The Rising of Crony Capitalism in America (video)

Video of my lecture at the Eitan Berglas School of Economics, Tel Aviv University (TAU), March 19, 2017. The topic was: “The Rising of Crony Capitalism in America”.

Crisi Banche Popolari Venete: dov’era la Borghesia Produttiva? (intervista)

Secondo l’economista padovano Luigi Zingales, nella crisi delle banche popolari venete, una parte «della borghesia produttiva, se non collusa, ha guardato dall’altra parte mentre si consumava questo disastro» 

Ha più volte invocato una commissione d’inchiesta sul sistema bancario necessaria «per capire cosa non ha funzionato e per evitare di ripetere gli errori del passato». Una cosa, secondo l’economista padovano Luigi Zingales, è però già chiara. Nella crisi delle banche popolari venete «che ha avuto un impatto devastante sul sistema economico regionale», una parte «della borghesia produttiva di questa regione, se non collusa, ha guardato dall’altra parte mentre si consumava questo disastro».

Zingales, nello specifico cosa intende?
«Uso un paragone forte, avete presente il caso Spotlight? Il film basato sulla storia vera dei casi di pedofilia nell’arcidiocesi di Boston racconta bene come le colpe dello scandalo non siano rintracciabili solo all’interno della Chiesa cattolica ma anche in quella parte della società di Boston che sapeva ma ha preferito guardare dall’altra parte».

Tornando alle popolari, quindi, a una parte degli imprenditori che avevano legami o interessi in Veneto Banca e Popolare di Vicenza è convenuto far finta di nulla?
«La crisi delle due banche è risultata devastante ovviamente per l’impatto economico della stessa ma di più perché ha messo in crisi l’intero sistema di network regionale fondato su rapporti sociali oltre che economici. Relazioni fondamentali per la tenuta dello stesso sistema. Qualcuno, e non solo tra i vertici delle due popolari, ha chiuso gli occhi di fronte a questo disastro».

Lei, prima dei casi Veneto Banca e Bpvi, è stato molto critico nei confronti del capitalismo di relazione compreso quello veneto. Due facce della stessa medaglia?
«Ho criticato il capitalismo di relazione perché continua a investire i soldi, degli altri, nei progetti degli amici e non in quelli a più alta produttività. Dinamica in parte riscontrabile anche nei rapporti tra banche e imprese. È sacrosanto, ad esempio, chiedere di sapere chi sono i cento principali debitori del Monte dei Paschi che non hanno reso soldi avuti in prestito».

Da una parte il capitalismo di relazione dall’altra il capitalismo familiare, due asset che hanno garantito sviluppo e che ora sono un limite per il Nordest?
«In generale le imprese a conduzione familiare hanno una visione di più lungo periodo: se c’è il tuo cognome sul portone della fabbrica è evidente che ci tieni di più. Questo, in negativo, si è reso evidente anche nell’enorme tragedia dei suicidi tra gli imprenditori. In generale, quindi, il capitalismo familiare è un punto di forza. La debolezza emerge quando un figlio viene investito della conduzione a prescindere, senza una valutazione sulle attitudini e sulle capacità. Allo stesso modo quando si pensano di risolvere i problemi con le relazioni».

Il processo di digitalizzazione dell’economia, a partire dalla manifattura, può realmente rappresentare un’opportunità per le nostre imprese?
«La risposta è sì, ma bisogna tenere presente un elemento. L’impresa veneta è basta sull’informalità e sulla creatività, il digitale, invece, sulle regole. Questo può rappresentare un ostacolo nell’introduzione e nella capacità di sfruttare l’economia digitale come volano di competitività».

Secondo lei, a proposito di Industria 4.0, il piano messo a punto dal ministro Carlo Calenda può risultare efficace?
«Nell’aiuto alla transizione sì. Il piano del governo, però, pone molta enfasi sull’aiuto ma poca su cosa deve fare un’impresa per diventare 4.0. Se non c’è l’interesse delle aziende al cambiamento diventano soldi (aiuti) regalati».

Come vede l’alleanza tra gli atenei veneti sulla base della quale è arrivato il riconoscimento da parte del governo come centro di competenza nazionale?
«Che le università si siano messe insieme decidendo di collaborare è un fatto sicuramente positivo».

Quanto, invece, alle competenze che qui si sviluppano?
«Le facoltà scientifiche, penso a Padova ad esempio, hanno forti potenzialità in questo senso. Il problema, tornando all’Industry 4.0, è che per molto tempo si è cercato di separare il mondo dell’industria da quello dell’università. Per questa ragione competenze spesso sofisticate non risultato applicabili dall’industria».

Da tempo, però, si sta anche lavorando per fare in modo che i due mondi dialoghino con maggiore profitto. In modo sbagliato?
«Il collegamento tra industria locale e ricerca universitaria si realizza facendo in modo che l’università non abbia paura di aprire le porte dei suoi laboratori e che contemporaneamente l’impresa non pensi a questo rapporto come a un mezzo per ottenere una consulenza a basso prezzo».

Nello scacchiere della partita sulla competitività, che altra debolezza vede?
«Il radicalizzarsi di tensioni locali, tra Padova e Treviso o tra Padova e Venezia. Le sfide da vincere non sono in tale ambito ma questa è una consapevolezza che fa fatica a farsi strada».

Il ridimensionamento della vocazione manifatturiera del nostro territorio finirà per lasciare ai margini l’imprenditoria veneta?
«Io sono un grande sostenitore dei servizi. Bene, ovviamente, la manifattura ma allo stesso tempo è importante che si sviluppino servizi ad alto valore aggiunto. Penso a quelli tecnologici ma anche a quelli più tradizionali legati a elementi distintivi della regione come il turismo, la cultura, l’enogastronomia e l’artigianato».

Intervista a cura di Matteo Marian, pubblicata il 3.02.2017 sui Quotidiani Veneti del Gruppo L’Espresso


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Job Opening for Research Professional at the Stigler Center

In July 2015 I became director of the Stigler Center at the University of Chicago Booth School of Business.
The Center aims to promote and disseminate research on regulatory capture, crony capitalism, and the various distortions that special interest groups impose on capitalism.
If you are talented and passionate about these issues, consider applying for a position as a Research Professional for the next academic year. We accept applications from all over the world.

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Ma quando arriva la flessibilità del capitale? (pubblicato il 15 marzo 2015)

Articolo pubblicato il 15 Marzo 2015 su Il Sole 24 ore.
Della necessità della flessibilità del capitale ho scritto più volte. Nell’aprile 2016 l’ho inserita tra “I miei tre punti per l’Agenda per l’Italia“.

Negli anni Sessanta si pensava che lo sviluppo economico fosse legato interamente all’accumulazione del capitale. È questo il periodo della cattedrali nel deserto, dell’accumulazione forzata, dei sussidi al capitale.
Oggi sappiamo che l’accumulazione di capitale spiega meno del 20% della variazione del reddito pro capite tra Paesi e che, tranne per i paesi poveri (meno di $10,000 di reddito pro capite), non è difficile attrarre capitale dall’estero.

Negli anni Ottanta l’enfasi delle teorie economiche dello sviluppo si è spostato sul capitale umano. Questa enfasi si è tradotta in grandi sussidi alle Università. L’accumulazione di capitale umano, però, spiega solo il 30% della variazione del reddito pro capite tra Paesi. Cosa spiega il rimanente 50%? Come il capitale fisico e quello umano sono allocati all’interno di un Paese. Se imprese inefficienti hanno tanto capitale e imprese efficienti non riescono a raccoglierne abbastanza, la produttività media di un paese rimane bassa.


Il maggior problema dell’Italia non è la mancanza di flessibilità del lavoro, ma quella del capitale


Diventa quindi fondamentale la flessibilità di riallocare lavoro e capitale all’interno di un Paese. Finora tutta l’enfasi del dibattito italiano è stata sulla flessibilità del lavoro, da qui la lunga battaglia per l’abolizione dell’art 18. Ma è veramente così importante? Ho avuto la fortuna di vedere presentato ad Harvard un articolo* non ancora uscito che mette in dubbio questo assunto. Guardando alla riallocazione del lavoro e del capitale nei principali paesi europei durante la crisi, questo lavoro dimostra che il maggior problema dell’Italia non è la mancanza di flessibilità del lavoro, ma quella del capitale.

Come possiamo aumentarla? Purtroppo non è così semplice (almeno da un punto di vista tecnico) come abolire l’articolo 18. Per aumentare la flessibilità del capitale è necessario facilitare la riallocazione del credito, la riallocazone del capitale di rischio, la riallocazione del controllo e soprattutto l’uscita delle imprese inefficienti.

Molto del nostro credito è controllato (direttamente o indirettamente) da cooperative e fondazioni. Entrambe queste strutture di governance favoriscono l’erogazione del credito agli operatori esistenti sul territorio (soci delle cooperative o notabili legati alle fondazioni) a scapito dei nuovi entranti e di imprese “straniere” (che spesso in Italia significa anche solo della provincia limitrofa). In questo senso la riforma delle popolari e quella delle fondazioni (seppur troppo timida) vanno nella direzione giusta di aumentare la flessibilità nella erogazione del credito.

Per favorire gli investimenti azionari nelle imprese a maggior produttività non basta invocare solo il venture capital (che comunque rimane fondamentale), bisogna sradicare il capitalismo di relazione che continua ad investire i soldi (degli altri) nei progetti degli amici e non in quelli a più alta produttività. Il salvataggio di Alitalia non solo è costata carissimo agli azionisti di Banca Intesa, ai contribuenti, e ai consumatori. È stato anche un pesante freno alla produttività del Paese. Per facilitare la riallocazione volontaria del controllo è necessario ridurre i benefici privati del controllo e rendere più difficile la separazione tra proprietà azionaria e controllo azionario, riducendo le piramidi.

Una Consob più efficiente e competente aiuta a ridurre i benefici del controllo. Per questo trovo di auspicio il bando pubblico per i due commissari Consob aggiuntivi deciso dal Consiglio dei Ministri. È un segnale di una trasformazione in senso meritocratico della Consob. Ma la nuova legge sulle loyalty shares va in direzione opposta. Se vuole ridurre l’ingessamento del controllo il governo dovrebbe introdurre una tassa sulle piramidi, assoggettando a tassazione i dividendi intersocietari.
Per permettere l’uscita rapida di imprese inefficienti, bisognerebbe riformare la legge sulla bancarotta. La responsabilità limitata è fondamentale per promuovere l’imprenditorialità e l’assunzione del rischio. In Italia però non c’è vera responsabilità limitata. Oggi la bancarotta è l’unica situazione in cui si fa causa agli amministratori. Pertanto la si cerca di evitare a tutti i costi, anche quando l’impresa non ha futuro. Se fosse più facile far causa al di fuori della bancarotta e non così facile come oggi farlo in bancarotta, la decisione di uscita non sarebbe così ritardata da fattori legali. È solo evitando di tenere in vita imprese morenti che si crea spazio per le nuove. Ed è solo con nuove imprese e nuovi i imprenditori che si diffondono le nuove tecnologie e ed aumenta la produttività.

Se vogliamo che la ripresa nascente non sia solo un’effimera fiammata, ma uno sviluppo duraturo dobbiamo stimolare la crescita della produttività. Non c’e’ modo migliore per farlo che stimolare la flessibilità del fattore capitale. Dopo aver eliminato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è giunto il momento di eliminare anche l’”articolo 18” degli imprenditori.


* Link all’articolo cui si fa riferimento: Capital Allocation and Productivity in South Europe

Raghuram Rajan: perché lo attaccano, perché deve restare

Articolo pubblicato l’11.06.2016 su “Il Sole 24 Ore”.
You can find the article’s English translation in the blog promarket.org

In qualsiasi Paese al mondo, un banchiere centrale che in soli tre anni sia riuscito a ridurre l’inflazione dall’11% al 5%, al tempo stesso permettendo un aumento della crescita dal 5% all’8%, avrebbe garantita la riconferma. Non in India. Il governatore della Banca centrale indiana Raghuram Rajan, ammirato da tutti i media internazionali, è sotto pesante attacco nel suo Paese.

Io sarò anche prevenuto positivamente (Rajan è stato a lungo mio collega e co-autore), ma gli attacchi contro di lui sono assurdi. Viene accusato di non essere «mentalmente un indiano a pieno titolo» nonostante sia nato e cresciuto in India e a tutt’oggi abbia solo il passaporto indiano. Il motivo? Avendo lavorato per molti anni negli Stati Uniti, possiede il permesso di lavoro in America. Rajan viene anche accusato di appartenere al gruppo dei 30, che si occuperebbe «di difendere la posizione dominante degli Stati Uniti nell’economia globale» e di fare gli interessi della finanza internazionale. Proprio lui che nel 2005 aveva denunciato, di fronte ad un inviperito Alan Greenspan, allora chairman uscente della Federal Reserve, i potenziali effetti destabilizzanti dei derivati finanziari.

A peggiorare la situazione, ad accusarlo è Subramanian Swamy, dottorato in economia ad Harvard, ex ministro del Commercio, uno degli architetti del piano di liberalizzazioni realizzato in India ad inizio anni 90. Swamy lo accusa di aver tenuto troppo alti i tassi di interesse e, così facendo, aver «strangolato la piccole e medie imprese» e distrutto l’agricoltura.

Rajan sta combattendo non solo contro l’inflazione, ma anche contro l’inefficienza del sistema bancario, oberato dai crediti in sofferenza.

Perché cotanta rabbia? Col suo operato Rajan sta combattendo non solo contro l’inflazione, ma anche contro l’inefficienza del sistema bancario, oberato dai crediti in sofferenza. Il sistema bancario indiano è principalmente in mano pubblica ed è stato usato per finanziare quel capitalismo di relazione che per troppi anni ha imbrigliato il Paese. Finora le banche indiane erano vissute nell’illusione che tutti i debitori avrebbero prima o poi pagato, anche quando i debitori spesso prendevano a prestito da una banca per pagarne un’altra.

Come governatore Rajan ha giustamente deciso di forzare le banche a rientrare dai loro prestiti più dubbi, anche a costo di far emergere gravi sofferenze. Dal punto di vista economico è il momento migliore. Con un Paese che cresce all’8%, queste perdite possono essere facilmente assorbite dal sistema bancario. Se Rajan avesse fatto come la maggior parte dei banchieri centrali e avesse chiuso gli occhi, il problema si sarebbe posto solo in un momento di crisi economica, quando il meccanismo di «extend and pretend» (concedi un’estensione del credito e fai finta che il debitore sia solvente) diventa impossibile. Ma nei momenti di crisi, queste perdite rischiano di far crollare il sistema bancario (vedi caso italiano) e quindi l’intera economia viene paralizzata. Abbiamo visto il Giappone che, dopo la bolla di fine anni 80, ha impiegato quasi due decenni per liberarsi dalle sofferenze bancarie e risente ancora oggi delle conseguenze economiche di quella crisi.

Sono gli oligarchi indiani che avevano goduto del
credito facile, ad alimentare il dissenso.

Per quanto giusta, questa politica ha prodotto dei danni collaterali: i corsi azionari delle banche ne hanno risentito e ancora di più ne hanno risentito quegli oligarchi indiani che avevano goduto del credito facile. Sono loro ad alimentare il dissenso, anche perché Rajan ha avuto il coraggio di criticare pubblicamente i comportamenti di alcuni di loro.

In gennaio, proprio da Davos, Rajan ha rimproverato Vijay Mallya, proprietario della fallita compagnia aerea Kingfisher, che aveva festeggiato in maniera sontuosa il suo 60° compleanno, nonostante avesse debiti in sofferenza per 922 milioni di euro con 17 banche. «Se uno è in difficoltà finanziaria – ha dichiarato Rajan – dovrebbe ridurre le spese». E affinché non ci fossero dubbi sulle sue intenzioni, Rajan ha aggiunto: «Il sistema è distorto a favore di chi ha la capacità di difendersi in giudizio. La strategia di voi (grandi) imprenditori è di prendervi i profitti negli anni buoni per poi, negli anni cattivi, andare dalle banche e domandare una riduzione del debito».

Rajan rappresenta il sogno della nuova India: giovane, competente, è arrivato al vertice della Banca centrale indiana perché bravo, non perché politicamente allineato.

Nonostante gli attacchi, l’opinione pubblica è fortemente dalla parte di Rajan. Fino ad oggi il rinnovo al vertice della banca centrale era stato un argomento che interessava solo pochi insider, perché il governatorato era stato affidato a grigi burocrati che non avevano lasciato traccia. Rajan, invece, rappresenta il sogno della nuova India: giovane, competente, è arrivato al vertice della Banca centrale indiana perché bravo, non perché politicamente allineato. Da banchiere centrale non si è limitato a parlare di tassi di interesse e inflazione, ma si è occupato anche di corruzione e istruzione. Non a caso un sondaggio tra i lettori del principale giornale economico indiano ha riportato che l’87% vorrebbe la sua riconferma.

Entro fine agosto, il primo ministro indiano Narendra Modi dovrà decidere se riconfermarlo. Questa decisione è la cartina di tornasole del cambiamento in India. Da un lato l’India giovane, competente e meritocratica, che sta conquistando il mondo con il suo software ed i suoi prodotti, dall’altro l’India delle grandi dinastie politiche ed economiche, che hanno fondato il loro potere sulle connessioni politiche se non addirittura sulla corruzione, e che usano un falso senso di identità nazionale per proteggere il proprio potere in declino. A Modi la scelta.

Se la Banca Regionale è come Spotlight…

Articolo pubblicato su L’Espresso

Nel film da Oscar si dice che il silenzio connivente ha permesso gli abusi sui ragazzi.
Lo stesso  è successo con gli scandali degli istituti di credito.

La crisi delle banche regionali, da Banca Etruria a Cassa di Ferrara, da Veneto Banca a Banca Popolare di Vicenza è più che una crisi bancaria, è la crisi di un modello di sviluppo, basato su un localismo spinto, che spesso degenera in collusione. Nelle banche locali il prestito “agli amici”, non è una deformazione, ma la stessa ragione d’essere. E fintantoché gli amici sono meritevoli di credito, questo modello presenta degli evidenti vantaggi. Quando l’imprenditore è persona conosciuta dalla cerchia degli amici, non c’è bisogno di sofisticate valutazioni sull’affidabilità, né sono così importanti le garanzie: la sanzione sociale è sufficiente a garantire i crediti, come ha dimostrato il premio Nobel Mohammed Yunus con la Grameen Bank.

Questo modello funziona bene a tre condizioni: una dimensione limitata della banca, che permette a tutti i soci di controllare l’operato degli amministratori; un forte senso etico, che riduce il rischio di abusi, e uno sviluppo organico del territorio, che offre opportunità di sviluppo a tutti i soci, rendendo meno importante la capacità di negare il credito a chi non se lo merita, il vero tallone d’Achille delle banche che intrecciano amicizia e credito.

Queste condizioni erano per lo più presenti dagli anni Cinquanta a metà degli anni Novanta. Le aggregazioni bancarie di metà anni Novanta hanno aumentato la dimensione di molte di queste banche regionali, rendendone più difficile la governance. Nel frattempo, l’immissione sul mercato europeo di merci cinesi a prezzi molto ridotti ha prodotto un cambiamento strutturale del modello di sviluppo. Non bastava più produrre a bassi costi, bisognava innovare e differenziare. Se alcune imprese lo hanno capito e ne hanno approfittato, molte altre no. Le banche avrebbero dovuto concedere i prestiti agli uni, ma non agli altri. Una selezione non facile quando gli imprenditori senza futuro siedono nei consigli di amministrazione delle banche regionali o sono legati con rapporti di amicizia e di affari con gli amministratori stessi. Questo cambiamento economico rendeva necessario un maggior rigore nel decidere a chi concedere i prestiti e a chi no, rigore di cui le banche regionali sono strutturalmente carenti. In quegli anni il passaggio dalla generazione che aveva fatto la Resistenza a quella successiva aveva prodotto anche un calo della tensione etica, proprio nel momento in cui ce ne sarebbe stato maggiormente bisogno. Senza questo spirito etico l’amicizia si trasforma facilmente in collusione, o almeno in silenzio connivente, silenzio che vede colpevoli non solo il fior fiore dell’imprenditoria locale, ma anche le maggiori istituzioni nazionali.

Nel film “Il caso Spotlight”, vincitore del premio Oscar di quest’anno, si dice che se ci vuole un villaggio per crescere un fanciullo, ci vuole anche un villaggio per violentarne uno. È il riferimento al silenzio connivente, non solo della Chiesa Cattolica, ma di tutto l’establishment bostoniano di fronte alle notizie di abusi di bambini effettuati da preti pedofili.

Lo stesso vale per molte di queste banche regionali. Vicenza si sente violentata dalla crisi della sua Banca Popolare (BPVi). Gli azionisti, che hanno già perso il 90 per cento del loro investimento, ora temono di veder azzerato l’intero investimento. Le imprese faticano a finanziarsi. I depositanti non si sentono più al sicuro.

La colpa di questo sfregio non è solo del padre padrone della banca Gianni Zonin, che l’ha presieduta per più di 20 anni, ma di tutti coloro che hanno avallato, anche solo con il silenzio, la sua gestione. A cominciare dal perito, dal collegio sindacale e dalla società di revisione, che quella valutazione di 62 euro hanno certificato. Per finire alla Banca d’Italia, che avrebbe dovuto vigilare sulla BPVi, e alla Consob, che ogni volta che la BPVi ha raccolto capitale, non ha imposto la massima trasparenza sul metodo con cui le valutazioni sono state ottenute. Moralmente sono tutti corresponsabili di questa crisi.

In “Spotlight” è la rottura di questo silenzio connivente che permette l’esposizione del problema in tutta la sua grandezza, forzando la stessa Chiesa Cattolica a un cambiamento. Anche Vicenza ha bisogno di questa operazione di pulizia. Finora, però, tutti sembrano voler coprire e andare avanti.

Exciting job openings at the Stigler Center

Last July I became director of the Stigler Center at the University of Chicago.
My goal is to refocus the center towards the promotion and diffusion of research on regulatory capture and the various distortions that special interest groups imposed on capitalism.

We are currently working on refining the plan and assembling the team. It is a challenging and exciting task. The themes of our research are the focus of debate in the US and in the world. 2016, with the presidential election, promises to be a particularly exciting year. We plan to monitor the election in a very original way.
A lot of exciting work is ahead of us, thus if you are talented and passionate about these issues, consider applying for a position as a research professional at the Stigler Center. We accept applications from all over the world.
For more information and the formal application, go here.

My conversation with Tyler Cowen

I never experienced an interviewer who knew more about my work than myself. This is what happened with Tyler Cowen.
Behind his performance there is an enormous amount of work, but he makes it all appear effortless.

Non mi era mai capitato di essere intervistato da qualcuno che conoscesse il mio lavoro più di me. È successo con Tyler Cowen.
Dietro la sua perfomance c’è un’enorme quantità di lavoro, ma lui fa in modo che tutto sembri facile. 

Four years ago we dodged the Trump bullet. What about now? / Quattro anni fa siamo scampati a Trump. E stavolta?

Four years ago we dodged the bullet, this time around we are not that lucky. Trump is running for president, together with Clinton II and Bush III. Political dynasties are typical of developing and corrupt economies like India, Pakistan, Argentina, and Greece; so are corporate tycoons turned into politicians (Italy and Thailand). The United States seems to enter as a honorary member this lovely group. Crony capitalism is alive and well. This is what I wrote four years ago. The situation has only deteriorated since.

Quattro anni fa l’abbiamo scampata. Sembra che stavolta non saremo così fortunati. Trump ha annunciato che correrà per la presidenza, insieme a Clinton II e Bush III. Le dinastie politiche sono tipiche di economie non compiutamente sviluppate e ad alto tasso di corruzione come India, Pakistan, Argentina e Grecia. Lo stesso dicasi dei magnati che diventano politici (Italia e Thailandia). Gli Stati Uniti sembrano avviati a diventare membri onorari di questo delizioso gruppetto. Il capitalismo clientelare è vivo e vegeto. Qui di seguito un articolo scritto nel 2011 su City Journal. Da allora la situazione è solo peggiorata.

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Americans – and Republicans – are lucky that the Donald has bowed out.
May 19, 2011

Donald Trump’s announcement that he will not run in the Republican presidential primaries after all is great news for the Republican Party and for the country. The only thing more frightening than Trump’s running for president would be Trump’s getting elected president. From a party perspective, while losing an election is bad, winning one with the wrong candidate for the party and for the country is worse. I know something about this: I come from Italy, a country that has elected as prime minister the Trumplike Silvio Berlusconi.
Trump and Berlusconi are remarkably alike. They are both billionaire businessmen who claim that the government should be run like a business. They are both gifted salesmen, able to appeal to the emotions of their fellow citizens. They are both obsessed with their looks, with their hair (or what remains of it), and with sexy women. Their gross manners make them popular, perhaps because people think that if these guys could become billionaires, anyone could. Most important is that both Trump and Berlusconi made their initial fortunes in real estate, an industry where connections and corruption often matter as much as, or more than, talent and hard work. Indeed, while both pretend to stand for free markets, what they really believe in is what most of us would label crony capitalism.
Berlusconi’s policies have been devastating to Italy. He has been prime minister for eight of the last ten years, during which time the Italian per-capita GDP has dropped 4 percent, the debt-to-GDP ratio has increased from 109 percent to 120 percent, and taxes have increased from 41.2 percent to 43.4 percent. Italy’s score in the Heritage Foundation’s Index of Economic Freedom has dropped from 63 to 60.3, and in the World Economic Forum Index of Competitiveness from 4.9 to 4.37. Berlusconi’s tenure has also been devastating for free-market ideas, which now are identified with corruption.
How can such a pro-business prime minister wreak havoc on the economy and on the idea of free markets? Because “pro-business” doesn’t necessarily mean “pro-market.” While the two agendas sometimes coincide—as in the case of protecting property rights—they’re often at odds. Market competition threatens established firms, which often use their political muscle to restrict new entries into their industry, strengthening their positions but putting customers at a disadvantage. A pro-market strategy, by contrast, aims to encourage the best business conditions for everyone. That’s in fact the opposite of what a real-estate tycoon wants: to keep competitors out and enhance the value of his own properties. By capturing (or more precisely, purchasing) the free-market flag in the same way one might acquire a business brand, Berlusconi likely has destroyed the appeal of the free-market ideal in Italy for a generation.
How, then, did Berlusconi get elected and reelected? He created an unlikely coalition between the business elite, which supports him for fear of the alternative, and the poor, who identify with him because he appeals to their aspirations. In a country where corruption and lack of meritocracy has all but killed the hope of intra-generational mobility, citizens chose to escape from reality and find consolation in dreams. Berlusconi adeptly fosters the illusion that he can turn everyone else into billionaires. His political career is something like Trump’s Apprentice program, only on a national scale.
Unfortunately, some of the same factors that sparked Berlusconi’s success in Italy have begun to show up in the United States. Social mobility has dropped. Income for 95 percent of the population has stagnated. The financial crisis has uncovered a dangerous connection between government and the financial establishment. Losing hope that they can rise from rags to riches the old-fashioned way, Americans are taking refuge in fantasy, from American Idol to The Apprentice. In such a climate, Donald Trump, whose own career has exemplified crony capitalism—from government subsidies for his developments to abuse of eminent domain—could have potentially won not just the GOP nomination, but even the presidency. That would have been a catastrophe for the Republican Party, for free-market capitalism, and for America.

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Americani – e repubblicani – sono fortunati che Donald abbia rinunciato a correre
19 Maggio 2011

L’annuncio di Donald Trump che non parteciperà alle primarie presidenziali è una grande notizia per il partito repubblicano e per il Paese. L’unica cosa più spaventosa della candidatura di Trump alla Casa Bianca sarebbe stata solo la sua elezione a Presidente. Dal punto di vista del partito repubblicano, se perdere un’elezione è negativo, vincere con il candidato sbagliato è pure peggio. Ne so qualcosa: provengo dall’Italia, il Paese che ha eletto primo ministro la versione locale di Trump, Silvio Berlusconi.
Trump e Berlusconi hanno molto in comune. Sono entrambi uomini d’affari miliardari che sostengono che il governo dovrebbe essere gestito come un business. Sono entrambi grandi venditori, capaci di smuovere le emozioni dei loro connazionali. Sono entrambi ossessionati dal look, dai loro capelli (o quel che ne resta), e dalle donne sexy. I loro modi un po’ rozzi li rendono popolari, forse perché la gente pensa che se sono diventati miliardari loro potrebbe riuscirci chiunque. Ma più di tutto, sia Trump che Berlusconi hanno iniziato a fare fortuna nel settore immobiliare, un settore in cui le relazioni e la corruzione spesso contano quanto e forse più del talento e del duro lavoro. Infatti, pur dichiarandosi entrambi a favore del libero mercato, ciò in cui davvero credono è ciò che la maggior parte di noi bollerebbe come capitalismo clientelare.
La politica di Berlusconi è stata devastante per l’Italia. È stato primo ministro per otto degli ultimi dieci anni, durante i quali il PIL italiano pro capite è sceso del 4 per cento, il rapporto debito-PIL è aumentato dal 109 per cento al 120 per cento e le tasse sono aumentate dal 41,2 per cento al 43,4 per cento. Il punteggio dell’Italia nell’Indice della Heritage Foundation of Economic Freedom è sceso da 63 a 60,3 e l’Indice di competitività del World Economic Forum dal 4,9 al 4,37. Il mandato berlusconiano è stato devastante anche per le idee liberiste, che ora si identificano con la corruzione.
Come può un primo ministro così pro-business devastare l’economia e l’idea di libero mercato? Perché “pro-business” non significa necessariamente “pro-market”. Talvolta sì, come nel caso della tutela del diritto di proprietà, ma spesso no. La concorrenza del mercato minaccia le imprese esistenti, che spesso usano la loro forza politica per limitare l’ingresso di nuove aziende nel loro settore, rafforzando così le loro posizioni a tutto svantaggio dei clienti. Una strategia “pro-market”, invece, mira a creare le migliori condizioni di lavoro per tutti. Ma questo è l’esatto contrario di ciò che un magnate immobiliare vuole: tenere fuori i concorrenti e migliorare il valore delle sue proprietà. Facendo propria (o, più precisamente, comprando) la bandiera del libero mercato allo stesso modo in cui si acquisisce un marchio aziendale, Berlusconi ha probabilmente distrutto il fascino degli ideali del libero mercato in Italia per una generazione.
Ma allora come è riuscito, Berlusconi, a farsi eleggere e rieleggere? Ha creato una improbabile coalizione tra l’élite economica, che lo appoggia per timore dell’alternativa, e i poveri, che si identificano con lui perché riesce a toccarli nelle loro aspirazioni. In un Paese dove imperano corruzione e mancanza di meritocrazia ed è stata uccisa la speranza di mobilità intra-generazionale, i cittadini hanno scelto di fuggire dalla realtà e trovare consolazione nei sogni. Berlusconi incoraggia abilmente l’illusione di poter trasformare tutti gli altri in miliardari. La sua carriera politica è qualcosa di molto simile al programma “The Apprentice” di Trump, solo su scala nazionale.
Purtroppo, alcuni degli stessi fattori che hanno innescato il successo di Berlusconi in Italia hanno iniziato a presentarsi negli Stati Uniti. La mobilità sociale è scesa. Per il 95 per cento della popolazione il reddito è fermo. La crisi finanziaria ha disvelato una relazione pericolosa tra il governo e l’establishment finanziario. Perdendo la speranza di poter realizzare il “sogno americano” dell’ascensione sociale possibile a tutti, gli americani stanno rifugiandosi nella fantasia, da “American Idol” a “The Apprentice”. In un tale clima, Donald Trump, la cui carriera è un classico esempio di capitalismo clientelare – dai sussidi governativi per i suoi sviluppi all’abuso di espropriazione per pubblica utilità – avrebbe potuto ottenere non solo la nomination repubblicana, ma la stessa presidenza. Sarebbe stata una catastrofe per il partito repubblicano, per il capitalismo pro-market e per l’America.

Una piccola vittoria contro il capitalismo clientelare, un grande segnale di speranza

Non ho ancora avuto il tempo di commentare adeguatamente il successo della petizione al governo contro la proroga del quorum ridotto per l’introduzione del voto plurimo nelle società quotate. Bisogna dare atto al Governo di essere intervenuto tempestivamente ed in modo chiaro, riaffermando l’importanza della certezza del diritto, un principio fondamentale nel mercato internazionale dei capitali, troppo spesso dimenticato in Italia.

Uno dei sottoscrittori dell’appello, lo spagnolo Jesus Alfaro, l’ha definita una piccola vittoria contro il capitalismo clientelare. E tale è.
Esistevano forti pressioni per estendere il quorum ridotto e permettere ai capitalisti senza capitali di accrescere a costo zero il loro controllo. Almeno questo rischio è per il momento sventato. Ma non illudiamoci. Torneranno all’attacco, cercando di modificare in altro modo le regole a loro vantaggio.
Se non dobbiamo illuderci che questa piccola vittoria sia molto di più che un temporaneo contenimento del potere tentacolare del capitalismo clientelare, non dobbiamo neppure ignorare il segnale di speranza che ci offre. Troppo spesso gli appelli vengono visti come un esercizio retorico, con poche conseguenze pratiche. Quando sono mirati ad un obiettivo ben preciso, però, possono avere un impatto. Servono a portare alla ribalta temi che altrimenti sarebbero relegati a brevi comunicati delle sole agenzie specializzate. E come diceva il giudice della Corte Suprema americana Louis Brandeis (un crociato contro il capitalismo clientelare americano del primo Novecento): “la luce del sole è il miglior disinfettante”.

Con la speranza, però, viene anche una responsabilità. Quando i nostri piccoli sforzi per migliorare la cosa pubblica risultano vani, è facile farsi prendere dalla rassegnazione. Tanto tutto rimane come prima.
Non capiamo che la rassegnazione dei cittadini è l’arma vincente dei potenti. È grazie alla nostra rassegnazione, che il capitalismo clientelare e la corruzione possono prosperare. “Qui assiste au crime assiste le crime” (chi assiste passivamente ad un crimine, ne diventa complice), diceva Victor Hugo. Non diventiamo complici!

Last but not least, vorrei ringraziare Karina Litvack e Luca Enriques, che con me hanno lanciato questa campagna. Non è solo un modo di dire che nulla sarebbe stato fatto senza il loro aiuto. Hanno portato avanti questa battaglia con determinazione, dedicandovi un’enorme quantità di tempo. L’Italia tutta deve essere loro grata.

La democrazia secondo Bruxelles

Nel suo ultimo editoriale da Direttore dell’Economist, John Micklethwait lancia una battaglia contro il capitalismo clientelare (crony capitalism), visto come uno dei problemi centrali del XXI secolo.

Poi scrive anche:

“Il solo modo per essere ottimisti sulla democrazia americana è compararla a quella di Bruxelles. Deplorevolmente irresponsabile e inefficace, l’Unione europea è spesso tenuta insieme solo dalla donna che è in qualche modo riuscita ad essere contemporaneamente sia il più grande leader occidentale sia quello più titubante: Angela Merkel. Ma a che scopo? La pressoché permanente crisi dell’euro si è rivelata una classica dimostrazione di disorganizzazione nei processi decisionali, che consistono per lo più nel prendere tempo e rimandare le decisioni”.
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Solo chi sta fuori dell’area euro riesce a vederne con chiarezza i problemi. Chi sta dentro pensa di poterli risolvere solo negoziando un po’ più di flessibilità. (LZ)