Banche, quella commissione d’inchiesta che non s’ha da fare

Testo dell’articolo pubblicato il 10.09.2017 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole”. 

“Sì alla commissione d’inchiesta” sulle crisi bancarie, dichiarava Renzi nel 2015, rispondendo alle molte richieste in questo senso. Dopo 2 anni, la commissione, istituita solo lo scorso luglio, deve ancora partire. Difficilmente, da qui alla fine della Legislatura, riuscirà a fare alcunché.

In assenza di un’inchiesta, i cittadini devono accontentarsi dei libri sull’argomento. A Marzo, Greco e Vanni hanno pubblicato “Banche Impopolari” (Mondadori), un racconto utile e dettagliato sulla storia del nostro sistema bancario. Qualche mese dopo sono stati depositati gli atti di citazione contro i vertici delle Popolari Venete, basati sulle indagini interne effettuate dal nuovo management.

C’è da prendere paura. Per esempio, il cda della BPVi ha accordato 50 milioni di prestiti al sig. Ravazzolo “in assenza di analisi economico-reddituali sul cliente” (non venivano fornite né le dichiarazioni dei redditi, né informazioni di dettaglio sugli immobili), senza garanzie, nonostante il Nucleo Analisti di Direzione avesse segnalato l’opportunità di adeguato “supporto garantistico”. Ma si tratta di un atto di citazione. Decideranno i giudici la fondatezza di queste accuse. Sempre che i processi si celebrino, perché in Non c’è spazio per quel giudice, di Cecilia Carreri (Mare Verticale), scopriamo che un processo contro Zonin non venne mai celebrato. Nel 2001 Bankitalia aveva effettuato un’ispezione da cui erano nati pesanti rilievi al CdA e una denuncia all’autorità giudiziaria. Dall’indagine che ne seguì emerse “una continua commistione tra interessi istituzionali della BPVi e interessi personali o societari del tutto estranei”. Il processo non avvenne mai.
Invece, un processo celebrato (anche se solo in 1° grado) è quello descritto nel libro di Carlotta Scozzari Banche in sofferenza (GoWare), sulla Carige. Visto che in Italia la presunzione di innocenza vale fino alla sentenza passata in giudicato (ovvero per i reati economici fino a quando la prescrizione libera tutti), quanto riferito nel libro non deve essere interpretato come verità assodata. Ciononostante è interessante scoprire che secondo i giudici Giovanni Berneschi, padre padrone di Carige, gestiva da anni un’associazione a delinquere usando il trucco più vecchio del mondo: dei sodali compravano immobili a 100 e li rivendevano a Carige Vita a 200. Scrivono i giudici: “l’anomalo incremento dei prezzi degli immobili in percentuali macroscopicamente elevate in brevissimo tempo è emerso in maniera evidente: gli immobili – prevalentemente a destinazione alberghiera – venivano acquistati da società del gruppo Cimatti e, in seguito, del gruppo Cavallini e rivenduti nel giro di pochi giorni – se non addirittura lo stesso giorno – agli istituti assicurativi, subendo una lievitazione di prezzo ben lontana dal margine normalmente tollerato.” In sostanza il gruppo Cavallini ha acquistato immobili per 71 milioni di euro rivendendoli a Carige Vita a più del doppio. Il tutto per anni.

“La magistratura ha strumenti d’indagine – mi si dirà – che consiglieri, presidenti di società, perfino le autorità di vigilanza non hanno. Quindi non è colpa loro se non hanno visto. Non c’è governance che possa evitare tutte le frodi”. Ma ciò può essere vero per operazioni complicate, non per semplici acquisti d’immobili a prezzi gonfiati, facili da prevenire. Basta che le regole interne di una società quotata prevedano l’identificazione dei proprietari effettivi di tutte le imprese da cui la società stessa acquista. Perdere qualche legittimo affare perché un venditore non vuole rivelare i propri azionisti è un piccolo prezzo da pagare per evitare frodi di questo tipo. Inoltre, in tutti gli acquisti l’audit interno di una società quotata dovrebbe monitorare le deviazioni significative dei prezzi dagli standard di mercato.

Né frodi, né mala gestio bastano a spiegare le crisi bancarie, ma, come dice Warren Buffett, “quando c’è bassa marea si scopre chi nuota nudo.” Ed è durante le crisi economiche che si scopre chi ruba e chi è incompetente. Anche se gli inetti e i ladri non sono la sola causa della crisi, perché non approfittare della crisi per mandare a casa i primi e sbattere in galera i secondi? Almeno c’è la speranza di ripartire dopo la crisi con una classe dirigente migliore.


“La commissione d’inchiesta sulle banche è praticamente svanita: si è persa un’altra occasione per imparare dai propri errori e avere una classe dirigente migliore.”

Lo scopo delle indagini non è solo quello di mettere in galera i colpevoli, ma anche quello di imparare dagli errori. Così, la totale trasparenza societaria delle controparti di società quotate è una condizione semplice per evitare questo tipo di frode. In Italia è adottata da tutte le quotate? Purtroppo lo scorso autunno abbiamo scoperto che non era adottata neanche dal Gruppo 24 Ore, proprietario di questo giornale. Con i problemi che sono emersi. Sarebbe opportuno che la Consob richiedesse alle quotate almeno di dichiarare se seguono questa best practice.

Questo è solo un piccolo esempio dei benefici che si sarebbero potuti ottenere da una seria Commissione d’Inchiesta. Purtroppo è un’altra occasione perduta. Pur con tutte le sue lentezze, non ci resta che sperare nella magistratura. Sempre che non arrivi prima la prescrizione.


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L’Unione Bancaria si infrange sul Piave

Articolo pubblicato su “Il Sole 24 Ore” il 25.06.2017 nella Rubrica Alla Luce del Sole 

Per le due banche popolari venete non poteva finire in modo peggiore. Ci perderanno i contribuenti, che dovranno pagare circa due anni di Imu sulla prima casa per ripianare il buco che si creerà con la liquidazione coatta amministrativa delle due banche. Ci perderanno i clienti, che al posto di tre linee di credito (da Veneto Banca, BPVi, e Banca Intesa) se ne troveranno solo una di gran lunga inferiore alla somma delle tre. Ci perderanno i dipendenti che negli ultimi 18 mesi hanno visto scappare i depositanti, i clienti e le opportunità di mercato e che presto saranno “efficientati” nel nome del consolidamento. Ma soprattutto ci ha perso la credibilità delle istituzioni italiane ed europee, per come l’intera vicenda è stata gestita.

In nome del principio secondo cui il costo dei fallimenti bancari deve essere pagato dagli investitori e non dai contribuenti, l’Europa aveva introdotto la regola del bail-in: ad assorbire le perdite dovevano essere i creditori subordinati, poi quelli senior, per arrivare anche ai depositi sopra i 100mila euro. L’Italia, pur sapendo che le nostre banche avevano venduto subordinati e obbligazioni a clienti inconsapevoli, non si era opposta con sufficiente forza né all’approvazione di questa regola, né alla sua introduzione anticipata al primo gennaio 2016.

Ma quella stessa Europa che si era opposta a qualsiasi tentativo di salvare le banche venete attraverso un intervento statale in nome di un principio, ha gettato il principio alle ortiche quando si è trattato di liquidarle, permettendo al governo italiano di intervenire per rimborsare tutti i creditori, anche quelli che non erano stati truffati. Al tempo stesso, lo Stato italiano che non aveva avuto la forza di ritardare l’introduzione della regola, che non aveva trovato in 18 mesi una soluzione per salvare le due popolari, ha trovato una scappatoia legale per salvare chi? Non certo i risparmiatori truffati, che avrebbero comunque ricevuto un rimborso. Solo gli investitori furbi (o bene informati), che ancora 10 giorni fa compravano al 30% del nominale debito in scadenza di Veneto Banca, che valeva zero e nel prossimo futuro sarà rimborsato alla pari. *
La scelta di rimborsare in toto i creditori non ha una logica economica, ma una politica: si cerca di contenere la rabbia in vista delle prossime elezioni.

Nel maldestro tentativo di prolungare l’agonia di qualche giorno, il Governo italiano ha anche introdotto un pericolosissimo precedente. Dieci giorni fa ha posticipato per decreto la scadenza di un’obbligazione di Veneto Banca. Se il bond fosse stato detenuto dalle grande banche di investimento internazionali, la notizia sarebbe stata sulla prima pagina del Financial Times, ma per qualche vecchietto veneto si muove a stento il Gazzettino. Decisioni come questa spiegano perché in Italia non ci si fida né dello Stato, né delle banche.

Il mercato finanziario si basa sulla fiducia: fiducia che i contratti saranno rispettati e non cambiati in corsa, a seconda del potere politico del contraente. Il decreto del governo mina questa fiducia e crea un pericolosissimo precedente. Quello che è stato fatto per Veneto Banca può essere ripetuto un domani per un’altra banca, o per il governo stesso. Questo è il motivo per cui gli investitori internazionali vogliono titoli emessi secondo il diritto inglese. Ma il nostro debito pubblico è per la stragrande maggioranza emesso sotto il diritto italiano e quindi può essere consolidato in qualsiasi momento con un decreto simile a quello approvato l’altro venerdì dal governo. All’estero si domandano se abbiamo assistito alle prove generali del default della Repubblica Italiana.

Due banche sono morte, uccise non solo dalla cattiva gestione precedente, ma anche dall’incertezza sul futuro, che le ha ulteriormente depauperate. Sono state immolate sull’altare dell’unione bancaria e dell’Europa. Ma sono morte invano. La speranza di una vera unione bancaria si è infranta sul Piave: l’escamotage scelto dal nostro governo svuota l’intera Bank Resolution Recovery Directory e rimanda alle calende greche la possibilità di un’assicurazione europea sui depositi. Perché mai i tedeschi dovrebbero assicurare con i propri soldi chi cambia le carte in tavola?

Ma è la stessa idea di Europa che viene messa in dubbio, almeno nella formulazione cara a molti: l’Europa come fonte di disciplina che costringe i nostri governi a scelte giuste, ma politicamente costose. Nella vicenda delle popolari venete, abbiamo visto il peggio da entrambi i lati. Delle regole logiche (come il bail-in), ma non adatte al nostro sistema economico, vengono applicate in modo arbitrario da una gruppo di sedicenti tecnocrati, più interessati alla sopravvivenza del sistema che li ha generati che a quello dell’economia dei Paesi amministrati. E lungi dal servire da busto ortopedico per raddrizzare l’operato del nostro governo, queste regole servono da scudo per coprire gli errori e gli interessi di chi ci governa. Il risultato è un papocchio che rende l’Italia ancora più inaffidabile di prima.

Al tempo del fallimento del vecchio Banco Ambrosiano fecero molto meglio Andreatta e la Banca d’Italia di allora. È triste che la Seconda Repubblica ci faccia rimpiangere la Prima, ma ancora più triste che a farcela rimpiangere sia anche l’Europa.


*Errata corrige: Un lettore mi ha gentilmente fatto notare che il bond la cui scadenza è stata allungata era un subordinato e quindi riceverà zero, non sarà pagato al 100%. Quest’errore (di cui mi scuso con i lettori)  elimina la preoccupazione che i bene informati ci abbiano guadagnato, non cambia il resto del ragionamento.

Problemi e prospettive del sistema bancario in Italia (video)

Video del mio intervento al convegno “La tutela del risparmio e le prospettive del sistema bancario in Italia – In memoria di Renzo Soatto”, svoltosi a Padova il 25 Febbraio 2017.

Quelle banche condannate a cambiare (in fretta) – Video

Il 31 marzo scorso, nell’ambito del Festival Città Impresa diretto da Dario Di Vico, si è svolto un confronto tra Ferruccio de Bortoli e me, sul tema delle banche. Qui di seguito il video dell’incontro, che è stato moderato da Nicola Saldutti.


Qui altri miei articoli sul tema “banche”.

La Politica Bancaria che non c’è / Italy’s non-existent banking strategy

Testo dell’articolo pubblicato il 5.03.2017 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole”.  English translation below. 

Sono passati quindici mesi dal “salvataggio” delle quattro banche regionali e quasi un anno dalla creazione del Fondo Atlante. Dopo tutto questo tempo dobbiamo concludere che la politica adottata dal Governo di posporre la risoluzione dei problemi delle banche e fare finta che non siano così gravi (la strategia che gli inglesi chiamano “extend and pretend”) non funziona.

La dilazione è costata al Paese (e soprattutto a certe regioni) un anno di crescita. Nel Veneto il credito bancario alle imprese lo scorso anno è sceso del 6% e in Toscana del 3%, mentre in Piemonte e Lombardia è rimasto sostanzialmente stabile (rispettivamente +0.2% e -0.2%). La principale differenza tra queste regioni è data dalle crisi bancarie, che hanno colpito molto più il Veneto (Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza) e la Toscana (MPS ed Etruria) che il Piemonte e la Lombardia. Che la qualità del portafoglio del sistema bancario influisca sulla crescita dei prestiti alla clientela non è un segreto. Lo dice anche la Commissione Europea. Ma allora perché il Governo ha trascinato i problemi senza risolverli per più di un anno?

Parte del problema è l’illusione che la crisi sia dovuta solo alla perfidia dei fondi stranieri, che si ostinano a valutare al 20% del nominale le sofferenze bancarie che varrebbero molto di più. È vero che – dati della Banca d’Italia alla mano – il valore recuperato dalle sofferenze negli ultimi due anni è in media del 40%. Ma tale valore non considera i costi legali e il tempo che un tale recupero richiede. Non considera neppure il fatto che tanto maggiori sono i crediti in sofferenza, tanto più difficile è il recupero, perché le (poche) garanzie immobiliari perdono di valore quando vengono vendute tutte allo stesso tempo.  Unicredit, che non si è cullata in questa illusione e ha svalutato le sue sofferenze al 12.94%, è riuscita nella difficile operazione di raccogliere 13 miliardi di euro di nuovo capitale. Tutte le banche che non hanno avuto questo coraggio sono ancora in crisi.

Per sostenere questa illusione sul valore delle sofferenze (e ritardare il redde rationem) il Governo ha caldamente sponsorizzato la formazione del Fondo Atlante, creato per comprare sofferenze e poi usato per scaricare sulla collettività (Cassa Depositi e Prestiti e Poste) e sugli ignari assicurati (Generali e Cattolica) le perdite che Unicredit e Banca Intesa avrebbero accumulato per aver garantito gli aumenti di capitale delle due Popolari Venete. La stessa Commissione Europea ha dichiarato che “la struttura di finanziamento di Atlante costituisce una fonte di interdipendenza tra soggetti più forti e soggetti più deboli. Ciò potrebbe dar luogo a un contagio in caso di perdite inattese derivanti da investimenti”. Lungi dall’essere un elemento di stabilità, quindi, il Fondo Atlante rischia di mettere a repentaglio l’intero sistema.

Cosa poteva fare il Governo – si dirà – quando la Commissione Europea impedisce ogni mossa? È la solita strategia di attribuire all’Europa la responsabilità degli errori nostrani.  Contrariamente a quello che si vuole far credere, l’Europa caldeggia da tempo un intervento di ricapitalizzazione delle banche, come quello (molto parziale) approvato dal Governo a dicembre (e non ancora implementato).

Se la Commissione ha finora ritardato l’intervento su MPS è perché vuole evitare che i soldi pubblici siano sprecati, per esempio rimborsando chi non ha nessun titolo per essere risarcito, come gli hedge fund che hanno comprato i subordinati di MPS nell’ultimo anno. Di questo intervento dovremmo essere grati alla Commissione.

Se poi i 20 miliardi del Decreto Salva-Banche non bastano (come è probabile), molti dei nostri partner europei sono aperti all’idea che noi si faccia ricorso al fondo ESM (European Stability Mechanism). È il fondo cui ha fatto ricorso la Spagna nel 2012, quando doveva smaltire molte sofferenze derivanti dalla crisi immobiliare. Una volta fatto ricorso al fondo e ricapitalizzato le banche, la Spagna ha ripreso a crescere a più del 3% l’anno.  Cosa aspetta l’Italia a farlo?


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Fifteen months have gone since the “rescue” of the four regional banks and almost one year since the creation of the government mandates and privately funded bank rescue fund Atlante .

After all this time, we can conclude that the strategy adopted by the government of postponing the resolution of banks’ problems and pretending they are not so serious (a strategy also known as “extend and pretend”) is not working. Deferment has cost Italy (and some regions in particular) one year of economic growth.

Lending to businesses last year dropped 6% in Veneto and 3% in Tuscany, while it remained broadly stable in Piedmont and Lombardy (+0.2% and -0.2% respectively). The main difference between these regions comes from the banking crisis, which hit Veneto (Veneto Banca and Banca Popolare di Vicenza) and Tuscany (Banca Monte dei Paschi di Siena and Etruria) harder than Piedmont and Lombardy. The impact of the quality of banks’ assets on lending is not a secret. The European Commission has also written about it. But why has the government sat on its hands for more than one year?

Part of the problem is the illusion that the crisis is due only to the treachery of foreign funds, who value non-performing loans at around 20% of their book value when they are worth much more. It’s true that NPLs over the past two years have yielded on average 40%, according to the Bank of Italy. But such a valuation does not include legal costs and the time to collect them.

It also doesn’t consider the fact that higher the amount of NPLs, the more difficult to collect on them, since the (few) existing real estate collateral loses some of its value when sold in bulk. UniCredit, which did not believe in this illusion and wrote down its bad loans to 12.94%, succeeded in the difficult plan to raise €13 billion of fresh capital. The banks who lacked the same courage are still in a crisis.

In order to support the illusion about the value of bad loans (and postpone the “redde rationem”), the government strongly backed the creation of the Atlante fund, designed to buy NPLs and then unload on the collectivity (state backed lender Cassa Depositi e Prestiti and state controlled posted service Poste Italiane) and unaware insurers (Generali and Cattolica) the losses that UniCredit and Intesa Sanpaolo were facing for guaranteeing the recapitalization of the two Veneto-based banks.

The European Commission said that “Atlante’s funding structure represents a source of interdependence between stronger and weaker players. This could lead to contagion in case of unexpected losses from investments.” Far from being a factor of stability, the Atlante fund risks of putting the entire system at risk.

A question remains: what could the government do if the European Commission blocks any move? This is Italy’s usual strategy of accusing Europe of its own mistakes. Contrarily to what people want us to believe, Europe has long called for intervening in the recapitalization of banks, like the one (very limited) approved by the government in December (and not yet implemented).

If the Commission has so far postponed the intervention on MPS, this is because it wants to prevent public money from going wasted, for example by reimbursing those who have no right to be compensated, like the hedge funds which bought MPS’s subordinated bonds in the past year. We should thank the Commission for this position.

If €20 billion of the bailout fund approved by the Cabinet in December is (likely) not enough, many of our European partners are open to the idea that Italy resorts to the European Stability Mechanism (ESM). The fund was tapped by Spain in 2012, when the country needed to dispose of the many NPLs piled up during the real estate crisis. After using the fund and recapitalizing its banks, Spain returned to grow by more than 3% per year. What is Italy waiting for to do the same?

Crisi Banche Popolari Venete: dov’era la Borghesia Produttiva? (intervista)

Secondo l’economista padovano Luigi Zingales, nella crisi delle banche popolari venete, una parte «della borghesia produttiva, se non collusa, ha guardato dall’altra parte mentre si consumava questo disastro» 

Ha più volte invocato una commissione d’inchiesta sul sistema bancario necessaria «per capire cosa non ha funzionato e per evitare di ripetere gli errori del passato». Una cosa, secondo l’economista padovano Luigi Zingales, è però già chiara. Nella crisi delle banche popolari venete «che ha avuto un impatto devastante sul sistema economico regionale», una parte «della borghesia produttiva di questa regione, se non collusa, ha guardato dall’altra parte mentre si consumava questo disastro».

Zingales, nello specifico cosa intende?
«Uso un paragone forte, avete presente il caso Spotlight? Il film basato sulla storia vera dei casi di pedofilia nell’arcidiocesi di Boston racconta bene come le colpe dello scandalo non siano rintracciabili solo all’interno della Chiesa cattolica ma anche in quella parte della società di Boston che sapeva ma ha preferito guardare dall’altra parte».

Tornando alle popolari, quindi, a una parte degli imprenditori che avevano legami o interessi in Veneto Banca e Popolare di Vicenza è convenuto far finta di nulla?
«La crisi delle due banche è risultata devastante ovviamente per l’impatto economico della stessa ma di più perché ha messo in crisi l’intero sistema di network regionale fondato su rapporti sociali oltre che economici. Relazioni fondamentali per la tenuta dello stesso sistema. Qualcuno, e non solo tra i vertici delle due popolari, ha chiuso gli occhi di fronte a questo disastro».

Lei, prima dei casi Veneto Banca e Bpvi, è stato molto critico nei confronti del capitalismo di relazione compreso quello veneto. Due facce della stessa medaglia?
«Ho criticato il capitalismo di relazione perché continua a investire i soldi, degli altri, nei progetti degli amici e non in quelli a più alta produttività. Dinamica in parte riscontrabile anche nei rapporti tra banche e imprese. È sacrosanto, ad esempio, chiedere di sapere chi sono i cento principali debitori del Monte dei Paschi che non hanno reso soldi avuti in prestito».

Da una parte il capitalismo di relazione dall’altra il capitalismo familiare, due asset che hanno garantito sviluppo e che ora sono un limite per il Nordest?
«In generale le imprese a conduzione familiare hanno una visione di più lungo periodo: se c’è il tuo cognome sul portone della fabbrica è evidente che ci tieni di più. Questo, in negativo, si è reso evidente anche nell’enorme tragedia dei suicidi tra gli imprenditori. In generale, quindi, il capitalismo familiare è un punto di forza. La debolezza emerge quando un figlio viene investito della conduzione a prescindere, senza una valutazione sulle attitudini e sulle capacità. Allo stesso modo quando si pensano di risolvere i problemi con le relazioni».

Il processo di digitalizzazione dell’economia, a partire dalla manifattura, può realmente rappresentare un’opportunità per le nostre imprese?
«La risposta è sì, ma bisogna tenere presente un elemento. L’impresa veneta è basta sull’informalità e sulla creatività, il digitale, invece, sulle regole. Questo può rappresentare un ostacolo nell’introduzione e nella capacità di sfruttare l’economia digitale come volano di competitività».

Secondo lei, a proposito di Industria 4.0, il piano messo a punto dal ministro Carlo Calenda può risultare efficace?
«Nell’aiuto alla transizione sì. Il piano del governo, però, pone molta enfasi sull’aiuto ma poca su cosa deve fare un’impresa per diventare 4.0. Se non c’è l’interesse delle aziende al cambiamento diventano soldi (aiuti) regalati».

Come vede l’alleanza tra gli atenei veneti sulla base della quale è arrivato il riconoscimento da parte del governo come centro di competenza nazionale?
«Che le università si siano messe insieme decidendo di collaborare è un fatto sicuramente positivo».

Quanto, invece, alle competenze che qui si sviluppano?
«Le facoltà scientifiche, penso a Padova ad esempio, hanno forti potenzialità in questo senso. Il problema, tornando all’Industry 4.0, è che per molto tempo si è cercato di separare il mondo dell’industria da quello dell’università. Per questa ragione competenze spesso sofisticate non risultato applicabili dall’industria».

Da tempo, però, si sta anche lavorando per fare in modo che i due mondi dialoghino con maggiore profitto. In modo sbagliato?
«Il collegamento tra industria locale e ricerca universitaria si realizza facendo in modo che l’università non abbia paura di aprire le porte dei suoi laboratori e che contemporaneamente l’impresa non pensi a questo rapporto come a un mezzo per ottenere una consulenza a basso prezzo».

Nello scacchiere della partita sulla competitività, che altra debolezza vede?
«Il radicalizzarsi di tensioni locali, tra Padova e Treviso o tra Padova e Venezia. Le sfide da vincere non sono in tale ambito ma questa è una consapevolezza che fa fatica a farsi strada».

Il ridimensionamento della vocazione manifatturiera del nostro territorio finirà per lasciare ai margini l’imprenditoria veneta?
«Io sono un grande sostenitore dei servizi. Bene, ovviamente, la manifattura ma allo stesso tempo è importante che si sviluppino servizi ad alto valore aggiunto. Penso a quelli tecnologici ma anche a quelli più tradizionali legati a elementi distintivi della regione come il turismo, la cultura, l’enogastronomia e l’artigianato».

Intervista a cura di Matteo Marian, pubblicata il 3.02.2017 sui Quotidiani Veneti del Gruppo L’Espresso


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