Crisi bancarie, chi non impara dalla storia le ripete

Testo dell’articolo pubblicato il 28.08.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”. 

Si è scritto moltissimo sulla crisi bancaria che affligge l’Italia, ma molto meno sulle sue cause. L’esplosione dei crediti deteriorati è dovuta alla recessione che ha colpito il nostro Paese o alla cattiva politica del credito dei nostri banchieri? Entrambe queste ipotesi hanno un elemento di verità. La crisi economica è una condizione necessaria perché le inefficienze (o frodi) vengano a galla (perfino Madoff andava bene durante l’espansione economica). Ma da sola la crisi non è sufficiente a spiegare tutte le perdite sui crediti: il Portogallo che ha subito una crisi economica simile alla nostra ha sofferenze pari a solo il 12% dei prestiti, contro il nostro 18%.
Rispondere a questo quesito non è solo un esercizio intellettuale: serve a disegnare la soluzione. Se è solo colpa della crisi economica, una ricapitalizzazione delle banche è sufficiente. Se invece inefficienze e/o frode hanno giocato un ruolo importante, ricapitalizzare senza riformare vuol dire buttare via una valanga di soldi. È possibile separare le due cause?

La risposta è affermativa. Per dimostrare come sia possibile farlo ricorrerò ancora all’esempio del Banco di Napoli. Anche in quel caso c’era (e c’è ancora) un dibattito se il fallimento fosse dovuto all’interruzione dei sussidi della Cassa del Mezzogiorno o alla politica del credito di Ferdinando Ventriglia, che aveva gestito il Banco per più di dieci anni.

Il vantaggio di analizzare il Banco di Napoli è che abbiamo la quantità delle sofferenze recuperate dopo 20 anni e anche i costi legali pagati per recuperale. Se le perdite derivano da prestiti ad imprese solide che sono state vittima di una recessione, ci aspettiamo che la maggior parte del credito venga recuperato. Se invece i prestiti sono stati concessi in modo clientelare, è ragionevole aspettarsi maggiori perdite.

I dati del Banco di Napoli evidenziano una dicotomia. Se guardiamo ai piccoli prestiti (sotto i 155 mila euro) il recupero è stato straordinario: 94% del valore nominale e 138% del prezzo pagato, anche se le spese legali sono state molto elevate (9,4% del valore nominale). Questi dati fanno pensare ad una crisi di liquidità dei debitori (probabilmente dovuta alla fine improvvisa della Cassa del Mezzogiorno) più che una cattiva politica del credito. Ma questi prestiti rappresentano solo il 13% dei crediti deteriorati. Il 52% è rappresentato da crediti di valore superiore ai €2,5 milioni, per i quali – dopo 20 anni – solo il 60% del valore iniziale è stato recuperato. Il buco del Banco di Napoli, quindi, è stato causato principalmente dai grandi prestiti.

Se poi guardiamo all’identità di questi grandi creditori, si capisce come la causa principale dell’insolvenza del Banco non sia stata causata da imprenditori meridionali in difficoltà dopo la fine della Cassa del Mezzogiorno, ma da imprenditori (del Nord e del Sud) politicamente ammanicati. Ad esempio, Salvatore Ligresti, che ha ricevuto 362 milioni di euro dal Banco di Napoli, causando perdite per circa 136 milioni di euro. O il gruppo Ferruzzi, che nel suo complesso aveva ricevuto dal Banco prestiti per 590 milioni di euro, causando una perdita per 202 milioni di euro. Per non parlare del giornale l’Unità che – secondo notizie di stampa – dopo 20 anni dovrebbe al Banco ancora 20 milioni di euro. È difficile classificare questi tra i crediti deteriorati a causa della fine della Cassa del Mezzogiorno.

Che il Banco di Napoli sia fallito a causa di una politica di credito clientelare non dimostra che l’attuale crisi del sistema bancario sia dovuta alla medesima causa. Ma rende questa ipotesi più plausibile, soprattutto se guardiamo alle statistiche sulla composizione delle odierne sofferenze. Secondo Unimpresa il 48% dei crediti deteriorati riguarda prestiti superiori ai 2,5 milioni di euro, proprio come il Banco di Napoli. E proprio come per il Banco, negli anni scorsi i grandi creditori in difficoltà sono stati i soliti noti: Zunino, Zaleski e il sempre presente Ligresti. Come diceva filosofo spagnolo George Santayana, “chi non impara dalla storia è condannato a ripeterla.”


Qui di seguito i link ai precedenti articoli della Rubrica “Alla Luce del Sole”: 

– Quel «tesoretto» della bad bank del Banco di Napoli
– Quante sofferenze si nascondono negli “incagli”?
– Cosa Insegnano ad Atlante le Sofferenze del Banco di Napoli 
– Le Operazioni di Sistema sono Aiuti di Stato?
– Aguzzate la vista
L’azione di responsabilità è fondamentale per ricostruire la fiducia nelle banche Italiane
Deutsche Bank e Monte Paschi: similitudini e differenze
– Salvare le banche per far ripartire l’economia
– L’importanza di un Buon Piano di Successione e il Ruolo del Consiglio di Amministrazione 
Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia
– Cosa fare per evitare che il “decreto banche” diventi solo un regalo alle banche
– Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori
– Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi 
– Le Responsabilità della Consob sulle Obbligazioni Subordinate
– Gli stipendi degli AD e quei paracadute troppo grandi

Quel «tesoretto» della bad bank del Banco di Napoli

Testo dell’articolo pubblicato il 21.08.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”. 

Nelle scorse due settimane ho analizzato la lezione del Banco di Napoli per quanto riguarda il valore odierno di sofferenze ed incagli.  C’è però una lezione ancora più importante e riguarda le recriminazioni sull’ingiusta sorte subita dalla più importante banca del Sud. Riecheggiano pari pari quelle che vengono oggi sollevate dagli azionisti e dai manager delle banche del Nord in difficoltà: non è vero che sono fallite, è colpa della eccessiva severità nelle valutazioni della Banca d’Italia o della BCE, è una manovra per colpire le industrie locali, etc. Nel caso del Banco di Napoli, queste teorie sembrerebbero trovare un suffragio nel “ tesoretto” accumulato dalla SGA (la bad bank del Banco di Napoli), che a fine 2015 ammontava a ben 469 milioni di euro.

Se la SGA ha potuto accumulare questo tesoretto non significa forse che a suo tempo le attività del Banco di Napoli valevano di più di quanto stabilito dagli ispettori della Banca d’Italia? E se così fosse non significa che il Banco di Napoli – ed indirettamente il Sud – sono stati ingiustamente svantaggiati?
“Se la bad bank di una qualsiasi banca del nord – si chiede Mariarosa Marchesano (*), autrice del libro “Miracolo bad bank” – avesse avuto il successo della SGA e fosse titolare di una dotazione finanziaria di 500 milioni di euro, sarebbe altrettanto facile per il governo Renzi utilizzare questa ricchezza per salvare le banche del Sud in crisi?”

Tutte queste recriminazioni si fondano sull’ipotesi che le sofferenze e gli incagli del Banco di Napoli siano stati sottovalutati al momento della liquidazione del Banco e che questo valore sia poi riemerso nei lunghi anni della gestione della SGA. Se così fosse queste recriminazioni sarebbero fondate. Ma non è così.

Nel 1996 la SGA acquistò le sofferenze del Banco ad un prezzo del 62% del nominale e gli incagli ad un prezzo dell’85%. Usando il valore realizzato di queste sofferenze ed incagli, i miei calcoli (riportati nelle scorse settimane) valutano le prime al 22% e le seconde al 32%. La differenza rappresenta 3,4 miliardi di euro di buco. Come è possibile che la SGA abbia accumulato 469 milioni di euro di tesoretto?

La risposta è molto semplice: tra il 1997 e il 2002, la Banca d’Italia – attraverso il Banco di Napoli – ripianò le perdite della SGA per 3,7 miliardi di euro. Lo fece in base al D.M. 27/9/1974 , anche noto come “decreto Sindona” perché utilizzato per la prima volta per salvare la Banca Privata Italiana dopo il crack. In sostanza, la Banca d’Italia prestava denaro al Banco di Napoli all’1% e il Banco guadagnava la differenza tra il tasso di mercato sui titoli di stato (che all’inizio del periodo era al 6,8%) e l’1% e usava quei soldi per ricapitalizzare la SGA. Si tratta di una specie di quantitative easing “ad bancam”, che raggiunse a momenti valori molto elevati (12 miliardi di euro). Se la Banca d’Italia avesse acquistato quei titoli direttamente, a guadagnarci sarebbe stato il contribuente. Quei soldi sono quindi a tutti gli effetti un contributo statale. Lungi da essere un tesoretto emerso da un valore superiore alle attese dei crediti deteriorati, il surplus della SGA sono gli avanzi dei contributi statali per ripianare il buco del Banco di Napoli.

Un approfondimento a parte meritano le cause di questo buco. Fu colpa della gestione clientelare del democristiano Ferdinando Ventriglia o fu la crisi dell’economia meridionale dovuta dall’improvvisa interruzione dei contributi della Cassa del Mezzogiorno?

Questo legittimo dubbio non deve distrarre dal fatto che il buco ci fu e questo buco fu sottostimato, non accentuato, dalle valutazioni di Banca d’Italia. Restituire il “tesoretto” al Sud aggiungerebbe la beffa al danno. Quei soldi appartengono a tutti i diritti allo stato italiano e ha fatto bene il Ministro Padoan a riprenderli in nome della comunità. L’unico dubbio è perché si è aspettato tanto. Se non ci fosse stata una crisi bancaria, quei soldi sarebbero rimasti tra le pieghe di bilancio di Banca Intesa (che nel frattempo aveva comprato il Banco di Napoli), come un regalo del contribuente?

Qui di seguito i link ai precedenti articoli della Rubrica “Alla Luce del Sole”: 

– Quante sofferenze si nascondono negli “incagli”?
– Cosa Insegnano ad Atlante le Sofferenze del Banco di Napoli 
– Le Operazioni di Sistema sono Aiuti di Stato?
– Aguzzate la vista
L’azione di responsabilità è fondamentale per ricostruire la fiducia nelle banche Italiane
Deutsche Bank e Monte Paschi: similitudini e differenze
– Salvare le banche per far ripartire l’economia
– L’importanza di un Buon Piano di Successione e il Ruolo del Consiglio di Amministrazione 
Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia
– Cosa fare per evitare che il “decreto banche” diventi solo un regalo alle banche
– Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori
– Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi 
– Le Responsabilità della Consob sulle Obbligazioni Subordinate
– Gli stipendi degli AD e quei paracadute troppo grandi

Atlante 2 non salverà le banche. Roma usi Cdp o chieda un intervento alla UE (intervista)

Intervista a cura di Claudia Cervini pubblicata su Quotidiano – Ed. Nazionale (Nazione Carlino Giorno) il 13 Agosto 2016

Con l’avvio di Atlante 2 le banche italiane possono stare più tranquille?
Risposta. Atlante 2 è una soluzione ingegnosa, ma utilizzabile in casi circoscritti (come Mps) e incorrendo in forti rischi.

Perché?
Il problema delle banche italiane sono le sofferenze (200 miliardi lordi): il nodo reale è capire quanto vengono valutati questi crediti. Di solito sono iscritti a bilancio al 45% del loro valore iniziale. Bene. Atlante 2 comprerà alcune sofferenze di Mps a un valore intorno al 28%. Il fatto è che non si sa quale sia adesso il loro valore di mercato. Il successo dell’operazione è quindi un’incognita.

L’esperienza della Sga impiegata per il recupero delle sofferenze del Banco di Napoli non fu così negativa.
Dopo 20 anni è stato recuperato il 90% circa del prezzo pagato per un valore pari al 55% del credito iniziale. Ma questo valore non tiene conto né delle spese sostenute per raggiungere l’obiettivo (da quelle di gestione alle spese legali) né del tempo trascorso. Quale tasso di interesse sconta questo ritardo? Un altro esempio. Banca d’Italia aveva attribuito alle sofferenze delle 4 banche fallite un valore del 22%. Se il valore reale delle sofferenze oggi è del 22% Atlante è una soluzione in perdita.

Posto che il valore reale di questi crediti ancora non si conosce, quale strada suggerisce?
Prendo a prestito l’esperienza statunitense del 2008: una situazione che ricorda quella dell’Europa di oggi. Nessuno conosceva il valore dei mutui subprime. Come primo tentativo si cercò di salvare il sistema bancario comprando questi mutui a un valore alto – stabilito a tavolino – per mantenere in vita il comparto. Ma fu impossibile creare un mercato omogeneo perché se il prezzo è alto si cerca di vendere le porcherie e di tenere i crediti migliori.

Quindi?
Si scelse di immettere capitali pubblici nel sistema bancario. L’operazione prevedeva l’emissione di azioni con un diritto per gli azionisti a ricomprare questi titoli a un prezzo predeterminato. I soldi pubblici fungevano come garanzia, ma se la banca non riusciva a ricomprarsi le azioni allora lo Stato, di diritto, ne diventava il padrone.

Le regole Ue non permettono all’Italia una simile mossa.
Ci sono due soluzioni. La prima: farlo attraverso la Cdp, che tecnicamente non rientra nel perimetro dello Stato. Si andrebbe incontro a probabili ricorsi Ue, ma intanto il problema verrebbe risolto. La seconda strada è a mio avviso la più efficace: bisogna rivolgersi all’Europa chiedendole un intervento diretto. Questa mossa comporta un costo politico, ma è l’unica efficace. In Spagna ricapitalizzarono così le banche, ricorrendo ai fondi europei.

Ma esiste davvero un rischio sistemico per l’Italia? Le banche (eccetto Mps) hanno superato gli stress test.
Gli stress test hanno riguardato solo gli istituti di maggiori dimensioni e hanno considerato in maniera marginale le sofferenze. Le banche più piccole sono in seria difficoltà.

L’Fmi ha raccomandato all’Italia una sorta di esame anche sulle piccole. Cosa ne pensa?
È un’ottima regola che però, in questo momento, farebbe emergere in modo ancora più chiaro i problemi dell’Italia. Serve prima una garanzia altrimenti si rischia di scatenare il panico.

Oggi un altro cruccio importante delle banche è la redditività.
Le banche italiane hanno un vantaggio: per tradizione fanno più prestiti all’economia reale. Prestiti che, coi tassi a zero, rendono ancora in termini di margini. Gli istituti solidi e capaci di fare credito selettivo cresceranno ancora e faranno profitti. Molte banche, invece, andranno chiuse e si assisterà a una forte riduzione del personale.

Quante sofferenze si nascondono negli “incagli”? / How Many Non-Performing Loans Are Hidden in the “Unlikely to Pay”?

Testo dell’articolo pubblicato il 14.08.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole” / Article written for “Il Sole 24 Ore“. (English translation below)

La settimana scorsa ho spiegato come il futuro dell’Italia dipenda dal valore delle sofferenze bancarie. In realtà, il problema non si limita alle sole sofferenze, ma anche ai cosiddetti incagli, oggi ridenominati “inadempienze probabili” (IP). La Banca d’Italia definisce le sofferenze come crediti la cui riscossione non è certa perché i soggetti debitori sono in stato di insolvenza o in situazioni equiparabili. Le IP rappresentano esposizioni nei confronti di soggetti in situazione di difficoltà obiettiva ma temporanea.

Anche in un mondo ideale, separare le sofferenze dalle IP è difficile. Se viene aperta una procedura fallimentare, non ci sono dubbi. Fino a quel momento, la tentazione di considerare come temporanea una difficoltà di pagamento è molto forte. Questa tentazione è aumentata dalle regole sugli accantonamenti. Una sofferenza richiede un accantonamento intorno al 60%, un’IP al 30%. La differenza è enorme. Prima dell’operazione con Atlante, Monte Paschi di Siena (MPS) aveva €27,7 miliardi di sofferenze lorde (in bilancio al 37% del valore nominale) e €16,9 miliardi di IP lorde (in bilancio al 71% ). Per ogni miliardo di sofferenze che MPS riesce a classificare come IP evita accantonamenti (e quindi perdite) per €341 milioni. Quando la tentazione di piegare le regole è così forte, possiamo fidarci di questa classificazione?

Questa fiducia è fondamentale per valutare un piano di intervento per il sistema bancario italiano, perché oltre ai €200 miliardi di sofferenze ci sono €160 miliardi di IP. Se queste IP valgono il 40% invece dell’70% cui sono state inscritte a bilancio, il sistema bancario ha bisogno di €48 miliardi di capitale per ripianare le perdite su IP, cui si aggiungono alle decine di miliardi necessari per colmare le perdite sulle sofferenze. Come possiamo sapere se le IP sono sofferenze nascoste o sono veramente casi di temporanea illiquidità?

Un rapporto ispettivo di Banca d’Italia del luglio 2013 ci dice che quando furono esaminate €8,5 miliardi di IP (allora chiamate incagli), il 35% fu riclassificato come sofferenza, con un aumento degli accantonamenti dal 19% al 36% del valore iniziale. L’analisi era su un campione mirato, dove gli ispettori si aspettavano di trovare maggiori problemi, quindi non è necessariamente rappresentativo. Come possiamo stabilire un valore probabile?

Ancora una volta l’esperienza del Banco di Napoli ci può venire in aiuto. Poco prima di essere trasferiti alla “bad bank”, i crediti deteriorati furono ispezionati da Banca d’Italia. Le sofferenze furono raddoppiate, gli incagli triplicati. Ciononostante, Banca d’Italia non sembra essere stata troppo severa, anzi. Dopo 20 anni il valore delle sofferenze recuperate è stato di €2,6 miliardi, pari al 56% del valore nominale, mentre il valore delle IP recuperate di €1,7 miliardi, pari al 58% del valore nominale.

Ovviamente non conta solo la percentuale del recupero, ma anche il tempo e il costo. Dai dati di bilancio non è facile disaggregare il costo, ma quanto al tempo, dopo 9 anni le sofferenze avevano recuperato solo il 33% del valore iniziale, mentre le IP già il 51%. Se usiamo i valori realizzati dei tassi di interesse e delle quantità recuperate come previsioni, possiamo calcolare il valore di sofferenze ed IP al momento della creazione della bad bank. Con un premio per il rischio di 500 punti base, il valore delle sofferenze sarebbe stato del 22% del nominale e quello delle IP del 32%. A questi valori il MPS dovrebbe sopportare ulteriori €6,6 miliardi di svalutazioni e il sistema bancario italiano nel suo complesso avrebbe bisogno di €102 miliardi in più di capitale da raccogliere.

Come ho spiegato la settimana scorsa, l’esperienza della bad bank del Banco di Napoli non rispecchia necessariamente quello che capiterà ai crediti deteriorati oggi: ma è più facile che sbagli per ottimismo che per pessimismo. In ogni caso, mette in luce come il problema non sia solo MPS. È un problema sistemico, che il governo non può risolvere con interventi ad hoc.

Qui di seguito i link ai precedenti articoli della Rubrica “Alla Luce del Sole”: 

– Cosa Insegnano ad Atlante le Sofferenze del Banco di Napoli 
– Le Operazioni di Sistema sono Aiuti di Stato?
– Aguzzate la vista
L’azione di responsabilità è fondamentale per ricostruire la fiducia nelle banche Italiane
Deutsche Bank e Monte Paschi: similitudini e differenze
– Salvare le banche per far ripartire l’economia
– L’importanza di un Buon Piano di Successione e il Ruolo del Consiglio di Amministrazione 
Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia
– Cosa fare per evitare che il “decreto banche” diventi solo un regalo alle banche
– Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori
– Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi 
– Le Responsabilità della Consob sulle Obbligazioni Subordinate
– Gli stipendi degli AD e quei paracadute troppo grandi

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Last week I explained how Italy’s future depends on the value of banks’ non-performing loans (NPLs). In fact, the problem is not limited only to the narrowly-defined NPLs (sofferenze), but also to the “unlikely to pay” (UP) (once called “incagli” and now renamed “inadempienze probabili”. The Bank of Italy defines narrow NPLs as credits whose collection is uncertain because the debtor is insolvent or in similar situations. UPs represent exposure to people in situations of objective – but temporary — difficulty to pay.

Even in an ideal world, separate the UPs from the NPLs is hard. If bankruptcy proceedings are under way, there is no doubt. Until that time, the temptation to regard as a temporary an inability to pay is very strong. This temptation is increased by provisioning rules. NPLs require to book a loss of around 60% of the value of the loan, UPs of only 30%. The difference is huge. Before the transaction with the Atlante Fund, Monte Paschi di Siena (MPS) had € 27.7 billion of gross NPLs (booked at 37% of the nominal value) and € 16.9 billion of gross UPs (reported at 71% of nominal value). For every billion of NPLs that MPS classifies as UPs, it can avoid provisions (and therefore losses) for € 341 million. When the temptation to bend the rules is so strong, can we trust this classification?

This confidence is essential to evaluate a plan for the Italian banking system, because in addition to the € 200 billion of narrowly defined NPLs there are € 160 billion of UPs. If these UPs are worth 40% rather than the 70% they have been booked at, the banking system needs €48 billion of capital to cover the UPs’ losses, in addition to the tens of billions needed to compensate for the losses on the narrowly defined NPLs. How can we know if the UPs are hidden NPLs or are really cases of temporary illiquidity?

A July 2013 report of the Bank of Italy tells us that 35% of the €8.5 billion of UPs examined was reclassified as NPLs, increasing the provisioning from 19% to 36% of the initial value. The inspection was targeted towards problems banks, where inspectors were expecting to find more misclassifications, so it is not necessarily representative. How can we establish a probable value?

Once again the experience of Banco di Napoli can come in handy. Shortly before being transferred to the “bad bank”, impaired loans of Banco di Napoli were inspected by the Bank of Italy. The narrowly-defined NPLs were doubled, the UPs tripled. Nevertheless, the Bank of Italy does not seem to have been too severe. After 20 years the value of recovered NPLs amounts to €2.6 billion, accounting for 56% of the nominal value, while the value of recovered UPs is €1.7 billion, or 58% of the nominal value.

Of course, the percentage of recovery is not the only dimension that matters: time and recovery costs matter as well. From the financial statements it is not easy to disaggregate the recovery cost for NPLs and UPs, but we can distinguish the timing. After nine years the narrowly-defined NPLs had recovered only 33% of the initial value, while the UPs already 51%. If we use the actual values for the interest rates and amounts recovered as forecast, we can calculate the value of NPLs and UPs at the time of the creation of the bad bank. With a risk premium of 500 basis points, the value of the NPLs would have been 22% of the nominal and of the UPs 32%. At these values, MPS should bear additional € 6.6 billion of write-downs and the Italian banking system as a whole would need to raise € 102 billion more capital.

As I explained last week, the experience of the bad bank of Banco di Napoli does not necessarily reflect what will happen to non-performing loans today, yet it is more likely to overstate than understate the value of these bad loans. In any case, it highlights how the problem is not only MPS. It is a systemic problem, which the government cannot solve by ad hoc interventions.

Cosa Insegnano ad Atlante le Sofferenze del Banco di Napoli / What Banco di Napoli’s non-performing loans can teach the Atlante Fund

Testo dell’articolo pubblicato il 7.08.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”
Article written for “Il Sole 24 Ore“.

Il futuro dell’Italia sembra appeso a un numero: il valore delle sofferenze nei bilanci delle banche. Se valgono il 45% del valore del credito originario, come riportato in molti bilanci, le banche italiane sono solide, come afferma il Governo. Se valgono il 28%, come valutati dal piano di salvataggio di Monte Paschi, alcune banche rischiano di fallire. Se poi valgono il 17.6% (poi rettificato al 22.4%), come stabilito nell’intervento su Banca Etruria e le altre tre banche regionali, allora molte banche sono insolventi. Il motivo è che le banche hanno crediti in sofferenza per almeno 200 miliardi. Quindi la differenza di valutazioni tra il 22% e il 45% corrisponde a potenziali ulteriori perdite per 46 miliardi. Ma qual è il valore giusto?

Un numero “giusto” per tutti non esiste. Dipende da quanti di questi crediti hanno una garanzia reale, dove questa garanzia reale è  localizzata (una casa a Roma contro un capannone a Vedelago),  e quanto prudente  è  stata la concessione del credito (pari a 50% o a 90% del valore dell’immobile). Spesso neppure le banche che hanno concesso il credito hanno disponibili queste informazioni, tanto meno i potenziali investitori. La mancanza di informazione paralizza il mercato, peggiorando la situazione. Sarebbe utile avere un punto di riferimento. Ma quale?

Molti giornalisti e politici usano come riferimento l’esperienza delle sofferenze del Banco di Napoli. A fine del 1996, queste sofferenze erano state isolate in una “bad bank” (chiamata SGA) che, al 31 dicembre del 2015, aveva recuperato quasi il 90% del costo a cui erano state acquistate. Dobbiamo quindi concludere che le valutazioni correnti sono eccessivamente pessimistiche?

Per rispondere a questa domanda ho cercato di ricostruire la storia delle sofferenze del Banco di Napoli, grazie ad un interessante libro di Mariarosa Marchesano (“Miracolo Bad Bank”) e ai bilanci della SGA gentilmente fornitimi dall’autrice. Innanzitutto, i debiti trasferiti dal Banco di Napoli alla bad bank erano stati già svalutati mediamente del 30%. In secondo luogo, non comprendevano solo sofferenze propriamente definite, ma anche debiti incagliati, debiti ristrutturati, e perfino partecipazioni azionarie in società controllate.

Se ci focalizziamo solo sulle sofferenze, dopo 20 anni è  stato recuperato il 90.1% del prezzo pagato, per un valore pari al 55.8% del credito iniziale. Ma questo non tiene conto di due fattori: le spese sostenute e il tempo passato. Ipotizzando che metà della spese di gestione della SGA siano dovute alle sofferenze (che rappresentano circa metà dei crediti trasferiti), si trova che se la SGA avesse pagato le sofferenze al 28% del valore nominale avrebbe ottenuto un rendimento del 6.4% nell’arco del ventennio. Questo sembrerebbe confermare le valutazioni di Atlante.

Ma questa stima ignora tre fattori. Il primo è  l’andamento del mercato immobiliare. Tra il 1997 e il 2008 i prezzi delle case (soprattutto in alcune città) sono aumentati enormemente. Difficile immaginarsi che questo possa accadere nei prossimi 10 anni. Secondo, questa stima non tiene conto della diversa politica del credito prevalente all’emissione di questi prestiti. Nei primi anni Novanta difficilmente un prestito raggiungeva il 50% del valore dell’immobile dato a garanzia. Negli anni recenti molte banche hanno prestato fino al 100%. Quindi – ceteris paribus – la percentuale di recupero per MPS  è  destinata ad essere inferiore a quella del Banco di Napoli.  Infine, nel 1997 l’inflazione e i tassi di rendimento erano molto più elevati di quelli di oggi. Non è  facile quantificare i primi due aspetti, ma  è  possibile farlo per il terzo. Se usiamo come premio per il rischio 500 punti base sopra i rendimenti dei titoli decennali del governo italiano, il valore atteso delle sofferenze del Banco di Napoli al 1 gennaio 1997 sarebbe stato pari a solo il 22% del nominale.  Una pessima notizia per Atlante.

Le maggiori sorprese vengono dalla storia dei recuperi sui debiti incagliati (che oggi in Italia rappresentano altri 160 miliardi). Ma per scoprirle, dovrete aspettare la rubrica della prossima settimana.

Qui di seguito i link ai precedenti articoli della Rubrica “Alla Luce del Sole”:

– Le Operazioni di Sistema sono Aiuti di Stato?
– Aguzzate la vista
L’azione di responsabilità è fondamentale per ricostruire la fiducia nelle banche Italiane
Deutsche Bank e Monte Paschi: similitudini e differenze
– Salvare le banche per far ripartire l’economia
– L’importanza di un Buon Piano di Successione e il Ruolo del Consiglio di Amministrazione 
Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia
– Cosa fare per evitare che il “decreto banche” diventi solo un regalo alle banche
– Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori
– Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi 
– Le Responsabilità della Consob sulle Obbligazioni Subordinate
– Gli stipendi degli AD e quei paracadute troppo grandi


Italy’s future seems to be hanging by a number: the value of banks’ non-performing loans (NPLs). If they are worth 45% of the original loan value, as reported in many banks’ balance sheets, Italian banks are solid, as the Government claims. If they are worth 28%, as assessed in Monte Paschi’s rescue package, some banks are likely to fail. If they are worth 17.6% (later adjusted to 22.4%), as determined in the liquidation of Banca Etruria and three other regional banks, then many banks are insolvent. The reason is that banks have non-performing loans on their balance sheets for at least 200 billion euro. So the difference between 22% and 45% corresponds to potential further losses of 46 billion euro. But what is the right value?

A “right” number for all NPLs does not exist. It depends on how many of these loans have collateral, where this collateral is located (a house in Rome versus a shed in Vedelago), and how prudent was the granting of the initial credit (up to 50% or 90% of the value of the property). Often not even the banks that granted the original credit have this information, let alone potential investors. This lack of information paralyzes the market, worsening the situation. It would be useful to have a reference point. But which?

Many journalists and politicians use as a reference the experience of Banco di Napoli’s NPLs. At the end of 1996, these NPLs were isolated in a “bad bank” (called SGA) that, as of December 31, 2015, had recovered almost 90% of the cost it paid to acquire them. We must therefore conclude that the current valuations are overly pessimistic?

To answer this question I have tried to reconstruct the history of the Banco di Napoli’s NPLs, thanks to an interesting book by Mariarosa Marchesano (“Miracle Bad Bank”) and the SGA’s financials kindly given to me by the author.
First, the debts transferred by Banco di Napoli to the bad bank had already been written off by an average of 30%. Second, not only did they include non-performing loans as properly defined, but also “unlikely to pay” loans, restructured debt, and even equity investments in subsidiaries.

If we focus only on the NPLs, after 20 years it was recovered 90.1% of the price paid, equal to 55.8% of the initial loan amount. But this does not take into account two factors: the costs incurred and the time spent. Assuming that half of the SGA operating expenses are due to the NPLs (which represent about half of the credits transferred), if SGA had paid the NPLs 28% of the face value, it would have earned a 6.4% return over the last twenty years. This number seems to confirm the Atlante Fund’s projections.

But the 6.4% return ignores three factors. The first is the performance of the real estate market. Between 1997 and 2008 the prices of houses (especially in some cities) have increased enormously. Hard to imagine that this could happen again in the next 10 years. Second, this estimate does not take into account the different credit policy prevailing when these loans were issued. In the early Nineties a loan hardly reached 50% of the value of the collateral. In recent years, many banks have lent up to 100%. Then – ceteris paribus – the recovery rate for MPS is bound to be lower than that of Banco di Napoli. Finally, in 1997, inflation and the rates of return were much higher than those of today. It is not easy to quantify the first two aspects, but we can do it for the third. If we use as a risk premium 500 basis points above the yield on ten-year bonds of the Italian Treasury, the expected value of the Banco Napoli’s NPLs at January 1, 1997 would have amounted to only 22% of the face value. Bad news for the Atlante fund.

The biggest surprise comes from the history of recoveries on the “unlikely to pay” debt (which in Italy today represents another 160 billion euro). But to find out, you’ll have to wait for my column next week.