Quelle banche condannate a cambiare (in fretta) – Video

Il 31 marzo scorso, nell’ambito del Festival Città Impresa diretto da Dario Di Vico, si è svolto un confronto tra Ferruccio de Bortoli e me, sul tema delle banche. Qui di seguito il video dell’incontro, che è stato moderato da Nicola Saldutti.


Qui altri miei articoli sul tema “banche”.

Orrori bancari, la responsabilità non è delle famiglie (che hanno ripagato il 95% dei debiti). Il Caso Veneto.

Intervista pubblicata su Corriere Imprese NordEst il 13 Marzo 2017, a cura di Alessandro Macciò.

Il suo lavoro, presentato all’Università di Padova nel corso di un convegno sulla tutela del risparmio, sarà anche “artigianale” come ha detto, ma rende bene l’idea. Luigi Zingales, docente padovano di Finanza alla University of Chicago Booth School of Business, ha preso la lista dei primi trenta debitori della Banca Popolare di Vicenza, resa nota dal TG La7 di Enrico Mentana, ha spostato indietro le lancette di qualche anno e ha fatto un po’ di calcoli. Il risultato è che nel 2008, quindi agli albori della crisi, il 35% di questi clienti (che alla fine del 2015 rappresenteranno il 29% delle sofferenze in bilancio di Bpvi) navigava già in cattive acque, con un rapporto medio tra posizione finanziaria netta e margine operativo lordo ampiamente sopra la soglia fissata per ottenere il credito. Dal sospetto alla certezza, per Zingales il passo è breve. “Le banche non hanno fatto bene il loro mestiere”. Al convegno del Bo, organizzato dallo studio Cortellazzo&Soatto, c’era anche il viceministro Morando. E Zingales ha colto la palla al balzo per spronare il governo a indagare sui grandi debitori delle banche Venete.

Professor Zingales, partiamo dal quadro internazionale. Brexit, Trump, spinte populiste: quali sono le ripercussioni economiche sul sistema economico del Nordest?
Il clima politico certamente non aiuta e le tensioni nell’Area Euro possono avere un riverbero negativo, ma nel caso si può dire che piove sul bagnato: l’Italia sta uscendo dalla crisi troppo lentamente e con ripercussioni eccessive in certi settori. I Non performing loan (Npl, cioè i crediti deteriorati delle banche che i debitori non riescono a ripagare) ci dicono che le famiglie sono state virtuose e che i problemi di concessione del credito hanno riguardato soprattutto l’edilizia. In Spagna i prezzi degli immobili sono crollati molto più che in Italia, eppure il tasso di non performing loan raggiunge il 35% delle imprese Spagnole e il 50% di quelle Italiane: questo livello di perdite è difficile da spiegare, per fare meglio bastava buttare i soldi a caso. La domanda quindi è: perché la vigilanza non si è accorta di questi errori sistematici? Per evitare di ripeterli serve un’indagine seria, come quelle dell’aviazione americana dopo gli incidenti aerei.

 

Finora si conosce la lista dei primi trenta debitori di Bpvi. Cosa emerge dall’analisi?
Viene da chiedersi perché i responsabili della banca abbiano esteso il credito e non abbiano fatto qualcosa per evitare l’aumento dei debiti. E la vigilanza?  Ha visto e non poteva intervenire, o non ha proprio visto? Nel primo caso bisogna adottare nuovi strumenti, nel secondo bisogna fare altri tipi di riflessione. Manca la pistola fumante, ma le domande sono forti.

Oltre a Bpvi, anche Veneto Banca ha rischiato il default e si è salvata solo grazie all’intervento del fondo Atlante. Qual è il suo giudizio sulla vicenda delle due ex Popolari Venete?
Un sistema di grandi banche con capitali di rischio a prezzi fatti in casa era sbagliato dal principio, ma ci sono gravi colpe di chi ha guardato dall’altra parte. Dove sono oggi i commercialisti che hanno validato i prezzi delle azioni? Dov’erano le autorità di vigilanza, anche la Consob, quando le banche hanno approvato gli aumenti di capitale? Nel 2014 ho scritto più volte che serviva più trasparenza sui prezzi e che le semplici spiegazioni allegate ai prospetti non bastavano: la mia non è una critica ex post, ma fatta sul momento. Per tutta risposta c’è stato un silenzio di tomba, e gli investitori hanno perso tutto.

Il piano di rilancio di Bpvi e Veneto Banca prevede la fusione tra i due istituti: le sembra la soluzione corretta? 
Oggi la situazione è molto brutta: servirà un aumento di capitale massiccio e il fondo Atlante non può sostenerlo. La domanda a questo punto è: lo Stato azzererà l’investimento in Atlante o no? Per me sì, perché Atlante è un soggetto privato che ha investito e ha perso. Per ridurre le perdite si farà un consolidamento che comporterà la riduzione dei posti di lavoro e una concentrazione delle forze bancarie: quando c’è una fusione in vista e le banche parlano di sinergie, il risultato sono tagli sui costi del personale e sul potere di mercato.

Se l’operazione andrà in porto, quale scenario dobbiamo aspettarci? 
Il Veneto avrà un sistema bancario più snello e la fusione peggiorerà le cose, è inevitabile. Il governo Italiano dovrebbe seguire l’esempio di quello Spagnolo, che ha ricapitalizzato il settore bancario e oggi assiste a una crescita economica superiore al 3%. In Italia invece si fanno solo interventi tampone, troppo tardi e con risorse inadeguate: per mettere la parola fine al problema c’è bisogno di una svolta.


Qui altri miei articoli sul tema “banche”

Banche: ogni mese in cui ritardiamo l’intervento sistemico è un mese di crescita buttato via (intervista)

Intervista a cura di Fabrizio Patti, pubblicata il 31.08.2016 su linkiesta.it

Siamo ancora a rischio di implosione. Luigi Zingales, economista all’Università Chicago Booth, non usa giri di parole. Si augura che l’operazione di salvataggio di Mps, attraverso l’acquisto di Npl da parte del fondo Atlante 2, e poi attraverso una nuova ricapitalizzazione, finisca per avere successo. Ma i dubbi rimangono. Tanto che resta una convinzione: sarebbe stato meglio percorrere la via di un intervento diretto dello Stato nelle banche, a costo di andare incontro alla tutela dell’ex Troika. Che, più di danni al Paese, “farebbe pulizia nelle banche”.

Professore, l’operazione di salvataggio di Mps è partita, ma è difficie. Si dovranno vendere sofferenze per 9 miliardi, di cui sei miliardi da collocare sul mercato con garanzia dello Stato, mentre Atlante 2 metterà sul piatto 1,6 miliardi. Poi bisognerà trovare i sottoscrittori di un aumento di capitale (sceso, secondo anticipazioni, da 5 a 3 miliardi di euro, ndr). La stampa economica nelle ultime settimane ha dato notizie positive sia riguardo al coinvolgimento di numerose banche nel consorzio di garanzia nell’aumento di capitale di Mps sia riguardo alla raccolta di fondi da parte di Atlante 2. Siamo di fronte a una svolta per la vicenda Mps o c’è un eccesso di ottimismo?
Io mi auguro che l’operazione riesca, perché se non riuscisse sarebbe una situazione molto destabilizzante. Io continuo ad avere dei dubbi, in particolar modo sulla volontà degli azionisti di entrare e mettere altri miliardi di euro, dopo quelli che sono stati buttati via con i precedenti aumenti di capitale. Il secondo dubbio riguarda le cosiddette sofferenze. Ricordiamoci che negli altri Paesi esiste un termine, non performing loans, ossia crediti deteriorati, che include sia le sofferenze sia quelli che una volta chiamavamo incagli e che oggi si chiamano inadempienze probabili o unlikely to pay. L’operazione Atlante 2 ha semplicemente sottratto dal bilancio di Mps le sofferenze definite in maniera ristretta. Rimane questa componente di inadempienze probabili: è grossa ed è valutata ancora ancora con numeri ottimistici. Il grosso rischio è che si nasconda un altro buco. Sarebbe devastante. Mi auguro che questi aspetti siano stati valutati seriamente e che l’operazione vada in porto. Dal mio punto di vista i rischi rimangono.

Quanto questa operazione si può definire “di mercato”, come ha fatto Padoan?
Bisogna vedere cosa si intende per “di mercato”. Ricordiamo il caso di Long Capital Management. Quando stava per fallire, la Federal Reserve chiuse in una stanza tutte le investment bank finché non si trovò una soluzione. Il giorno dopo Alan Greenspan (ex presidente della Fed, ndr) abbassò il tasso di sconto. Lei la chiama un’operazione di mercato? Io la chiamo operazione di sistema. Sicuramente non è una soluzione spontanea del mercato. Se lo fosse stata, non si capisce perché il presidente del Consiglio avrebbe dovuto incontrare tutte queste persone con tanta solerzia.

Qual è il rischio di queste operazioni, in termini di trasparenza?
Certamente ogni volta che il presidente del Consiglio si incontra con qualcuno, riguardo a un’operazione cosiddetta di mercato, c’è il rischio che ci siano delle assicurazioni, degli accordi, non chiaramente trasparenti. Il modo migliore è che il governo non si metta proprio in mezzo.

«Ogni mese in cui ritardiamo l’intervento sistemico, è un mese di crescita buttatO via. A questo si aggiunge il rischio che la questione scappi di mano. Finora si è intervenuti all’ultimo giorno dell’ultima ora. A me sembra che si scherzi col fuoco»

È auspicabile che dopo Mps Atlante 2 intervenga anche sulle sofferenze di Vicenza e Veneto Banca, come abbiamo letto nei giorni scorsi?
Non è proprio un fatto banale. Da quello che mi risulta, le sofferenze delle due banche venete sono in bilancio a 45 centesimi per euro di valore nominale. Ricordiamo che la junior tranche che si sono ripresi gli azionisti di Mps è stata valutata zero e che le sofferenze di Mps sono state valutate 27 centesimi. Da 27 a 45 c’è un gap molto forte. Non so esattamente come intendano coprire questo gap.

Lei a luglio ha propugnato una soluzione diversa, con intervento diretto dello Stato nel capitale delle banche, sul modello del Tarp americano. Se la soluzione “di sistema” fallisse, sarebbe troppo tardi per un intervento come quello che lei ha proposto?
Ci sono due problemi. Il primo è che in questa fase di incertezza le banche continuano a non prestare e l’economia a non crescere. Ogni mese in cui ritardiamo l’intervento sistemico, è un mese di crescita buttato via. A questo si aggiunge il rischio che la questione scappi di mano. Finora si è intervenuti all’ultimo giorno dell’ultima ora e per fortuna c’è stata una calma notevole, gli italiani sono stati maturi non facendo una corsa agli sportelli. Non so fino a che punto possiamo giocare con la fortuna. A me sembra che si scherzi col fuoco.

Domanda del popolo: in sintesi, quando torneremo a poter avere dei mutui in banca per attività di impresa in una situazione di normalità?
È esattamente il punto a cui accennavo. Bisogna risolvere la crisi in una maniera radicale e sistemica. Finora si è scelto di farlo attraverso delle pezze e queste non cambiano la situazione. Nel momento in cui si cambierà pagina, le banche ricominceranno a dare i mutui. Oggi le banche ricapitalizzate sono ansiose di prestare i soldi, perché li prendono a prezzo zero, se le tengono alla Bce costa loro soldi, ci sono tutte le condizioni per prestare. Quello che manca è il capitale. Quindi la ricapitalizzazione diventa l’elemento essenziale perché questa politica monetaria abbia un effetto.

«Se il modello [di intervento della Troika] è quello della Spagna, mi sembra un modello di grande successo. Oggi la Spagna cresce a ritmi invidiabili. Se quello è il prezzo da pagare ben venga»

In caso di intervento pubblico (stile Tarp) lei ha ipotizzato che tale intervento seguisse due strade. La prima è l’intervento della Cdp come acquirente delle azioni delle banche. La seconda, è l’intervento dell’Europa. Dovremmo quindi affidarci alla ex Troika?
Sì.

Quale sarebbe il costo politico? Ci dobbiamo aspettare un intervento come quello che abbiamo visto da parte della Troika, se non in Grecia almeno in Spagna o in Irlanda?
Se il modello è quello della Spagna, mi sembra un modello di successo. Oggi la Spagna cresce a ritmi invidiabili. Se quello è il prezzo da pagare ben venga.

Quali misure sarebbero imposte all’Italia a suo parere?
Se io fossi dalla parte del Fmi, quello che chiederei come condizione sarebbe una pulizia dei vertici delle varie banche. Cosa che in parte si sta facendo, in parte non si sta facendo. Sicuramente il costo sarebbe elevato per i banchieri, non penso sarebbe elevato per il Paese.

Pensa che la riforma del lavoro e delle pensioni, che abbiamo già fatto, eviterebbe che fossero chieste altre riforme strutturali?
Se le riforme strutturali facessero migliorare il processo di collocamento, sarebbero benvenute. Lo possiamo fare anche senza il bisogno della Troika, non mi sembra che sia una tragedia. Inoltre il Fmi ultimamente si è dimostrato molto più aperto della Germania, ben venga quindi un Fondo monetario internazionale che ci supervisioni.

«Nel lungo periodo l’unione monetaria non funziona se non c’è una qualche forma di redistribuzione fiscale. Allora, discutiamo di quale forma ma non se questa redistribuzione fiscale debba esistere. A me sembra che la via meno coinvolgente e la meno politicamente difficile sia quella di avere una assicurazione comune sulla disoccupazione» 

A proposito di Europa, lei in un recente articolo sembra aver sposato, almeno sul piano della teoria economica, l’idea di un euro a due velocità. I vertici a cui ha partecipato Angela Merkel nelle scorse settimane, uno a Ventotene con Italia e Francia e uno a Varsavia con Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, hanno dato l’idea di un’Europa che potrà trovare dei compromessi o un’Europa destinata sempre più a dividersi in due?
Merkel è molto brava a gestire l’esistente. Ma guardiamo la prospettiva di lungo periodo. Nel lungo periodo l’unione monetaria non funziona se non c’è una qualche forma di redistribuzione fiscale. Allora, discutiamo di quale forma ma non se questa redistribuzione fiscale debba esistere. Se mettiamo in dubbio che esista, mettiamo in dubbio la moneta unica. A me sembra che la via meno coinvolgente e la meno politicamente difficile sia quella di avere una assicurazione comune sulla disoccupazione. Se la Germania non vuole questa misura, ci dica cosa vuole. Se la risposta è “nulla”, allora dobbiamo trarne le conseguenze.

Un’Italia in un euro di seconda fascia avrebbe solo vantaggi, considerata la sua grande diversità interna tra Nord e Sud? 
Dunque: che la flessibilità dei cambi abbia dei vantaggi non c’è dubbio. Il problema vero è duplice. Il primo è che abbiamo dato via questa flessibilità per avere dei tassi di interesse più bassi sul debito. Quindi dobbiamo porci la domanda di cosa succederebbe al costo al debito, una volta ottenuta la flessibilità dei cambi. Il secondo è che se domani l’Italia uscisse in maniera unilaterale dall’euro sarebbe una catastrofe. Quindi l’idea dei due euro, che ho proposto già nel 2010, è un modo più soft per uscire dall’euro senza creare un patatrac. Ma questo richiede la compartecipazione della Germania. Un divorzio consensuale fa sempre meno danni di uno unilaterale.

La garanzia unica sui depositi potrebbe essere un modo per integrare maggiormente l’economia europea. Come sappiamo, però, la Germania intende rimandarla, per mancanza di fiducia di Paesi che tendono a creare problemi di stabilità come l’Italia. La Germania dovrebbe rischiare di più su questo fronte?
Date le condizioni a cui questa garanzia è stata introdotta, il rischio è minimo. In più la Germania si era impegnato a farlo nel 2012. Quindi sta rinnegando la promessa.

Ma l’Italia dovrebbe prendere in considerazione misure come l’abbassamento della quota di titoli di Stato detenuti dalle banche italiane, chiesto da Jens Weidmann, il governatore della Bundesbank?
No. I tedeschi usano un argomento che ha una validità. Il problema è che questa non è una novità. C’era anche nel momento in cui hanno firmato un accordo che prevedeva l’unione bancaria. Il fatto che lo tirino fuori dopo ricorda la storia di Bertoldo: condannato a morte per impiccagione, chiede come ultimo desiderio di scegliere l’albero a cui farsi impiccare. Naturalmente non trova mai quello giusto. Se uno non vuole una cosa trova sempre delle scuse. Questo mi pare sia l’atteggiamento tedesco: ha delle scuse anche ragionevoli, ma c’è di fondo una non volontà di una condivisione del rischio. Quello che farei io, come Italia, sarebbe di dire: “Non volete l’unione bancaria? Benissimo, facciamo l’assicurazione sulla disoccupazione”, che per me è più importante ancora.

Ci vorrebbe un trattato ad hoc.
Certamente. Ricordiamoci quello che disse Prodi nel 2001: “Per come è stato creato, l’euro non è sostenibile. Verrà una crisi e da questa crisi nasceranno le istituzioni politiche per sostenerlo”. Se però non le facciamo nascere, perché diciamo che non sono nei trattati, dobbiamo dichiarare che l’euro è morto.

«Ricordiamoci quello che disse Prodi nel 2001: “Per come è stato creato, l’euro non è sostenibile. Verrà una crisi e da questa crisi nasceranno le istituzioni politiche per sostenerlo”» 

Torniamo in Italia. Dopo il terremoto è stato detto molte volte che la prevenzione sismica sarebbe la grande opera che serve all’Italia. È un ragionamento che la convince?
Che l’Italia debba investire moltissimo nel patrimonio, sia di arte che naturale che ha disposizione, è condivisibile. Il problema è come investire. Guardiamo la scuola di Amatrice, dove abbiamo fatto un intervento pochi anni fa e non è servito a nulla. Ritorniamo a uno dei problemi fondamentali dell’italia: come fare della spesa in maniera seria e non corrotta.

Prima del terremoto si erano già sprecate le indiscrezioni sulla manovra 2017. Ci sono state uscite da parte degli esponenti del governo, che si sono anche divisi. Il sottosegretario Zanetti ha detto che il governo avrebbe puntato tutto sulle misure per far crescere gli investimenti e altri come il ministro del Lavoro Poletti che le misure per investimenti e per le fasce deboli della popolazione non possono andare divise. Come la vede?
Le due cose sono sicuramente legate. Il rischio maggiore è che stimolare i consumi significa stimolare i consumi di prodotti stranieri senza stimolare la crescita italiana. La difficoltà è che però stimolare gli investimenti non è facile. Il modo migliore sarebbe quello di ridurre in maniera credibile la tassazione sulle imprese in Italia. Questa è l’unica cosa che si possa fare per aumentare gli investimenti.

«Per aumentare gli investimenti in Italia c’è bisogno di rendere più attraente il fare business in Italia. Il modo migliore per farlo è ridurre l’imposizione sulle società»
Una delle misure di cui si è discusso, sul lato dei consumi, riguardava una quattordicesima per i pensionati. È possibile immaginare una manovra che prescinda da interventi simili che agiscono sul lato dei consumi?
La cosa importante è che qualsiasi cosa venga fatta sia un intervento permanente e non transitorio. La gente è più furba dei governi: se c’è un aumento una tantum, si rende conto che è così e non spende. Lo stesso vale per i sussidi alle imprese: le riduzioni temporanee valgono il tempo che trovano. Bisogna trovare una formula che abbia una sua credibilità nel lungo periodo.

L’Italia vorrebbe fare una manovra da 25-30 miliardi, chiedendo di sforare il deficit. Fa bene o male l’Italia a chiedere di superare i limiti del fiscal compact in questa fase? È una strada corretta o siamo in una fase in cui è il caso di tagliare in maniera più consistente la spesa pubblica?
Le due cose non sono in contraddizione. Se si riuscisse a ridurre gli sprechi della spesa pubblica e ad abbassare le imposte in maniera permanente, questa sarebbe la soluzione ideale. Come raggiungerla? Sappiamo che tagliare la spesa non è facile. Vuol dire tagliare degli interessi molto forti. E tanto più la spesa è improduttiva, tanto più sono forti questi interessi, perché la spesa completamente sprecata è quella che diventa una rendita per chi la riceve. Politicamente è difficile fare tutto questo. A me pareva che inizialmente Renzi avesse avuto un’ottima idea, che era quella di ridurre le imposte a una sola categoria, con i famosi 80 euro, e poi tagliare la spesa improduttiva per rendere permanente questo cambio. Mi pare che il taglio di spesa non sia seguito. C’è comunque un secondo punto da ricordare.

Prego.
Per aumentare gli investimenti in Italia c’è bisogno di rendere più attraente il fare business in Italia. Il modo migliore per farlo è ridurre l’imposizione sulle società.

Quel «tesoretto» della bad bank del Banco di Napoli

Testo dell’articolo pubblicato il 21.08.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”. 

Nelle scorse due settimane ho analizzato la lezione del Banco di Napoli per quanto riguarda il valore odierno di sofferenze ed incagli.  C’è però una lezione ancora più importante e riguarda le recriminazioni sull’ingiusta sorte subita dalla più importante banca del Sud. Riecheggiano pari pari quelle che vengono oggi sollevate dagli azionisti e dai manager delle banche del Nord in difficoltà: non è vero che sono fallite, è colpa della eccessiva severità nelle valutazioni della Banca d’Italia o della BCE, è una manovra per colpire le industrie locali, etc. Nel caso del Banco di Napoli, queste teorie sembrerebbero trovare un suffragio nel “ tesoretto” accumulato dalla SGA (la bad bank del Banco di Napoli), che a fine 2015 ammontava a ben 469 milioni di euro.

Se la SGA ha potuto accumulare questo tesoretto non significa forse che a suo tempo le attività del Banco di Napoli valevano di più di quanto stabilito dagli ispettori della Banca d’Italia? E se così fosse non significa che il Banco di Napoli – ed indirettamente il Sud – sono stati ingiustamente svantaggiati?
“Se la bad bank di una qualsiasi banca del nord – si chiede Mariarosa Marchesano (*), autrice del libro “Miracolo bad bank” – avesse avuto il successo della SGA e fosse titolare di una dotazione finanziaria di 500 milioni di euro, sarebbe altrettanto facile per il governo Renzi utilizzare questa ricchezza per salvare le banche del Sud in crisi?”

Tutte queste recriminazioni si fondano sull’ipotesi che le sofferenze e gli incagli del Banco di Napoli siano stati sottovalutati al momento della liquidazione del Banco e che questo valore sia poi riemerso nei lunghi anni della gestione della SGA. Se così fosse queste recriminazioni sarebbero fondate. Ma non è così.

Nel 1996 la SGA acquistò le sofferenze del Banco ad un prezzo del 62% del nominale e gli incagli ad un prezzo dell’85%. Usando il valore realizzato di queste sofferenze ed incagli, i miei calcoli (riportati nelle scorse settimane) valutano le prime al 22% e le seconde al 32%. La differenza rappresenta 3,4 miliardi di euro di buco. Come è possibile che la SGA abbia accumulato 469 milioni di euro di tesoretto?

La risposta è molto semplice: tra il 1997 e il 2002, la Banca d’Italia – attraverso il Banco di Napoli – ripianò le perdite della SGA per 3,7 miliardi di euro. Lo fece in base al D.M. 27/9/1974 , anche noto come “decreto Sindona” perché utilizzato per la prima volta per salvare la Banca Privata Italiana dopo il crack. In sostanza, la Banca d’Italia prestava denaro al Banco di Napoli all’1% e il Banco guadagnava la differenza tra il tasso di mercato sui titoli di stato (che all’inizio del periodo era al 6,8%) e l’1% e usava quei soldi per ricapitalizzare la SGA. Si tratta di una specie di quantitative easing “ad bancam”, che raggiunse a momenti valori molto elevati (12 miliardi di euro). Se la Banca d’Italia avesse acquistato quei titoli direttamente, a guadagnarci sarebbe stato il contribuente. Quei soldi sono quindi a tutti gli effetti un contributo statale. Lungi da essere un tesoretto emerso da un valore superiore alle attese dei crediti deteriorati, il surplus della SGA sono gli avanzi dei contributi statali per ripianare il buco del Banco di Napoli.

Un approfondimento a parte meritano le cause di questo buco. Fu colpa della gestione clientelare del democristiano Ferdinando Ventriglia o fu la crisi dell’economia meridionale dovuta dall’improvvisa interruzione dei contributi della Cassa del Mezzogiorno?

Questo legittimo dubbio non deve distrarre dal fatto che il buco ci fu e questo buco fu sottostimato, non accentuato, dalle valutazioni di Banca d’Italia. Restituire il “tesoretto” al Sud aggiungerebbe la beffa al danno. Quei soldi appartengono a tutti i diritti allo stato italiano e ha fatto bene il Ministro Padoan a riprenderli in nome della comunità. L’unico dubbio è perché si è aspettato tanto. Se non ci fosse stata una crisi bancaria, quei soldi sarebbero rimasti tra le pieghe di bilancio di Banca Intesa (che nel frattempo aveva comprato il Banco di Napoli), come un regalo del contribuente?

Qui di seguito i link ai precedenti articoli della Rubrica “Alla Luce del Sole”: 

– Quante sofferenze si nascondono negli “incagli”?
– Cosa Insegnano ad Atlante le Sofferenze del Banco di Napoli 
– Le Operazioni di Sistema sono Aiuti di Stato?
– Aguzzate la vista
L’azione di responsabilità è fondamentale per ricostruire la fiducia nelle banche Italiane
Deutsche Bank e Monte Paschi: similitudini e differenze
– Salvare le banche per far ripartire l’economia
– L’importanza di un Buon Piano di Successione e il Ruolo del Consiglio di Amministrazione 
Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia
– Cosa fare per evitare che il “decreto banche” diventi solo un regalo alle banche
– Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori
– Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi 
– Le Responsabilità della Consob sulle Obbligazioni Subordinate
– Gli stipendi degli AD e quei paracadute troppo grandi

Atlante 2 non salverà le banche. Roma usi Cdp o chieda un intervento alla UE (intervista)

Intervista a cura di Claudia Cervini pubblicata su Quotidiano – Ed. Nazionale (Nazione Carlino Giorno) il 13 Agosto 2016

Con l’avvio di Atlante 2 le banche italiane possono stare più tranquille?
Risposta. Atlante 2 è una soluzione ingegnosa, ma utilizzabile in casi circoscritti (come Mps) e incorrendo in forti rischi.

Perché?
Il problema delle banche italiane sono le sofferenze (200 miliardi lordi): il nodo reale è capire quanto vengono valutati questi crediti. Di solito sono iscritti a bilancio al 45% del loro valore iniziale. Bene. Atlante 2 comprerà alcune sofferenze di Mps a un valore intorno al 28%. Il fatto è che non si sa quale sia adesso il loro valore di mercato. Il successo dell’operazione è quindi un’incognita.

L’esperienza della Sga impiegata per il recupero delle sofferenze del Banco di Napoli non fu così negativa.
Dopo 20 anni è stato recuperato il 90% circa del prezzo pagato per un valore pari al 55% del credito iniziale. Ma questo valore non tiene conto né delle spese sostenute per raggiungere l’obiettivo (da quelle di gestione alle spese legali) né del tempo trascorso. Quale tasso di interesse sconta questo ritardo? Un altro esempio. Banca d’Italia aveva attribuito alle sofferenze delle 4 banche fallite un valore del 22%. Se il valore reale delle sofferenze oggi è del 22% Atlante è una soluzione in perdita.

Posto che il valore reale di questi crediti ancora non si conosce, quale strada suggerisce?
Prendo a prestito l’esperienza statunitense del 2008: una situazione che ricorda quella dell’Europa di oggi. Nessuno conosceva il valore dei mutui subprime. Come primo tentativo si cercò di salvare il sistema bancario comprando questi mutui a un valore alto – stabilito a tavolino – per mantenere in vita il comparto. Ma fu impossibile creare un mercato omogeneo perché se il prezzo è alto si cerca di vendere le porcherie e di tenere i crediti migliori.

Quindi?
Si scelse di immettere capitali pubblici nel sistema bancario. L’operazione prevedeva l’emissione di azioni con un diritto per gli azionisti a ricomprare questi titoli a un prezzo predeterminato. I soldi pubblici fungevano come garanzia, ma se la banca non riusciva a ricomprarsi le azioni allora lo Stato, di diritto, ne diventava il padrone.

Le regole Ue non permettono all’Italia una simile mossa.
Ci sono due soluzioni. La prima: farlo attraverso la Cdp, che tecnicamente non rientra nel perimetro dello Stato. Si andrebbe incontro a probabili ricorsi Ue, ma intanto il problema verrebbe risolto. La seconda strada è a mio avviso la più efficace: bisogna rivolgersi all’Europa chiedendole un intervento diretto. Questa mossa comporta un costo politico, ma è l’unica efficace. In Spagna ricapitalizzarono così le banche, ricorrendo ai fondi europei.

Ma esiste davvero un rischio sistemico per l’Italia? Le banche (eccetto Mps) hanno superato gli stress test.
Gli stress test hanno riguardato solo gli istituti di maggiori dimensioni e hanno considerato in maniera marginale le sofferenze. Le banche più piccole sono in seria difficoltà.

L’Fmi ha raccomandato all’Italia una sorta di esame anche sulle piccole. Cosa ne pensa?
È un’ottima regola che però, in questo momento, farebbe emergere in modo ancora più chiaro i problemi dell’Italia. Serve prima una garanzia altrimenti si rischia di scatenare il panico.

Oggi un altro cruccio importante delle banche è la redditività.
Le banche italiane hanno un vantaggio: per tradizione fanno più prestiti all’economia reale. Prestiti che, coi tassi a zero, rendono ancora in termini di margini. Gli istituti solidi e capaci di fare credito selettivo cresceranno ancora e faranno profitti. Molte banche, invece, andranno chiuse e si assisterà a una forte riduzione del personale.

Quante sofferenze si nascondono negli “incagli”? / How Many Non-Performing Loans Are Hidden in the “Unlikely to Pay”?

Testo dell’articolo pubblicato il 14.08.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole” / Article written for “Il Sole 24 Ore“. (English translation below)

La settimana scorsa ho spiegato come il futuro dell’Italia dipenda dal valore delle sofferenze bancarie. In realtà, il problema non si limita alle sole sofferenze, ma anche ai cosiddetti incagli, oggi ridenominati “inadempienze probabili” (IP). La Banca d’Italia definisce le sofferenze come crediti la cui riscossione non è certa perché i soggetti debitori sono in stato di insolvenza o in situazioni equiparabili. Le IP rappresentano esposizioni nei confronti di soggetti in situazione di difficoltà obiettiva ma temporanea.

Anche in un mondo ideale, separare le sofferenze dalle IP è difficile. Se viene aperta una procedura fallimentare, non ci sono dubbi. Fino a quel momento, la tentazione di considerare come temporanea una difficoltà di pagamento è molto forte. Questa tentazione è aumentata dalle regole sugli accantonamenti. Una sofferenza richiede un accantonamento intorno al 60%, un’IP al 30%. La differenza è enorme. Prima dell’operazione con Atlante, Monte Paschi di Siena (MPS) aveva €27,7 miliardi di sofferenze lorde (in bilancio al 37% del valore nominale) e €16,9 miliardi di IP lorde (in bilancio al 71% ). Per ogni miliardo di sofferenze che MPS riesce a classificare come IP evita accantonamenti (e quindi perdite) per €341 milioni. Quando la tentazione di piegare le regole è così forte, possiamo fidarci di questa classificazione?

Questa fiducia è fondamentale per valutare un piano di intervento per il sistema bancario italiano, perché oltre ai €200 miliardi di sofferenze ci sono €160 miliardi di IP. Se queste IP valgono il 40% invece dell’70% cui sono state inscritte a bilancio, il sistema bancario ha bisogno di €48 miliardi di capitale per ripianare le perdite su IP, cui si aggiungono alle decine di miliardi necessari per colmare le perdite sulle sofferenze. Come possiamo sapere se le IP sono sofferenze nascoste o sono veramente casi di temporanea illiquidità?

Un rapporto ispettivo di Banca d’Italia del luglio 2013 ci dice che quando furono esaminate €8,5 miliardi di IP (allora chiamate incagli), il 35% fu riclassificato come sofferenza, con un aumento degli accantonamenti dal 19% al 36% del valore iniziale. L’analisi era su un campione mirato, dove gli ispettori si aspettavano di trovare maggiori problemi, quindi non è necessariamente rappresentativo. Come possiamo stabilire un valore probabile?

Ancora una volta l’esperienza del Banco di Napoli ci può venire in aiuto. Poco prima di essere trasferiti alla “bad bank”, i crediti deteriorati furono ispezionati da Banca d’Italia. Le sofferenze furono raddoppiate, gli incagli triplicati. Ciononostante, Banca d’Italia non sembra essere stata troppo severa, anzi. Dopo 20 anni il valore delle sofferenze recuperate è stato di €2,6 miliardi, pari al 56% del valore nominale, mentre il valore delle IP recuperate di €1,7 miliardi, pari al 58% del valore nominale.

Ovviamente non conta solo la percentuale del recupero, ma anche il tempo e il costo. Dai dati di bilancio non è facile disaggregare il costo, ma quanto al tempo, dopo 9 anni le sofferenze avevano recuperato solo il 33% del valore iniziale, mentre le IP già il 51%. Se usiamo i valori realizzati dei tassi di interesse e delle quantità recuperate come previsioni, possiamo calcolare il valore di sofferenze ed IP al momento della creazione della bad bank. Con un premio per il rischio di 500 punti base, il valore delle sofferenze sarebbe stato del 22% del nominale e quello delle IP del 32%. A questi valori il MPS dovrebbe sopportare ulteriori €6,6 miliardi di svalutazioni e il sistema bancario italiano nel suo complesso avrebbe bisogno di €102 miliardi in più di capitale da raccogliere.

Come ho spiegato la settimana scorsa, l’esperienza della bad bank del Banco di Napoli non rispecchia necessariamente quello che capiterà ai crediti deteriorati oggi: ma è più facile che sbagli per ottimismo che per pessimismo. In ogni caso, mette in luce come il problema non sia solo MPS. È un problema sistemico, che il governo non può risolvere con interventi ad hoc.

Qui di seguito i link ai precedenti articoli della Rubrica “Alla Luce del Sole”: 

– Cosa Insegnano ad Atlante le Sofferenze del Banco di Napoli 
– Le Operazioni di Sistema sono Aiuti di Stato?
– Aguzzate la vista
L’azione di responsabilità è fondamentale per ricostruire la fiducia nelle banche Italiane
Deutsche Bank e Monte Paschi: similitudini e differenze
– Salvare le banche per far ripartire l’economia
– L’importanza di un Buon Piano di Successione e il Ruolo del Consiglio di Amministrazione 
Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia
– Cosa fare per evitare che il “decreto banche” diventi solo un regalo alle banche
– Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori
– Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi 
– Le Responsabilità della Consob sulle Obbligazioni Subordinate
– Gli stipendi degli AD e quei paracadute troppo grandi

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Last week I explained how Italy’s future depends on the value of banks’ non-performing loans (NPLs). In fact, the problem is not limited only to the narrowly-defined NPLs (sofferenze), but also to the “unlikely to pay” (UP) (once called “incagli” and now renamed “inadempienze probabili”. The Bank of Italy defines narrow NPLs as credits whose collection is uncertain because the debtor is insolvent or in similar situations. UPs represent exposure to people in situations of objective – but temporary — difficulty to pay.

Even in an ideal world, separate the UPs from the NPLs is hard. If bankruptcy proceedings are under way, there is no doubt. Until that time, the temptation to regard as a temporary an inability to pay is very strong. This temptation is increased by provisioning rules. NPLs require to book a loss of around 60% of the value of the loan, UPs of only 30%. The difference is huge. Before the transaction with the Atlante Fund, Monte Paschi di Siena (MPS) had € 27.7 billion of gross NPLs (booked at 37% of the nominal value) and € 16.9 billion of gross UPs (reported at 71% of nominal value). For every billion of NPLs that MPS classifies as UPs, it can avoid provisions (and therefore losses) for € 341 million. When the temptation to bend the rules is so strong, can we trust this classification?

This confidence is essential to evaluate a plan for the Italian banking system, because in addition to the € 200 billion of narrowly defined NPLs there are € 160 billion of UPs. If these UPs are worth 40% rather than the 70% they have been booked at, the banking system needs €48 billion of capital to cover the UPs’ losses, in addition to the tens of billions needed to compensate for the losses on the narrowly defined NPLs. How can we know if the UPs are hidden NPLs or are really cases of temporary illiquidity?

A July 2013 report of the Bank of Italy tells us that 35% of the €8.5 billion of UPs examined was reclassified as NPLs, increasing the provisioning from 19% to 36% of the initial value. The inspection was targeted towards problems banks, where inspectors were expecting to find more misclassifications, so it is not necessarily representative. How can we establish a probable value?

Once again the experience of Banco di Napoli can come in handy. Shortly before being transferred to the “bad bank”, impaired loans of Banco di Napoli were inspected by the Bank of Italy. The narrowly-defined NPLs were doubled, the UPs tripled. Nevertheless, the Bank of Italy does not seem to have been too severe. After 20 years the value of recovered NPLs amounts to €2.6 billion, accounting for 56% of the nominal value, while the value of recovered UPs is €1.7 billion, or 58% of the nominal value.

Of course, the percentage of recovery is not the only dimension that matters: time and recovery costs matter as well. From the financial statements it is not easy to disaggregate the recovery cost for NPLs and UPs, but we can distinguish the timing. After nine years the narrowly-defined NPLs had recovered only 33% of the initial value, while the UPs already 51%. If we use the actual values for the interest rates and amounts recovered as forecast, we can calculate the value of NPLs and UPs at the time of the creation of the bad bank. With a risk premium of 500 basis points, the value of the NPLs would have been 22% of the nominal and of the UPs 32%. At these values, MPS should bear additional € 6.6 billion of write-downs and the Italian banking system as a whole would need to raise € 102 billion more capital.

As I explained last week, the experience of the bad bank of Banco di Napoli does not necessarily reflect what will happen to non-performing loans today, yet it is more likely to overstate than understate the value of these bad loans. In any case, it highlights how the problem is not only MPS. It is a systemic problem, which the government cannot solve by ad hoc interventions.

Cosa Insegnano ad Atlante le Sofferenze del Banco di Napoli / What Banco di Napoli’s non-performing loans can teach the Atlante Fund

Testo dell’articolo pubblicato il 7.08.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”
Article written for “Il Sole 24 Ore“.

Il futuro dell’Italia sembra appeso a un numero: il valore delle sofferenze nei bilanci delle banche. Se valgono il 45% del valore del credito originario, come riportato in molti bilanci, le banche italiane sono solide, come afferma il Governo. Se valgono il 28%, come valutati dal piano di salvataggio di Monte Paschi, alcune banche rischiano di fallire. Se poi valgono il 17.6% (poi rettificato al 22.4%), come stabilito nell’intervento su Banca Etruria e le altre tre banche regionali, allora molte banche sono insolventi. Il motivo è che le banche hanno crediti in sofferenza per almeno 200 miliardi. Quindi la differenza di valutazioni tra il 22% e il 45% corrisponde a potenziali ulteriori perdite per 46 miliardi. Ma qual è il valore giusto?

Un numero “giusto” per tutti non esiste. Dipende da quanti di questi crediti hanno una garanzia reale, dove questa garanzia reale è  localizzata (una casa a Roma contro un capannone a Vedelago),  e quanto prudente  è  stata la concessione del credito (pari a 50% o a 90% del valore dell’immobile). Spesso neppure le banche che hanno concesso il credito hanno disponibili queste informazioni, tanto meno i potenziali investitori. La mancanza di informazione paralizza il mercato, peggiorando la situazione. Sarebbe utile avere un punto di riferimento. Ma quale?

Molti giornalisti e politici usano come riferimento l’esperienza delle sofferenze del Banco di Napoli. A fine del 1996, queste sofferenze erano state isolate in una “bad bank” (chiamata SGA) che, al 31 dicembre del 2015, aveva recuperato quasi il 90% del costo a cui erano state acquistate. Dobbiamo quindi concludere che le valutazioni correnti sono eccessivamente pessimistiche?

Per rispondere a questa domanda ho cercato di ricostruire la storia delle sofferenze del Banco di Napoli, grazie ad un interessante libro di Mariarosa Marchesano (“Miracolo Bad Bank”) e ai bilanci della SGA gentilmente fornitimi dall’autrice. Innanzitutto, i debiti trasferiti dal Banco di Napoli alla bad bank erano stati già svalutati mediamente del 30%. In secondo luogo, non comprendevano solo sofferenze propriamente definite, ma anche debiti incagliati, debiti ristrutturati, e perfino partecipazioni azionarie in società controllate.

Se ci focalizziamo solo sulle sofferenze, dopo 20 anni è  stato recuperato il 90.1% del prezzo pagato, per un valore pari al 55.8% del credito iniziale. Ma questo non tiene conto di due fattori: le spese sostenute e il tempo passato. Ipotizzando che metà della spese di gestione della SGA siano dovute alle sofferenze (che rappresentano circa metà dei crediti trasferiti), si trova che se la SGA avesse pagato le sofferenze al 28% del valore nominale avrebbe ottenuto un rendimento del 6.4% nell’arco del ventennio. Questo sembrerebbe confermare le valutazioni di Atlante.

Ma questa stima ignora tre fattori. Il primo è  l’andamento del mercato immobiliare. Tra il 1997 e il 2008 i prezzi delle case (soprattutto in alcune città) sono aumentati enormemente. Difficile immaginarsi che questo possa accadere nei prossimi 10 anni. Secondo, questa stima non tiene conto della diversa politica del credito prevalente all’emissione di questi prestiti. Nei primi anni Novanta difficilmente un prestito raggiungeva il 50% del valore dell’immobile dato a garanzia. Negli anni recenti molte banche hanno prestato fino al 100%. Quindi – ceteris paribus – la percentuale di recupero per MPS  è  destinata ad essere inferiore a quella del Banco di Napoli.  Infine, nel 1997 l’inflazione e i tassi di rendimento erano molto più elevati di quelli di oggi. Non è  facile quantificare i primi due aspetti, ma  è  possibile farlo per il terzo. Se usiamo come premio per il rischio 500 punti base sopra i rendimenti dei titoli decennali del governo italiano, il valore atteso delle sofferenze del Banco di Napoli al 1 gennaio 1997 sarebbe stato pari a solo il 22% del nominale.  Una pessima notizia per Atlante.

Le maggiori sorprese vengono dalla storia dei recuperi sui debiti incagliati (che oggi in Italia rappresentano altri 160 miliardi). Ma per scoprirle, dovrete aspettare la rubrica della prossima settimana.

Qui di seguito i link ai precedenti articoli della Rubrica “Alla Luce del Sole”:

– Le Operazioni di Sistema sono Aiuti di Stato?
– Aguzzate la vista
L’azione di responsabilità è fondamentale per ricostruire la fiducia nelle banche Italiane
Deutsche Bank e Monte Paschi: similitudini e differenze
– Salvare le banche per far ripartire l’economia
– L’importanza di un Buon Piano di Successione e il Ruolo del Consiglio di Amministrazione 
Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia
– Cosa fare per evitare che il “decreto banche” diventi solo un regalo alle banche
– Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori
– Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi 
– Le Responsabilità della Consob sulle Obbligazioni Subordinate
– Gli stipendi degli AD e quei paracadute troppo grandi


Italy’s future seems to be hanging by a number: the value of banks’ non-performing loans (NPLs). If they are worth 45% of the original loan value, as reported in many banks’ balance sheets, Italian banks are solid, as the Government claims. If they are worth 28%, as assessed in Monte Paschi’s rescue package, some banks are likely to fail. If they are worth 17.6% (later adjusted to 22.4%), as determined in the liquidation of Banca Etruria and three other regional banks, then many banks are insolvent. The reason is that banks have non-performing loans on their balance sheets for at least 200 billion euro. So the difference between 22% and 45% corresponds to potential further losses of 46 billion euro. But what is the right value?

A “right” number for all NPLs does not exist. It depends on how many of these loans have collateral, where this collateral is located (a house in Rome versus a shed in Vedelago), and how prudent was the granting of the initial credit (up to 50% or 90% of the value of the property). Often not even the banks that granted the original credit have this information, let alone potential investors. This lack of information paralyzes the market, worsening the situation. It would be useful to have a reference point. But which?

Many journalists and politicians use as a reference the experience of Banco di Napoli’s NPLs. At the end of 1996, these NPLs were isolated in a “bad bank” (called SGA) that, as of December 31, 2015, had recovered almost 90% of the cost it paid to acquire them. We must therefore conclude that the current valuations are overly pessimistic?

To answer this question I have tried to reconstruct the history of the Banco di Napoli’s NPLs, thanks to an interesting book by Mariarosa Marchesano (“Miracle Bad Bank”) and the SGA’s financials kindly given to me by the author.
First, the debts transferred by Banco di Napoli to the bad bank had already been written off by an average of 30%. Second, not only did they include non-performing loans as properly defined, but also “unlikely to pay” loans, restructured debt, and even equity investments in subsidiaries.

If we focus only on the NPLs, after 20 years it was recovered 90.1% of the price paid, equal to 55.8% of the initial loan amount. But this does not take into account two factors: the costs incurred and the time spent. Assuming that half of the SGA operating expenses are due to the NPLs (which represent about half of the credits transferred), if SGA had paid the NPLs 28% of the face value, it would have earned a 6.4% return over the last twenty years. This number seems to confirm the Atlante Fund’s projections.

But the 6.4% return ignores three factors. The first is the performance of the real estate market. Between 1997 and 2008 the prices of houses (especially in some cities) have increased enormously. Hard to imagine that this could happen again in the next 10 years. Second, this estimate does not take into account the different credit policy prevailing when these loans were issued. In the early Nineties a loan hardly reached 50% of the value of the collateral. In recent years, many banks have lent up to 100%. Then – ceteris paribus – the recovery rate for MPS is bound to be lower than that of Banco di Napoli. Finally, in 1997, inflation and the rates of return were much higher than those of today. It is not easy to quantify the first two aspects, but we can do it for the third. If we use as a risk premium 500 basis points above the yield on ten-year bonds of the Italian Treasury, the expected value of the Banco Napoli’s NPLs at January 1, 1997 would have amounted to only 22% of the face value. Bad news for the Atlante fund.

The biggest surprise comes from the history of recoveries on the “unlikely to pay” debt (which in Italy today represents another 160 billion euro). But to find out, you’ll have to wait for my column next week.

Basta aspettare: il governo segua l’esempio USA e intervenga

Intervista a Eugenio Occorsio, pubblicata su “La Repubblica” il 4.08.2016

«La situazione è così drammatica che non è più possibile perder tempo con soluzioni tampone caso per caso. Si rischia di andare all’infinito, ogni mese si apre una crisi. Servono decisioni forti, rapide e decisive. È il momento di un intervento statale per salvare le banche».
Per Luigi Zingales, economista della University of Chicago, non bastano momentanei picchi di mercato: «Il problema è così vasto e profondo che va risolto in modo definitivo. A mali estremi, estremi rimedi».

Prima obiezione: Bruxelles?
«L’Europa blocca gli interventi selettivi, mirati, anticoncorrenziali. Qui va fatto un intervento di sistema, un’iniezione di capitale diffusa e massiccia in tutte le banche, anche quelle sane, che permetta di seppellire la questione delle sofferenze e riattivare il credito. I soldi potrebbero venire dal Fondo salva-Stati che intervenne in Spagna».

Con pesanti cessioni di sovranità, però.
«La sovranità l’abbiamo già persa visto che dobbiamo contrattare ogni minima misura. Ma l’Europa nasce dall’idea di cedere sovranità: ci diciamo europeisti o no?».


Ci vuole un aiuto pubblico per gli istituti in difficoltà.
Sarebbero necessari 40-50 miliardi. 


Di quali cifre parliamo?
«Di 40-50 miliardi. Se non possiamo contabilizzarli come debito, intervenga la Cdp che da tale perimetro è fuori. L’esperienza americana è di guida. Il fondo Tarp da 800 miliardi creato dal ministro Paulson nel 2008, dapprima cercò di intervenire sui mutui subprime, l’equivalente delle nostre sofferenze, ma presto capì che era impossibile perché, come le sofferenze, era inestricabile la giungla delle garanzie, delle situazioni, insomma non si capiva il valore anche se i titoli erano già stati cartolarizzati. A maggior ragione il problema c’è in Italia dove le cartolarizzazioni bisogna farle ora: fatica a nascere un mercato di questi titoli perché non è chiara la qualità delle garanzie dietro le sofferenze. Negli Usa, si decise di intervenire direttamente nel capitale delle banche. E fu la soluzione della crisi».

Quali le modalità d’intervento?
«Come in America si emettono delle “preferred shares”, diverse dalle nostre privilegiate, e si entra in proporzione nel capitale di tutte le banche. Le azioni recano una clausola di redimibilità a valore predefinito. Dopo un anno le banche sane ricomprano le “preferred” pagando gli interessi allo Stato, in quelle che non ce la fanno le azioni precedenti si azzerano e le “preferred” si trasformano in ordinarie. Questa sì che è un’operazione di mercato, la selezione la fa il mercato».

Una nazionalizzazione bella e buona?
«Un investimento statale importante, probabilmente senza precedenti, nel settore bancario. A quel punto le banche sono abbastanza forti da poter riassorbire in bilancio le sofferenze».

Niente più Atlante e simili?
«C’è un rischio in questi fondi perché subappaltano la riscossione dei crediti alle agenzie di recupero che spesso usano metodi odiosi, con pesanti conseguenze sul piano sociale e politico».

Salvare le banche per far ripartire l’economia

Testo dell’articolo pubblicato il 3.07.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”.

Mentre il governo festeggia lo scudo da 150 miliardi come una vittoria, i titoli bancari continuano a precipitare in Borsa. Nonostante un lavorio febbrile, il governo è riuscito a fare molto poco in questo campo. Perché? È solo colpa dell’Europa?

Nel settore bancario italiano esistono 360 miliardi di prestiti difficilmente esigibili (200 vere e proprie sofferenze, altri 160 di prestiti in difficoltà). La colpa di tanti cattivi prestiti in parte è dei 7 anni di recessione, in parte della incapacità (se non della collusione) dei banchieri. Una commissione d’inchiesta dovrebbe stabilire le relative responsabilità (e quelle di chi doveva supervisionare). Ma nel frattempo dobbiamo rimettere in sesto il sistema bancario, perché senza un sistema bancario funzionante imprese e famiglie non hanno credito e l’economia del nostro Paese non riparte. Risanare il sistema bancario è molto più importante della riforma dello Statuto dei Lavoratori, dei contributi fiscali, e della riforma costituzionale. È su questo che si gioca oggi la ripresa economica del Paese.

Non si tratta di risolvere dei momentanei problemi di liquidità (la BCE li risolve più che bene), né di evitare il fallimento di alcune banche. Si tratta di rimettere le banche in grado di effettuare prestiti. Oggi la maggior parte di esse non è in grado di effettuare nuovi prestiti, perché non ha il capitale per farlo. Né vuole aumentare il capitale, perché ai prezzi attuali diluirebbe pesantemente (o azzererebbe) gli azionisti esistenti. Conviene ai banchieri aspettare e sperare in un futuro migliore e/o in un aiuto statale.

Con le sue proposte il governo ha contribuito a tenere vive queste speranze. Dalla “bad bank” alle garanzie sulle sofferenze, dal fondo Atlante allo scudo appena approvato, gli interventi sono stati concepiti come sostegno alle banche, non come sostegno all’economia reale: ovvero sono stati mirati a far sopravvivere le banche, ma non a metterle nelle condizioni di ricominciare a fare prestiti ad imprese e famiglie.

Tutti dicono che è colpa dell’Europa. Sicuramente la nuova direttiva europea sulla risoluzione delle banche in dissesto impone dei vincoli, ma non impedisce interventi diretti dello Stato “per evitare o porre rimedio a una grave perturbazione dell’economia e preservare la stabilita finanziaria.” Tra i metodi di quest’aiuto si annoverano anche “la sottoscrizione di fondi propri o l’acquisto di strumenti di capitale,” purché le banche non siano insolventi. Questa secondo me è esattamente la situazione in cui si trovano le banche italiane: non insolventi, ma sufficientemente a rischio di insolvenza da essere paralizzate e non fare prestiti.

In questa situazione uno scudo disegnato per risolvere problemi di liquidità (e non di mancanza di capitale) non funziona. Anzi, così come è stato disegnato è addirittura controproducente. Il governo si è affrettato a dire che lo scudo non parte subito, ma sarà avviato solo a domanda delle banche in difficoltà. Ovviamente nessuna banca vorrà chiederlo per evitare lo stigma sul mercato. Nel frattempo si sa che ci sono banche in difficoltà (altrimenti perché creare lo scudo?), ma non quali. Per di più non c’è neppure la certezza che le banche ricorrano allo scudo in tempo, perché la paura dello stigma le indurrà a farlo all’ultimo momento possibile. L’unica cosa certa è che grazie allo scudo le banche non si rimetteranno a prestare.

Non sono un giurista, ma secondo me (e secondo tutti quelli cui ho chiesto anche a livello europeo) un intervento sul capitale tipo quello da me descritto sul Sole di mercoledì scorso è fattibile. L’unico dubbio è se possa essere fatto direttamente dallo Sato invocando la clausola dei problemi sistemici o attraverso la CdP, che è al di fuori del perimetro dello Stato. Se non avviene quindi non è per colpa dell’Europa, ma perché non piace alle banche e soprattutto ai banchieri, che vedrebbero azzerarsi il valore delle loro stock option, e alle fondazioni bancarie, che perderebbero la maggior parte del patrimonio. Le imprese e le famiglie ringraziano.

Qui di seguito i link ai precedenti articoli della Rubrica “Alla Luce del Sole”:

L’importanza di un Buon Piano di Successione e il Ruolo del Consiglio di Amministrazione 
Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia
Cosa fare per evitare che il “decreto banche” diventi solo un regalo alle banche
Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori
Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi 
Le Responsabilità della Consob sulle Obbligazioni Subordinate
Gli stipendi degli AD e quei paracadute troppo grandi

Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori

Testo dell’articolo pubblicato il 5.06.2016 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole” . A seguire, la lettera al giornale del dott. Salvatore Rossi – presidente dell’Ivass e direttore generale della Banca d’Italia – e la mia breve replica.
Qui, qui e qui i precedenti articoli della rubrica.


Se in tutte le società esiste il rischio di un conflitto d’interessi, nelle imprese assicurative questo rischio è massimo. Il management di una compagnia di assicurazione non gestisce solo le risorse dei soci, ma decide anche sull’allocazione dell’enorme massa di risparmio che appartiene a chi ha sottoscritto un fondo pensione il cui valore dipende interamente o in parte dalla performance degli investimenti. Se – per esempio – il management di un’assicurazione investe in un fondo di private equity di un amico con commissioni elevate ma una cattiva performance, il costo della cattiva performance viene pagato in parte dagli assicurati, mentre la gratitudine dell’amico va tutta al management.

Non a caso l’ex presidente di Generali, Cesare Geronzi, aveva definito la compagnia di Trieste  “la mucca dalle cento mammelle.” Parlava con cognizione di causa, visto che Giovanni Perissinotto, amministratore delegato dell’epoca, si vantava di aver usufruito delle riserve tecniche per il non felice investimento in Telecom Italia: un modo elegante per dire che a pagare (anche solo con un rendimento nullo) per le perdite di quell’investimento erano gli assicurati e non gli azionisti.

Proprio per evitare questi problemi, si stanno facendo sempre più stringenti le regole in materia di “investimenti e di attivi a copertura delle riserve tecniche”, ovvero le regole che le compagnie assicurative devono seguire nell’investire i soldi degli assicurati per evitare i conflitti di interesse di cui sopra. Per esempio, un regolamento del 2011 dell’ISVAP (il progenitore dell’attuale IVASS – Istituto di Vigilanza delle Assicurazioni) esclude i crediti deteriorati dalle attività in cui le assicurazioni possono investire le riserve tecniche.

Lo scorso anno l’autorità delle assicurazioni europee (EIOPA) ha emanato delle nuove linee guida in materia. Queste regole – messe in consultazione pubblica dall’IVASS – introducono una serie di importanti modifiche. Oltre al rafforzamento dei controlli interni, il nuovo regolamento prevede che gli investimenti debbano essere fatti in base al “principio della persona prudente”. In particolare le assicurazioni devono garantire la qualità, la liquidità e la redditività del portafoglio, anche attraverso “specifiche procedure di analisi prospettiche quantitative per i rischi derivanti da attivi complessi” con particolare riguardo a Fondi di Investimento Alternativi italiani e UE (art 18).

Le consultazioni pubbliche si sono chiuse il 15 di febbraio, ma l’IVASS non ha ancora emesso il regolamento finale.  Viene da chiedersi quale ruolo abbia giocato in questo ritardo l’esigenza di Banca d’Italia di convincere le compagnie di assicurazione ad investire le riserve tecniche degli assicurati nel fondo Atlante,  dedicato principalmente a comprare i crediti deteriorati del sistema. Nonostante l’IVASS sia teoricamente un’autorità amministrativa indipendente, è presieduta dal direttore generale della Banca d’Italia.

È difficile immaginare che l’investimento in Atlante rispetti il “principio della persona prudente.” È illiquido, altamente rischioso, e con un rendimento atteso dichiarato di solo il 6%: meno di un semplice indice azionario. Trattandosi di un fondo d’investimento alternativo, dovrebbe anche essere analizzato con “procedure di analisi prospettiche quantitative” e gli organi di gestione e controllo delle assicurazioni dovrebbero assumersi la responsabilità di questa scelta.

Perché allora tutte le principali assicurazioni italiane (ma non quelle estere) si sono affrettate a sottoscrivere il fondo Atlante? Perché l’IVASS, che dovrebbe proteggere gli assicurati, ha preventivamente eletto Atlante come strumento legittimo per gli investimenti delle riserve tecniche di Classe C, sollevando il management dalla responsabilità. Alla protezione dei consumatori, la Banca d’Italia sembra anteporre le esigenze di stabilità.  Affinché la protezione sia effettiva, tutte le funzioni di difesa del consumatore dovrebbero essere raggruppate in un organo separato, veramente indipendente.


Lettera del dott. Salvatore Rossi, presidente dell’Ivass e direttore generale della Banca d’Italia, pubblicata su “Il Sole 24 Ore” del 7.06.2016 

Caro Direttore, Le chiedo ospitalità per replicare all’articolo «Le assicurazioni e i consumatori da difendere con un’Authority» del Prof. Luigi Zingales, pubblicato sul Sole 24 Ore di domenica 5 giugno. Zingales, con garbo ma con la consueta severità, rimprovera all’Ivass, l’istituto di vigilanza sulle assicurazioni che presiedo pro tempore, alcuni recenti comportamenti. In particolare, egli si chiede come mai un certo regolamento di attuazione di una “linea guida” proposta dall’Eiopa (l’autorità europea in materia assicurativa e di fondi pensione), che l’Ivass ha già posto in consultazione pubblica, non sia stato ancora emanato. Trattandosi di norme che riguardano tra l’altro anche gli investimenti delle compagnie assicurative, il Prof. Zingales affaccia l’ipotesi che ciò dipenda da una malcelata volontà dell’Ivass di favorire il finanziamento del fondo Atlante.

Qualche precisazione è necessaria, nell’interesse di una più completa informazione dei lettori del Sole 24 Ore. Il tema può sembrare per addetti ai lavori, ma è rilevante per milioni di assicurati.

Il regolamento che si attendeva è stato approvato ieri dall’organo collegiale dell’Ivass. Si tratta di una coincidenza, non ci siamo affrettati per il pungolo, peraltro sempre benvenuto, del Prof. Zingales. Mi sarebbe in effetti piaciuto che questo regolamento fosse stato emanato prima e mi scuso per il ritardo, che ha però delle buone ragioni: le regole da definire erano molte e i numerosi commenti ricevuti nel corso della consultazione andavano attentamente vagliati. Siamo nel pieno di una rivoluzione normativa su scala europea (discendente dalla Direttiva Solvency II). L’Eiopa ha pubblicato circa 700 linee-guida su svariati temi di grande complessità. Per recepirle, l’Ivass ha dovuto finora preparare e mettere in consultazione 24 articolati regolamenti, alcuni ancora da emanare. Insomma eravamo, e ancora siamo, in un vero e proprio ingorgo regolamentare.

Ma veniamo al merito della questione sollevata da Luigi Zingales.

Intanto sgomberiamo il campo da un possibile equivoco: il “principio della persona prudente” (in tempi più maschilisti si sarebbe detto del buon padre di famiglia) che l’articolista invoca è, sì, fissato da Solvency II, ma va applicato all’intero portafoglio di investimenti di un’impresa assicurativa; l’Eiopa esplicitamente esclude che esso debba applicarsi a ogni singolo investimento in ogni sua declinazione ( sicurezza, qualità, liquidità, profittabilità), altrimenti la gestione finanziaria delle compagnie diverrebbe troppo rigida, a scapito degli stessi assicurati.

Atlante è, sotto il profilo della regolamentazione assicurativa, un “fondo di investimento alternativo” come tanti altri. Se una compagnia decide di acquistarne delle quote deve sottostare a particolari requisiti di capitale e di governance, incluse specifiche analisi quantitative, il cui rispetto è verificato dall’Ivass, come sempre in casi analoghi. In ogni caso quelle quote non possono essere incluse nelle polizze unit linked, in cui il rischio è in capo all’assicurato.

Nel regolamento appena emanato non vi è alcuna agevolazione pensata per Atlante. Per la verità, Atlante non c’entrava e non c’entra nulla con quel regolamento.

Un altro equivoco possibile è che l’ISVAP (istituto predecessore dell’Ivass) avesse vietato alle compagnie di investire in crediti bancari deteriorati, ma che questo divieto sia poi stato, o sarà, rimosso. Chiarisco che nulla cambia: era e resta vietato per le compagnie investire direttamente in crediti bancari deteriorati; era e resta consentito acquisire quote di veicoli speciali o di fondi che a loro volta investano in crediti bancari deteriorati. La ratio di questa seconda opzione è che il rischio sarebbe ripartito fra una pluralità di investitori, vi sarebbero presidi come una quotazione o un rating, le compagnie sarebbero comunque tenute al rispetto dei requisiti specifici prima menzionati.

Il Prof. Zingales conclude auspicando che la tutela del consumatore di servizi finanziari venga accentrata in un’autorità indipendente apposita. È naturalmente un’opinione legittima. Vi sono nel mondo alcuni importanti esempi di questo tipo di assetto istituzionale, anche se nella maggior parte dei paesi avanzati si ritrovano assetti più somiglianti al nostro. L’Ivass ha una lunga tradizione di tutela dei singoli assicurati. La Banca d’Italia ha fatto dal canto suo negli ultimi anni importanti investimenti in questo campo, a partire dall’Arbitro Bancario Finanziario. La tutela della stabilità del sistema finanziario è un interesse pubblico anch’esso fondamentale, perché è la prima difesa degli interessi dei risparmiatori. La storia di tutti i paesi ci insegna che casi di instabilità finanziaria grave si sono sempre pesantemente ripercossi sull’intera platea dei risparmiatori e degli acquirenti di servizi finanziari. Le due tutele vanno dunque perseguite entrambe, sono complementari l’una all’altra e si rafforzano a vicenda.


Mia breve replica alla lettera del dott. Salvatore Rossi, pubblicata su “Il Sole 24 Ore” del 7.06.2016 

Ringrazio molto il dott. Salvatore Rossi per le precisazioni e il giudizio di commentatore “garbato ma severo”. Rimango tuttavia preoccupato del fatto che il regolamento Ivass proibisca alle assicurazioni di investire in crediti deteriorati, ma non in fondi che investono in crediti deteriorati. Se così fosse, qualsiasi restrizione potrebbe essere aggirata pagando una commissione ad un gestore che rimpacchetta un’attività, rendendola legittima. Penso che sarebbe utile se l’Ivass intervenisse per chiarire e tranquillizzare i tanti consumatori che hanno affidato i loro sudati risparmi alle assicurazioni.

Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi

Testo dell’articolo scritto per la rubrica “Alla luce del Sole” e pubblicato il 22.05.2016 su “Il Sole 24 Ore” . Qui e qui i precedenti articoli della rubrica.

Tradizionalmente la gestione del rischio delle banche era una questione matematico-quantitativa. Dopo la crisi si è capito che dietro quelle formule ci sono degli esseri umani pensanti. Per questo per controllare il rischio non si parla più solo di beta, delta o vega, ma di etica, integrità, ed esempio che emana dai vertici, quello che gli inglesi chiamano il “tone at the top.” Questo nuovo trend internazionale, codificato in un rapporto del 2015 del Bank of International Settlement (Banca dei regolamenti internazionali, Bri), oggi sta diventando la norma.
Per la prima volta la Bri identifica come una cultura aziendale volta a «rafforzare le norme per un comportamento responsabile ed etico» sia una «componente fondamentale della buona corporate governance» delle banche. La responsabilità di coltivare questa cultura spetta al consiglio di amministrazione che deve «creare aspettative che tutte le attività siano condotte in modo legale ed etico, e vigilare sul rispetto di tali valori da parte dei dirigenti e dipendenti». Il consiglio deve anche «assicurarsi che i dipendenti, compresi i dirigenti, siano consapevoli del fatto che a comportamenti inaccettabili e trasgressioni faranno seguito le opportune azioni disciplinari o di altra natura».

Le autorità di vigilanza, a loro volta, devono «fornire una guida per la supervisione e la corporate governance nelle banche , anche attraverso valutazioni complete e una regolare interazione con il consiglio e gli alti dirigenti, e devono richiedere azioni correttive e di miglioramento quando necessario». In questo spirito, in Olanda la vigilanza bancaria sottopone i candidati ai consigli delle banche a dei test psicologici, per vedere la loro attitudine ad intervenire, anche quando questo implichi contraddire l’amministratore delegato.
Sono cambiamenti radicali che purtroppo arrivano troppo tardi per evitare i disastri bancari cui abbiamo assistito, ma non troppo tardi per evitare che si ripetano. Ma quali sono le implicazioni pratiche di queste direttive in Italia?

Innanzitutto che i nuovi consigli di amministrazione di Banca Popolare di Vicenza (Bpvi), MontePaschi, Carige, e Veneto Banca hanno non solo il diritto, ma anche il dovere di iniziare l’azione di responsabilità nei confronti del management precedente qualora ci sia anche il minimo estremo giuridico. Troppo spesso questa decisione viene presa seguendo un’analisi costi/benefici di brevissimo periodo. Siccome gli ex manager si affrettano ad intestare conti e proprietà a figli e parenti, il consiglio decide che non è nell’interesse economico della società iniziare l’azione di responsabilità perché il costo è superiore al potenziale beneficio monetario (in caso di vittoria, il colpevole non ha la capienza economica per pagare). Il rapporto della Bri, invece, implica che l’azione vada intrapresa per una questione di principio: per assicurarsi che i dirigenti siano consapevoli che a comportamenti inaccettabili faranno seguito le opportune sanzioni, non solo pecuniarie ma anche morali.

In secondo luogo, il rapporto ci dice che la supervisione della Banca centrale europea ha il diritto/dovere di intervenire chiedendo modifiche della composizione dei consigli di amministrazione e dei collegi sindacali delle banche con un passato controverso. Ad esempio non è possibile che metà del consiglio e l’intero collegio sindacale della Bpvi sia lo stesso che sotto la gestione Zonin. Come può fornire un esempio di integrità e correttezza al resto del personale della banca?

Per finire, c’è la capacità di intervento del fondo Atlante, gestito da Alessandro Penati. Per decenni, sulle pagine del Sole prima e del Corriere e Repubblica poi, Penati è stato un faro che ha illuminato il dibattito sulla corporate governance in Italia. Ora che ha il potere di migliorarla, nominando e revocando il consiglio e il collegio di Bpvi ed iniziando da socio l’azione di responsabilità contro i vertici precedenti, non può tirarsi indietro. A rischio non è solo la sua credibilità, ma quella di tutti noi accademici.