiglie americane sono scesi e il debito nazionale raddoppiato». Argomenti da comizio?
«Nel suo discorso Donald Trump ha proiettato un’immagine eccessivamente cupa dell’America. Spesso lo ha fatto con un uso molto spregiudicato dei dati. Per esempio, è vero che il debito è raddoppiato in termini nominali, ma quello che conta è il rapporto tra debito e Pil e questo è salito “solo” dal 65 al 104 per cento. Per di più la forte crescita del debito è cominciata nel 2008-2009 a causa di una crisi finanziaria di cui Obama non è certo responsabile. Ma non tutto quello che dice è esagerato».

– Cioè?
«Lo sviluppo tecnologico e la globalizzazione hanno beneficiato molto di più alcuni che altri. Ad esempio, più del 50 per cento dei maschi americani non ha visto un aumento del proprio stipendio, in termini reali, negli ultimi 40 anni e questo rappresenta un problema. L’aspettativa di vita degli uomini bianchi ha smesso di crescere ed in alcune categorie è addirittura scesa. Questi sono segnali di un malessere diffuso e profondo».

– In un’intervista al “Giornale di Sicilia” l’ex capo della Associated Press in Italia, Victor Simpson, ha sottolineato come «sia colpa della propaganda politica se gli statunitensi pensano di stare male». Ha ragione?
«La propaganda politica sta esagerando sulla questione del crimine. Tranne Chicago e Baltimora, gli omicidi sono in netta diminuzione. Ma l’insoddisfazione della classe media è reale ed era stata ignorata fino ad ora. Un mio libro del 2012 che parlava di questi problemi fu largamente ignorato dal dibattito politico. E anche in questa campagna elettorale, se non fosse stato per Trump e Sanders, i problemi della classe media sarebbero stato ignorati».

– In Iraq e Siria, come altrove, gli Usa sono impegnati in costosissime missioni di guerra. Prevedibile un progressivo ritiro, anche solo per esigenze di bilancio?
«Sì e non solo per esigenze di bilancio, ma anche per un isolazionismo crescente negli Stati Uniti. Trump lo ha gridato alla convention: “America First”. Questo isolazionismo è sicuramente molto preoccupante per l’Europa. Se poi Trump dovesse diventare un alleato di Putin, per noi sarebbe un vero problema».

– Anni di recessione, ma anche di terrorismo e “sparatorie di massa”. Quanto e come è cambiato lo stile di vita americano?
«In eventi relativamente rari, come fortunatamente sono i crimini contro le persone, la gente reagisce più alle percezioni dei media che alla realtà. La città in cui vivo, Chicago, è molto violenta, ma per capire quanto lo fosse sono dovuto andare a vedere l’ultimo film di Spike Lee, perché la violenza è concentrata in alcuni quartieri. La violenza terroristica è disegnata per aumentare la percezione di insicurezza, quindi non stupisce che la gente reagisca di più di quello che dovrebbe».

– Quindi?
«Il rischio di morire in un attentato terroristico è minimo, ma non viene percepito come tale. Il rischio di morire in un incidente automobilistico è molto più elevato, ma non per questo evitiamo di guidare. Detto questo, non mi sembra che lo stile di vita in America sia cambiato. Gli americani sono solo più timorosi di viaggiare all’estero».

– Regno Unito, primo alleato europeo degli Stati Uniti. La “Brexit” imporrà un ripensamento dei rapporti con la UE?
«Non penso che gli Stati Uniti cambieranno la loro posizione nei confronti dell’Unione Europea a causa della Brexit. La mia preoccupazione è più come cambierà la UE senza il Regno Unito e come cambieranno i rapporti UE-USA se Trump dovesse essere eletto presidente».