Video of my lecture at the Eitan Berglas School of Economics, Tel Aviv University (TAU), March 19, 2017. The topic was: “The Rising of Crony Capitalism in America”.
produttività
Luci e Ombre del Programma M5S
La mia intervista a La Stampa di ieri, senza spin.
Lo sa che fanno il suo nome per il Tesoro in un governo 5 Stelle?
«Chiacchiere Inutili. Una volta scrissero che ero il candidato di Silvio Berlusconi, che non ho mai incontrato».
Ma si troverebbe a suo agio con le ricette del M5S? Per esempio, il reddito di cittadinanza: che ne pensa?
«Dipende da come viene fatto e con che fondi, perché nell’attuale situazione di bilancio non è facile trovare soldi. Detto questo, i 5 Stelle hanno il merito di aver introdotto nel dibattito italiano la necessità di cercare una soluzione al problema della perdita di lavoro in una fase di transizione tecnologica».
Perché aiuterebbe in caso di ulteriori perdite di posti di lavoro?
«L’evoluzione tecnologica comporta che molte persone, anche del ceto medio-alto, perderanno il lavoro. Avere una qualche formula di ammortizzatore sociale ampliato può essere utile. Una cosa che non capisco però è perché il M5S poi si schiera con i tassisti. Il reddito di cittadinanza ha senso se funziona come contropartita nell’innovazione. Ma mi sembra che anche al loro interno abbiano visioni diverse. Casaleggio padre era molto a favore dell’innovazione delle nuove economie digitali, altri invece si arroccano in difesa dei diritti acquisiti».
Per i 5 Stelle alla terza proposta di lavoro rifiutata perdi il diritto ad averlo.
«L’aspetto più negativo del reddito di cittadinanza infatti è che rischia di creare disincentivi a lavorare. Quello sarebbe un meccanismo positivo per ridurre questa distorsione».
Beppe Grillo ripete spesso che bisogna porre più attenzione al reddito che al lavoro. Non è un messaggio un po’ pericoloso?
«Se intende dire che non dobbiamo proteggere le imprese e i posti di lavoro ma le persone, mi trova d’accordo. Lo scrissi nel 2003 nel libro “Salvare il capitalismo dai capitalisti“. Insistere, di fronte alle rivoluzioni tecnologiche, nel proteggere l’esistente, anche in termini di posti di lavoro, è suicida, oltre che inutile».
Cosa trova ragionevole nella critica grillina all’Europa e all’euro?
«Non sbagliano a identificare l’enorme deficit democratico, che come ripeto da tempo è il principale problema di questa Europa. In Italia c’è stata un’accettazione incondizionata di Europa ed euro senza un’analisi seria. Ho scoperto da un recente articolo di Marcello Minenna che Monti nel 2013 introdusse una clausola che impedisce all’Italia di ridenominare il debito in caso di uscita dall’euro. Qualcuno lo ha comunicato al Paese? C’è come una presunzione di chi si considera la classe degli illuminati e pensa di imporre regole a dei populisti ignoranti. Atteggiamento che ha l’effetto di spianare la strada al populismo peggiore».
Ma l’uscita dall’euro è possibile?
«Se il nostro debito non è più ridenominabile, è difficilissimo. Perché la lira si svaluterebbe del 30-40% e il peso del nostro debito, che già non scherza, sarebbe insostenibile. Sicuramente bisogna far partire una contrattazione con i partner europei. Pensare a formule condivise, per esempio un sussidio di disoccupazione europeo, che chiedo da anni. Non si può avere un’unione monetaria senza una politica fiscale comune. La Germania se ne faccia una ragione. Altrimenti si pensi a un divorzio consensuale. Vedano come, ma eviterei il referendum».
Grillo e Di Maio hanno parlato di euro a due velocità…
«Lo scrissi nel 2010. Può essere il risultato di un processo graduale. Ma se parte dalle economie forti del Nord, non da quelle del Sud, perché con la fuga di capitali sarebbe un disastro. Mi lasci aggiungere una cosa. Se l’Italia non affronta seriamente i problemi strutturali, debito e produttività in primis, rischia grosso. È su questo che dovrebbero concentrarsi tutti, anche chi aspira a governare».
I miei tre punti per l’Agenda per l’Italia
Sabato scorso ho partecipato al panel conclusivo del workshop Ambrosetti a Cernobbio, in cui gli spunti emersi dai precedenti interventi venivano sintetizzati ed elaborati in una “Agenda per l’Italia”, di fronte al Ministro dell’Economia Padoan. La stampa non era ammessa, quindi per correttezza mi limiterò a riassumere solo il mio intervento, tacendo sui contributi degli altri relatori, Valerio De Molli e Nouriel Rubini.
Io ho individuato nella situazione italiana tre fattori di debolezza: una deflazione internazionale, dei problemi strutturali preesistenti alla crisi finanziaria e una crisi bancaria.
Cominciando dalla crisi bancaria, su cui la capacità di intervento del governo italiano è maggiore, il problema è duplice: da un lato bisogna risolvere l’incertezza che sta attanagliando alcune grandi banche e che rischia di asfissiare l’economia reale; dall’altro bisogna farlo in un modo che sia politicamente compatibile, evitando di scatenare quella (giusta) rabbia popolare che tanto ha fatto per destabilizzare il sistema politico americano dopo la crisi del 2008 e di cui vediamo ancora ora le conseguenze. Ben venga quindi un ruolo della CDP come investitore di ultima istanza negli istituti in difficoltà che non riescono a reperire capitali sul mercato, ma a due condizioni. La prima è che i termini siano simili ad un fallimento per tutte le parti coinvolte (inclusa la possibilità di revocatoria fallimentare), tranne i creditori. La seconda è che ci sia una commissione d’inchiesta su come e perché queste banche sono entrate in crisi senza che i meccanismi di allerta (sia a livello societario che istituzionale) funzionassero.
Se questa commissione venisse istituita, io mi sono offerto di guidarla per il compenso simbolico di 1 euro.
La crisi strutturale riguarda l’incapacità del nostro sistema di aumentare la produttività, ovvero il prodotto per ora lavorata. Recenti studi internazionali dimostrano che solo metà della produttività di un Paese è dovuta alla quantità totale di capitale e lavoro investiti, il resto è determinato da come sono allocati questi fattori. A questo fine è cruciale la flessibilità di trasferire questi fattori da un’azienda ad un’altra. Negli anni passati, l’enfasi è stata sulla flessibilità del fattore lavoro. È giunto il momento di focalizzarsi sulla flessibilità del fattore capitale. Questo significa anche favorire il trasferimento di risorse da aziende meno produttive ad aziende più produttive.
Un ruolo cruciale in questa riallocazione gioca il settore bancario. A questo fine le riforme delle Popolari e delle BCC sono state un passo in avanti, così come lo è stata la riforma della legge fallimentare. Ma si può fare di più. In particolare è necessario migliorare la tutela degli investitori di minoranza: senza questa tutela nessun imprenditore è disposto a fondersi o a trasferire le risorse della propria azienda in un’azienda in cui a comandare è un altro. Una Consob più attiva è un passo essenziale in questa direzione.
La terza debolezza riguarda una situazione internazionale in cui c’è un eccesso di risparmio. Per motivi demografici, l’Occidente vuole risparmiare molto. Data questa offerta di risparmio il tasso di interesse reale di equilibrio dovrebbe essere negativo. Ma in presenza di una bassa inflazione e di un limite (tra lo zero e il -0.5%) cui possono scendere i tassi di interessi nominali, il mercato tende a riequilibrarsi distruggendo risparmio attraverso una recessione. Esistono due politiche per rimediare a questo problema: un finanziamento monetario del deficit, che faccia aumentare l’inflazione, o un aumento del deficit pubblico che riduca il risparmio aggregato. Entrambe queste politiche sono proibite dalle regole dell’eurozona, regole che non possono essere facilmente rinegoziate.
Il governo ha una responsabilità di porre questo problema all’Europa. In verità, questo governo ha il merito di essere stato, nei confronti dell’Europa, più critico dei precedenti. Ma lo ha fatto in modo troppo timido e troppo isolato, spesso usando le sue critiche come scusa per chiedere maggiore flessibilità sul deficit. Deve condurre invece una battaglia di principio e formare una coalizione contro l’egemonia culturale della Germania.
The Troika is eroding fiscal democracy in the eurozone / La Troika sta minando la democrazia fiscale nell’eurozona
In Continental Europe asking for debt relief of insolvent countries is considered being a Communist or condoning the alleged “laziness” of Southern Europe (or both). Group-think has so much taken over the Continent, that the so-called moderates compete on who is more extremist in supporting the “Berlin Consensus”. For this reason, it is so refreshing to read a comment like the one below, written by Philippe Legrain for CAPX, one the best web sites for people who believe in free market. I feel less alone.
Nell’ Europa continentale chiedere la parziale riduzione del debito dei paesi insolventi significa ormai essere comunisti o voler condonare la presunta “pigrizia” del Sud Europa (o entrambe le cose). Il conformismo di gruppo (Group-think) ha preso così piede che i cosiddetti moderati fanno a gara a chi è più estremista nel sostenere il “Berlin Consensus”. Per questo, leggere l’articolo (in basso la traduzione Italiana) che Philippe Legrain ha scritto per CAPX – uno dei migliori siti web per chi crede nel libero mercato – è una vera e propria boccata d’aria. Mi sento meno solo.
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“Noi non cambiamo la nostra politica in base alle elezioni”, ha insistito Jyrki Katainen, vice-presidente della Commissione europea per l’occupazione, la crescita, gli investimenti e la competitività, dopo le elezioni greche di gennaio. Il che, per quanto si possa non gradire il nuovo governo di sinistra radicale di Atene, è pur sempre una dichiarazione di un funzionario non eletto dell’UE. Che fa porre la domanda: come possono gli elettori cambiare concretamente la politica dell’eurozona? Con la rivoluzione?
Tanto più che quella politica sta evidentemente fallendo nel conseguimento degli obiettivi del mandato di Katainen: creazione di posti di lavoro, crescita e investimenti. La disoccupazione nella zona euro è dell’11,2%, più del doppio che negli Stati Uniti, e del 26% in Grecia. L’economia della zona euro continua ad essere inferiore del 2% rispetto al picco pre-crisi di inizio 2008, mentre quella della Grecia è inferiore del 26%. Gli investimenti delle imprese sono ai minimi da 20 anni in entrambi i casi. Quanto alla competitività – riduzione dei costi per promuovere le esportazioni – si tratta di un obiettivo mercantilista pervicacemente sbagliato; i governi dovrebbero piuttosto puntare ad aumentare la produttività.
La zona euro oggi è un organismo molto diverso dall’unione monetaria lanciata nel 1999 – e non solo perché è in crisi. Pur con tutti i suoi difetti, il progetto iniziale dell’unione monetaria era decentrato, in gran parte market-based e lasciava ampio spazio alla democrazia nazionale. I Governi eletti mantenevano ampia discrezionalità fiscale, purché i loro deficit non eccedessero il 3% del PIL. (All’epoca ho scritto su The Economist, che l’euro potrebbe avrebbe potuto fare completamente a meno di regole di bilancio.) Il debito pubblico era disciplinato dai mercati, con la garanzia che i governi che avevano problemi non avrebbero potuto essere salvati né dagli altri stati membri (la “clausola di non salvataggio”), né dalla BCE (il divieto di finanziamento monetario). I governi nazionali mantenevano anche la quasi totale libertà su altri aspetti di politica economica, come ad esempio sulle riforme da fare (o da non fare) e su come farle. Solo la politica monetaria era (necessariamente) centralizzata nella Banca centrale europea a Francoforte.
Ma a partire dalla crisi, l’eurozona è diventato un sistema di comando e controllo molto più centralizzato, molto meno flessibile e scarsamente democratico, diretto da Berlino, Bruxelles e Francoforte.
Il caso greco è il più estremo. Per anni, le amministrazioni greche hanno emesso troppo debito pubblico mentendo su di esso. Nel 2010, la Grecia è stata esclusa dal mercato perché gli investitori hanno finalmente capito che sarebbe stato sciocco continuare a concedere prestiti ad un governo che non avrebbe mai potuto ripagare interamente il suo debito. Se le autorità della zona euro avessero rispettato la regola del non-salvataggio del Trattato di Maastricht, la Grecia avrebbe dovuto chiedere aiuto al Fondo monetario internazionale. Il FMI avrebbe ristrutturato il debito della Grecia prima di fornire un prestito condizionale per alcuni anni per aiutarla a mettere in ordine i suoi conti, a riformare la sua economia e riguadagnare quindi l’accesso al mercato.
Ma le autorità della zona euro hanno invece deciso di far finta che la Grecia stava semplicemente attraversando difficoltà temporanee di finanziamento. Hanno quindi violato la clausola di non-salvataggio prestando al governo greco denaro dei contribuenti europei, apparentemente per motivi di solidarietà, ma in realtà, per salvare i suoi creditori, in particolare le banche francesi e tedesche. Tale catastrofica decisione ha radicalmente cambiato la natura dell’unione monetaria.
Per cinque lunghi anni, la Grecia è stato amministrata come un quasi-colonia dall’odiata Troika – Commissione europea e BCE, insieme all’FMI. Giustamente, si potrebbe dire: se la Grecia non può prendere a prestito dai mercati e riceve invece un finanziamento UE-FMI, questi hanno il diritto di imporre condizioni sui loro prestiti. Certo, ma perché ancora oggi la Grecia non può prendere in prestito dai mercati? Perché, lo scorso anno, molto prima che l’elezione di un governo di sinistra apparisse imminente, quando il governo stava producendo un avanzo primario – un avanzo di bilancio al netto degli interessi – non poteva prendere a prestito dai mercati in maniera sostenibile, a differenza di ogni altro governo della zona euro? Dopo tutto, i suoi creditori europei insistono che è solvibile.
Perché la Grecia è ancora, di fatto, insolvente. E poiché i suoi creditori europei rifiutano di ristrutturare i suoi debiti e minacciano (illegalmente) di buttarla fuori dall’euro se dichiara default unilateralmente, la Grecia è intrappolato in una versione moderna della prigione dei debitori. Oppressa da debiti impagabili, non è in grado di tornare a crescere, riconquistare l’accesso al mercato e quindi tornare a controllare il proprio destino economico. Quindi non è di sinistra chiedere la parziale riduzione del debito per la Grecia – anche l’ex capo del FMI in Europa, Reza Moghadam, che è un uomo di sinistra così radicale che ora lavora per la banca d’affari americana Morgan Stanley, pensa che il debito debba essere dimezzato – è una necessità economica e democratica.
Il salvataggio dei creditori della Grecia e gli ulteriori prestiti a Irlanda, Portogallo e Spagna – soprattutto per salvare le banche locali, che sarebbero altrimenti state inadempienti sui prestiti ottenuti da quelle tedesche e francesi – ha fatto sì che i contribuenti del nord Europa temano di dover sostenere tutti i debiti del sud dell’Europa. Così il cancelliere tedesco, Angela Merkel, ha chiesto un maggiore controllo sui bilanci degli altri paesi – e la Commissione europea è stata più che felice di concederlo. Di conseguenza, l’intera zona euro è ormai costretta in una camicia di forza fiscale molto più stretta: regole UE più severe e fiscal compact.
Questo è economicamente non auspicabile, perché i paesi che condividono una moneta – e quindi non hanno più la propria politica monetaria o di cambio – necessitano una maggiore – non minore – flessibilità fiscale. Ed è politicamente pericolosissimo, perché ogni volta che gli elettori rifiutano un governo, come hanno fatto in quasi tutte le elezioni dopo la crisi, i funzionari dell’UE come Katainen sbucano in televisione per chiedere che il nuovo governo si attenga a politiche che gli elettori hanno appena respinto. Che funzionari lontani, a Bruxelles, non eletti e scarsamente responsabili possano negare agli elettori legittime scelte democratiche su decisioni in materia fiscale e di spesa, allontana le persone dall’UE. E se il voto per i politici tradizionali non porta al cambiamento, non ci si sorprende che si rivolgano alle ali estreme.
Come si può ripristinare la democrazia fiscale nella zona euro? Un’opzione sarebbe quella di eleggere un’autorità fiscale per l’eurozona. Ma la rabbia e la sfiducia esistenti nella zona euro sono ormai tali che i passaggi verso il federalismo democratico sono politicamente inconcepibili. Una soluzione migliore sarebbe quella di ripristinare la clausola di non salvataggio e con essa la libertà dei governi eletti di rispondere al mutare delle circostanze economiche e delle priorità politiche – obbligati dalla disponibilità dei mercati a prestare e in ultima analisi dal rischio di default. Si potrebbe creare un meccanismo di ristrutturazione del debito sovrano, mentre la BCE avrebbe il mandato di intervenire per evitare panico. Per migliorare la disciplina di mercato, dovrebbero essere riviste sia le regole di adeguatezza patrimoniale delle banche, regole che trattano assurdamente tutti i titoli di Stato come privi di rischio, sia le regole sui prestiti sulle garanzie collaterali della BCE. Una zona euro più flessibile, decentrata e democratica, che ripristini la libertà politica dei governi, che si affidi alle regole dei mercati, e non alle decisioni arbitrarie di Berlino e Bruxelles, sarebbe molto meglio per tutti.
Spogliare gli elettori del diritto di fare legittime scelte economiche e politiche è insostenibile. E come dimostra la storia tragica della Repubblica di Weimar, l’imposizione di insopportabili pagamenti agli odiati creditori stranieri porta all’estremismo politico. Martin Wolf del Financial Times ha osservato che la zona euro è destinata ad essere una unione delle democrazie, non un impero. Katainen e altri funzionari della zona euro dovrebbero tenerlo a mente.
Philippe Legrain, che è stato consigliere economico del Presidente della Commissione europea dal 2011 al 2014, è visiting senior fellow dello European Institute della London School of Economics e l’autore di “European Spring: Why Our Economies and Politics Are in a Mess — and How to Put Them Right”.
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“We don’t change our policy according to elections,” insisted Jyrki Katainen, vice-president of the European Commission for jobs, growth, investment and competitiveness, after the Greek elections in January. Which, however much you may dislike the new radical-left government in Athens, is quite a statement for an unelected EU official. And which begs the question: how can voters actually change eurozone policy? Revolution?
Especially since that policy is conspicuously failing to deliver Katainen’s mandate of jobs, growth and investment. Unemployment in the eurozone is 11.2%, more than twice the rate in the United States, and 26% in Greece. The eurozone economy is still 2% smaller than its pre-crisis peak in early 2008, while Greece’s is down by 26%. Business investment is at a 20-year low in both cases. As for competitiveness – cutting costs to promote exports – it’s a wrong-headed, mercantilist objective; governments should instead aim to boost productivity.
The eurozone today is a very different beast to the monetary union that was launched in 1999 – and not just because it’s in crisis. For all its flaws, the initial design of the currency union was decentralised and largely market-based, allowing plenty of scope for national democracy. Elected governments retained ample fiscal discretion, provided their deficits did not exceed 3% of GDP. (Writing for The Economist at the time, we argued that the euro could do without fiscal rules altogether.) Government borrowing was to be disciplined by markets, with the safeguards that governments that got into trouble could be bailed out neither by their peers (the “no-bailout rule”), nor by the ECB (the ban on monetary financing). National governments also retained almost full freedom over other aspects of economic policy, such as which reforms they did (or didn’t do) and how they went about them. Only monetary policy was (necessarily) set centrally, by the European Central Bank in Frankfurt.
But since the crisis, the eurozone has become a much more centralised, much less flexible and scarcely democratic command-and-control system run from Berlin, Brussels and Frankfurt.
The Greek case is most extreme. For years, successive Greek administrations borrowed too much and lied about it. In 2010, Greece was cut off from the markets because investors finally realised that it would be foolish to continue lending to a government whose debts were so huge that it would be unable to pay them back in full. Had eurozone authorities respected the Maastricht Treaty’s no-bailout rule, Greece would then have had to seek help from the International Monetary Fund. The IMF would have restructured Greece’s debts before providing a conditional loan for a few years to tide it over until it put its public finances in order, reformed its economy and regained market access.
But instead eurozone authorities decided to pretend that Greece was merely going through temporary funding difficulties. They then breached the no-bailout rule by lending the Greek government European taxpayers’ money, ostensibly out of solidarity but actually in order to bail out its creditors, notably French and German banks. That catastrophic decision fundamentally changed the nature of the monetary union.
For five long years, Greece has been administered as a quasi-colony by the hated Troika – the European Commission and the ECB, together with the IMF. Fair enough, you might say: if Greece can’t borrow from markets and relies instead on EU-IMF funding, they have a right to impose conditions on their loans. Yes, indeed, but why even now can’t Greece borrow from markets? Why, last year, long before the election of a left-wing government seemed imminent, when the government was running a primary surplus – a budget surplus excluding interest payments – couldn’t it borrow on a sustainable basis from markets, unlike every other eurozone government? After all, its EU creditors insist it is solvent.
Because Greece is still, in fact, insolvent. And because its EU creditors refuse to restructure its debts, and threaten (illegally) to force it out of the euro if it defaults unilaterally, it is trapped in a modern-day debtors’ prison. Weighed down by unpayable debts, it is unable to recover, unable to regain market access and thus unable to restore control over its economic destiny. So it’s not left-wing to demand debt relief for Greece –even the IMF’s former Europe chief, Reza Moghadam, who is such a radical leftist that he now works for the American investment bank Morgan Stanley, thinks its debt needs to be halved – it’s an economic and democratic necessity.
The bailout of Greece’s creditors and the subsequent loans to Ireland, Portugal and Spain – primarily to bail out local banks which would have otherwise defaulted on their borrowing from German and French ones – made northern European taxpayers fear that they would end up liable for all of southern Europe’s debts. So Germany’s Chancellor, Angela Merkel, demanded much greater control over other countries’ budgets – and the European Commission was only too delighted to oblige. As a result, the eurozone as a whole is now bound by a much tighter fiscal straightjacket: more stringent EU rules as well as the fiscal compact.
This is economically undesirable, because countries that share a currency – and so no longer have their own monetary policy or exchange rate – need greater fiscal flexibility, not less. And it’s politically poisonous, because whenever voters reject a government, as they have done at nearly every election since the crisis, EU officials such as Katainen pop up on television to demand that the new government stick to policies that voters have just rejected. That remote, unelected and scarcely accountable officials in Brussels should deny voters legitimate democratic choices about tax and spending decisions alienates people from the EU. And if voting for mainstream politicians doesn’t lead to change, it’s no surprise they turn to the extremes.
How could fiscal democracy in the eurozone be restored? One option would be to create an elected eurozone fiscal authority. But such is the anger and mistrust that now exists in the eurozone that steps toward democratic federalism are politically inconceivable. A better option would be to restore the no-bailout rule and with it elected governments’ freedom to respond to changing economic circumstances and political priorities – constrained by markets’ willingness to lend and ultimately by the risk of default. A mechanism for restructuring sovereign debt could be created, while the ECB would be mandated to step in to prevent panics. To enhance market discipline, bank capital-adequacy rules that ludicrously treat all government bonds as risk-free should be revised, as should the ECB’s collateral-lending rules. A more flexible, decentralised and democratic eurozone that restores governments’ policy freedom, while relying on markets, not arbitrary decisions by Berlin and Brussels, for discipline would be much better for everyone.
Stripping voters of the right to make legitimate economic and political choices is unsustainable. And as Weimar Germany’s tragic history shows, the imposition of unbearable payments to hated foreign creditors leads to political extremism. Martin Wolf of the Financial Times has observed that the eurozone is meant to be a union of democracies, not an empire. Katainen and other eurozone officials should remember that.
Philippe Legrain, who was economic adviser to the President of the European Commission from 2011 to 2014, is a visiting senior fellow at the London School of Economics’ European Institute and the author of European Spring: Why Our Economies and Politics Are in a Mess — and How to Put Them Right.
Grillo: parliamo del dopo euro
Sarà stato il numero di presenti secondo alcuni al di sotto delle aspettative, sarà stato per coprire i dissensi interni, o sarà stato per riprendere in mano l’iniziativa politica da tempo controllata unicamente da Matteo Renzi, sabato al Circo Massimo Beppe Grillo ha deciso di passare il Rubicone.
Dopo aver parlato a lungo di un referendum sull’uscita dell’Italia dall’euro, Grillo ha deciso di farne il centro della sua campagna autunnale. L’idea è brillante e potenzialmente vincente per il Movimento 5 Stelle, mentre è rischiosa e potenzialmente disastrosa per l’Italia.
Abbassare i salari non conviene
Testo dell’articolo pubblicato su L’Espresso del 29.08.2014
Ogni fine Agosto i banchieri centrali si riuniscono a Jackson Hole (la Cortina delle Montagne Rocciose) per discutere dei problemi economici del mondo. Quest’anno il tema era l’occupazione.
L’intervento del governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi è stato molto equilibrato. Se da un lato ha riconosciuto che fattori ciclici, quali la riduzione di domanda aggregata prodotta dall’austerità fiscale, hanno avuto effetti negativi sull’occupazione, dall’altro ha sottolineato i fattori strutturali. Aprendo la porta per un possibile compromesso politico, Draghi ha detto che i vincoli di bilancio potrebbero essere allentati per quei paesi dell’Europa del Sud che aumentassero la flessibilità del lavoro. Per decidere se l’offerta sia allettante, però, dobbiamo capire cosa si intenda per flessibilità del lavoro. Continua a leggere