Solo Berlino potrebbe stimolare la crescita europea. Ma non lo fa.

Articolo pubblicato su L’Espresso

Per imprestare i soldi alla Germania, oggi i risparmiatori devono pagare ed incolpano di questo Mario Draghi. Ma il problema è globale: dalla Svizzera al Giappone, dalla Danimarca alla Svezia sono molti i Paesi fuori dall’area euro con tassi di interesse nominali negativi.
Il tasso di interesse altro non è che il prezzo che eguaglia la domanda e l’offerta di risparmio. La domanda di risparmio viene dalle imprese: tanto più basso è il tasso di interesse tanto più prenderanno a prestito. L’offerta viene dalle famiglie: tanto più elevato il tasso di interesse, tanto più le famiglie saranno disponibili a posporre il consumo oggi per un maggiore consumo domani.

Il motivo per cui domanda ed offerta si incontrano ad un tasso negativo va trovato in problemi demografici e politici. Nei Paesi sviluppati la generazione del baby boom sta per andare in pensione. Preoccupata di avere di che vivere nella vecchiaia, oggi sta risparmiando molto. Paradossalmente, più i tassi di interesse si abbassano e più i figli del baby boom sentono che devono risparmiare, perché – se i tassi si mantengono bassi – hanno bisogno di più risparmi per mantenersi nella vecchiaia. Da qui un eccesso di risparmio.
In aggiunta le grandi opportunità di investimento oggi sono nei Paesi emergenti: Cina, India, Africa. Ma quali garanzie ha un investitore occidentale che i suoi risparmi un domani non vengano espropriati da quei Paesi? Quindi il flusso di risparmio in quella direzione è insufficiente. Per di più esiste un perverso flusso inverso. I ricchi di quei Paesi vogliono assicurarsi contro il rischio di futuri espropri, per questo spostano i loro capitali nei paesi sviluppati, anche se i tassi sono negativi. Meglio perdere l’1 per cento l’anno che rischiare di perdere il 100 per cento al prossimo cambio di regime. Il risultato è un eccesso di risparmio a livello mondiale, che provoca una caduta del tasso di interesse di equilibrio.

L’eccesso di risparmio è tale che il mercato vorrebbe un tasso ancora più negativo dell’attuale, ma è difficile da raggiungere. Il tasso di interesse di cui parliamo è quello reale (tasso nominale meno inflazione). Anche con tassi di interesse nominali positivi, è possibile rendere il tasso di interesse reale negativo: basta aumentare l’inflazione. Oggi però fatichiamo a raggiungere un’inflazione dell’1 per cento. Quindi anche con i tassi nominali a zero, il tasso reale non può scendere al di sotto del meno 1 per cento. E se questo non bastasse ad eguagliare domanda ed offerta?

Fintantoché la moneta non è tutta elettronica, c’è un limite a quanto negativi possono essere i tassi di interesse nominali. Se fossero meno 10 per cento, sarebbe preferibile detenere i propri risparmi in contante nella cassetta di sicurezza. Se oggi osserviamo dei tassi nominali leggermente negativi è perché i costi di transazione di detenere grandi quantità di contante rendono questa opzione non conveniente. Ma difficilmente i tassi di interesse possono scendere sotto il meno 1 per cento, senza che i risparmiatori comincino a investire in contante.

Quindi se la domanda e l’offerta di risparmio si incontrano ad un tasso reale inferiore al meno 2 per cento, cosa succede? Qui è dove i macroeconomisti si dividono. La tesi prevalente è che l’aggiustamento avrà luogo attraverso una recessione. Se il reddito delle famiglie scende, scende anche il risparmio. La recessione continuerà fino a quando offerta e domanda potranno incontrarsi ad un tasso superiore al meno 2 per cento.

Oggi nessun governo vuole prendersi la responsabilità politica di alzare l’inflazione.

La soluzione più semplice sarebbe aumentare l’inflazione o – meglio – le aspettative di inflazione, visto che sono queste aspettative che determinano il tasso di interesse reale atteso al momento dell’investimento. Per gli ultimi 40 anni i banchieri centrali hanno cercato di guadagnarsi credibilità, promettendo un’ inflazione stabile intorno al 2 per cento. Quindi non possono svegliarsi una mattina e decidere che la vogliono al 5 per cento. Ci vorrebbe una decisione politica. Ma un aumento dell’inflazione attesa è una tassa sul risparmio che ricadrebbe principalmente sugli anziani, che sono la maggioranza e vanno a votare in modo massiccio. Quindi nessun governo vuole prendersi la responsabilità politica di alzare l’inflazione.

Finora ho ignorato la politica fiscale. Un governo può entrare nel mercato del risparmio prendendo a prestito dei fondi ed investendoli – ad esempio – in infrastrutture. In questo modo aumenta la domanda di risparmio. Fintantoché uno stato ha un debito sostenibile, una politica fiscale di questo tipo aiuta a risolvere il problema. Il mercato del risparmio – però – oggi è globale, quindi difficilmente un Paese – soprattutto un Paese piccolo – può risolvere il problema da solo. Certamente non lo può fare l’Italia, che non ha un debito sostenibile e che non controlla neppure la propria moneta.

Potrebbe farlo la Germania. Con tassi di interesse negativi sul debito, la Germania sta sprecando enormi opportunità di investimento pubblico, sull’altare di principi ideologici. E con questo danneggia non solo se stessa, ma tutta l’area euro.

Per conto suo il Giappone, che controlla la sua moneta, ha provato a perseguire una politica fiscale molto aggressiva, accumulando deficit su deficit, raddoppiando il rapporto tra debito e Pil. Al momento questo debito è sostenibile grazie ad una politica monetaria estremamente espansiva e ad un risparmiatore giapponese che si ostina a detenere titoli di stato in yen, nonostante un rendimento nominale nullo e un deprezzamento dello yen. Non è chiaro fino a quando questa situazione possa durare. Nel frattempo, il Pil giapponese è cresciuto, ma molto lentamente.

Urge una locomotiva europea, soprattutto tedesca.

Chi ha gestito meglio di tutti la crisi è stata l’America. Ha avuto il coraggio di effettuare subito un grosso stimolo fiscale e di continuare poi a lungo con una politica monetaria molto espansiva. Il risultato sono stati 7 anni di crescita del Pil ad un ritmo modesto (+2.1 per cento), ma di gran lunga superiore a quello europeo e giapponese. Ma la locomotiva americana non è più sufficientemente potente da trascinare la crescita del mondo intero, soprattutto con un rallentamento della Cina all’orizzonte. Urge una locomotiva europea, soprattutto tedesca. Ma le formiche tedesche sono troppo intente a dare lezioni morali alle cicale del Sud Europa, per contribuire alla crescita europea e mondiale. Nel frattempo, aspettiamoci bassi tassi, deflazione e recessione.

Are Two Euros Better than One? (Published May 9, 2010)

Article published in the Italian Newspaper “Il Sole 24 Ore” May 9, 2010
Qui l’articolo in Italiano

The difficulties of life often push apart even the most loving couples. When differences of opinion become incurable, it serves no purpose to remember the love that was. Trying to attribute responsibility for the failure of the relationship is counterproductive. It only makes things worse. It’s better to come to an amicable separation and, as the English say, move on.

This same concept applies to the euro. It was a love marriage. Against the pessimism of the intellect, the founding fathers advanced the optimism of the will: the hope (delusion?) that the obvious incompatibilities would be overcome in the process of integration. To those (American economists) who said that the euro are was not made to have a single currency, they retorted that they were speaking out of envy, or worse, for fear that the euro would one day supplant the dollar.

As with many couples, the fatal attraction was born of differences. Southern Europe was looking for an external engagement that would give them the monetary and fiscal discipline that they had not been able to achieve alone.

Northern Europe hoped that in marriage the South would put its head on straight and abstain from the continuous devaluations that created tensions on the foreign exchange and export markets. As with many couples, these differences, so attractive initially, have become unsustainable over time.

Economic theory suggests that to share the same currency a geographical area must satisfy two conditions. The first is that it has a relatively homogenous economy, subjected to the same shocks. If part of the economy relies on oil and part on high tech, shocks will be very different, and monetary policy that fits one area will not work in the other.

The second condition, even more important, is internal mobility. If Texas (traditionally an oil-driven economy) can coexist with California (mostly relying on high tech), it is because Californians can easily move to Texas and vice versa. So much so that Austin, Texas has become one of the capitals of personal computers.

This is not true for Europe. It’s not just that the economy of the North of Europe, mainly based on the advanced manufacturing industry, is very different from that of the South, which is based on tourism, but mobility is very limited. What little mobility that exists is from the South to the North, not vice versa.

Since the introduction of the euro, the South has seen prices increasing at a faster rate than the North. Paradoxically, this growth was the euro’s “fault.” The introduction of a single currency resulted in a reduction in interest rates for the countries of southern Europe that favored a real estate boom. If this had been in the United States, residents of Michigan and Minnesota would be moving to Florida and Louisiana. This was not the case in Europe. The Germans and the Dutch in Greece and Spain are there to vacation, not to work.

The result of this segmentation is that for many years, prices in southern Europe have grown more than in the North, without the domestic markets forcing realignment. Now that the real estate boom has ended, the South is much less competitive than the North.

Without the option of devaluation, there are only three possible forms of adjustment. The first is to make prices in the South grow less than prices in the North. The problem with this is that with low global growth and the ECB’s monetary policy, prices in the North hardly grow more than two percent.

To recoup differentials of 20-30% (as they have in the southern markets), the South must undergo many years of zero inflation, or worse, deflation. The high levels of private debt in countries such as Greece and Spain, however, makes deflation extremely costly. If prices fall and debt remains fixed in nominal terms, there will be a chain of failures. The Greek government crisis “ce n’est qu’un début”: the problem will quickly move to the private sector.

An alternative is for the countries of the North to accept a higher inflation level, making it possible for the southern countries to regain competitiveness without having to accept a dangerous deflation. But this is the equivalent of asking a spouse to no longer be themselves in order to save the marriage. The Germans will not accept this. Their condition for joining was that the ECB would follow the strict monetary policy of the Bundesbank. This agreement has been incorporated into the treaties and is unlikely to be changed, especially without Germany’s consent. And the Germans do not see why they should have to accept much-despised inflation to correct the mistakes of others.

The only painless way out would for southern Europe to gain competitiveness with respect to the North and increase productivity. But this would require reforms, time, and investment. While the impact of the Greek crisis may have increased the pressure for reform, it has dramatically reduced the time available and the incentives to invest. How many years of double-digit unemployment are the Greeks and Spanish willing to bear?

Most economists accept this analysis, even Nobel Laureate Stiglitz, who certainly cannot be accused of being a right-wing economist. Where they disagree is in the remedy. Many, including Stiglitz, argue that the solution to the present crisis is further political and fiscal integration. Of course if the European government itself could borrow and allocate resources to the South, the current crisis could be alleviated.

This reasoning is correct, but it raises two major problems. The first is political. Politically it is not easy to explain to the Germans that they need to take on more debt (and therefore pay higher taxes in the future) to solve their Greek and Spanish cousins’ problems. It cannot be done in an electorally weak and divided government like Merkel’s. And it probably would not be possible even in the government of the best German leader.

We Italians live in a country that speaks the same language and that, for better or worse, united more than 150 years ago and is moving towards fiscal federalism, which will contribute to a reduction in transfers from the North to the South. How can we expect the European nations to go in a completely opposite direction, even while lacking a unified history?

The second problem is economic. Transfers alleviate economic problems in the short term, but do not solve them. Indeed, they will become chronic. Thanks to subsidies, areas not in line with the market can afford to remain so, without adjusting prices. The South of Italy has a price level higher than its average productivity. Sixty years of transfers have not alleviated this problem, but have turned it into gangrene. Do we want to transform the South of Europe into southern Italy?

The only solution left is to accept that the differences are irreconcilable and amicably break up the euro area. In economics, the greatest evil is uncertainty. The Greek crisis has sown the seed of doubt that one or more countries could leave the euro. Such doubt can hardly be dispelled. But the market has no idea how this exit will occur. Overwhelmed by passionate love, the euro’s founders refused to contemplate a way out. The euro, they said, is irreversible. But even the Catholic Church, which does not recognize divorce, has a procedure for separation in extreme situations. Why not for the euro?

This lack of rules is casting panic into the financial markets and paralyzing investment. Who will leave first? What will happen to contracts processed in euros in that country? What consequences will it have on other countries and their banks? A driven and rapid separation would be the lesser evil.

Creating two blocks would reduce the stigma on each country and allow the South to continue to hold a liquid currency. The euro-south’s depreciation against the euro-north would reduce the weight of public and private debt and allow a recovery of competitiveness that would relaunch the economy.

Is this inconceivable? Even the United States did this in the 30s, in the face of economic and social costs arising from the Great Depression, the United States abandoned the gold standard and turned all contracts written in dollar-gold to contracts in devaluated paper dollars. Why shouldn’t the southern European states abandon parity with the euro and transform contracts written in euros into contracts in a devalued euro-south?

A legitimate passion for European unity blinded the founding fathers of the euro. Like two lovers who hope that marriage will eliminate all their faults, the founding fathers were under the delusion that the European Union would create the European spirit. Indeed, the free movement of people, the Erasmus scholarships, and the increasingly widespread use of English are slowly forming a European spirit.

But it will take many decades, even centuries, before a Finnish citizen views a Greek citizen in the same way as their neighbor. More than a millennium of division is not erased in the space of a decade. A compulsory union does not help the economy or even the possibility of a future union. To save the European spirit it’s better to divorce amicably, which would preserve the economic union without forcing the monetary union. The alternative, an endless stream of bickering and recriminations, could be devastating.

Due euro sono meglio di uno? (pubblicato il 9 Maggio 2010)

Articolo pubblicato su “Il Sole 24 Ore” il 9 Maggio 2010.
English translation here

Spesso le difficoltà della vita allontanano anche le coppie più innamorate. Quando le differenze di vedute diventano insanabili, a nulla serve ricordare l’amore che fu. Cercare di attribuire la responsabilità del fallimento è controproducente. Non fa che peggiorare le cose. Meglio una separazione consensuale e, come dicono gli inglesi, move on.

Lo stesso vale per l’euro. Fu un matrimonio d’amore. Contro il pessimismo della ragione, i padri fondatori addussero l’ottimismo della volontà: la speranza (illusione?) che le ovvie incompatibilità sarebbero state superate in corso d’opera. A chi (gli economisti americani) diceva che l’area dell’euro non era fatta per avere una sola valuta, si ribattè che parlavano per invidia o, peggio, per paura che l’euro avrebbe un giorno soppiantato il dollaro.

Come in molte coppie, l’attrazione fatale nasceva dalla diversità. L’Europa del Sud cercava un impegno esterno che le desse la disciplina monetaria e fiscale che non era stata in grado di darsi da sola.

Il Nord dell’Europa sperava che il Sud con il matrimonio mettesse la testa a posto ed evitasse, con le sue continue svalutazioni, di creare tensioni sul mercato dei cambi e delle esportazioni. Come in molte coppie, quella diversità, inizialmente così attraente, è divenuta insostenibile con gli anni.

La teoria economica suggerisce che per condividere la stessa moneta un’area geografica deve soddisfare due condizioni. La prima è che abbia un’economia relativamente omogenea, sottoposta agli stessi shock. Se parte dell’economia si basa sul petrolio e parte su high tech, gli shock saranno molto diversi e la politica monetaria che si addice a un’area non funzionerà nell’altra.

La seconda condizione, ancora più importante, è la mobilità interna. Se il Texas (economia tradizionalmente basata sul petrolio) riesce a convivere con la California (più basata sull’high tech) è perché i californiani si muovono facilmente in Texas e viceversa, tanto che Austin (Texas) è diventata una delle capitali dei personal computer.

Lo stesso non vale per l’Europa. Non solo il Nord dell’Europa, basato principalmente sull’industria manifatturiera avanzata, è molto diverso economicamente dal Sud, basato sul turismo. Ma la mobilità è molto limitata. Quella poca che esiste è dal Sud verso il Nord, non viceversa.

Dall’introduzione dell’euro il Sud ha avuto una crescita dei prezzi più elevata del Nord. Paradossalmente questa crescita è stata “colpa” dell’euro. L’introduzione di una moneta unica ha prodotto una riduzione dei tassi d’interesse per i paesi del Sud Europa che ha favorito un boom immobiliare. Fossimo stati negli Stati Uniti, gli abitanti del Michigan e del Minnesota si sarebbero trasferiti in Florida e Louisiana. Così non è in Europa. I tedeschi e gli olandesi in Grecia e Spagna ci vanno in vacanza, non a lavorare.

Il risultato di questa segmentazione è che i prezzi nel Sud Europa sono cresciuti per molti anni più che nel Nord, senza che il mercato interno costringesse a un reallineamento. Ora, finito il boom immobiliare, il Sud si trova ad essere molto meno competitivo del Nord.

Senza l’opzione di svalutare, ci sono solo tre possibili forme di aggiustamento. La prima è che i prezzi al Sud crescano meno dei prezzi al Nord. Il problema è che, con la bassa crescita mondiale e la politica monetaria della Bce, i prezzi al Nord difficilmente cresceranno più del 2 per cento.

Per recuperare differenziali del 20-30% (tali sono quelli dei paesi meridionali) il Sud deve subire molti anni d’inflazione a tasso zero o peggio di deflazione. L’elevato livello d’indebitamento privato di paesi come la Grecia e la Spagna, però, rende questa deflazione estremamente costosa. Se i prezzi scendono e il debito rimane fisso in termini nominali, ci saranno fallimenti a catena. La crisi del governo greco “ce n’est qu’un début”: il problema si trasferirà presto al settore privato.

Un’alternativa è che i paesi del Nord accettino un livello d’inflazione più elevato, rendendo possibile ai paesi del Sud di recuperare competitività senza dover accettare una pericolosa deflazione. Ma questo equivale a chiedere al proprio coniuge di non essere più se stesso per salvare il matrimonio. I tedeschi non accetteranno. La loro condizione per l’unione era che la Bce avrebbe seguito la stessa rigida politica monetaria della Bundesbank. Quest’accordo è stato incorporato nei trattati e difficilmente potrà essere modificato, soprattutto senza il consenso tedesco. E i tedeschi non vedono perché debbano accettare l’odiata inflazione per rimediare agli errori altrui.

L’unica via d’uscita indolore sarebbe che il Sud Europa guadagnasse di competitività rispetto al Nord aumentando la produttività. Ma questo richiede riforme, tempo e investimenti. Se le ripercussioni della crisi greca possono aver aumentato la pressione per le riforme, hanno ridotto drammaticamente il tempo a disposizione e gli incentivi a investire. Quanti anni di disoccupazione a due cifre sono disposti a sopportare greci e spagnoli?

La maggior parte degli economisti accetta quest’analisi: perfino il premio Nobel Stiglitz, che non può certo essere accusato di essere un economista di destra. Dove nasce il disaccordo è sul rimedio. Molti, tra cui Stiglitz, sostengono che la soluzione alla crisi attuale è un’ulteriore integrazione politica e fiscale. Certo che se il governo europeo potesse prendere a prestito come tale e destinare le risorse raccolte al Sud, la crisi attuale potrebbe essere alleviata.

Il ragionamento è corretto, ma solleva due grossi problemi. Il primo politico. Politicamente non è facile spiegare ai tedeschi che devono indebitarsi maggiormente (e quindi pagare maggiori tasse in futuro) per risolvere i problemi dei loro cugini greci e spagnoli. Non lo può fare un governo elettoralmente debole e diviso come quello della Merkel. Ma probabilmente non potrebbe farlo neppure il governo del miglior leader tedesco.

Noi italiani, che viviamo in un paese che parla la stessa lingua e che, nel bene e nel male, è unito da 150 anni, stiamo muovendoci verso il federalismo fiscale, che contribuirà a ridurre i trasferimenti dal Nord al Sud. Come possiamo aspettarci che le nazioni europee vadano in direzione assolutamente opposta, nonostante la mancanza di una storia unitaria?

Il secondo problema è economico. I trasferimenti alleviano i problemi economici nel breve periodo, ma non li risolvono. Anzi li cronicizzano. Grazie ai sussidi le aree fuori mercato possono permettersi di rimanere tali, senza aggiustare i prezzi. Il nostro Mezzogiorno ha un livello di prezzi superiore alla sua produttività media. Sessant’anni di trasferimenti non hanno alleviato questo problema, lo hanno trasformato in gangrena. Vogliamo forse meridionalizzare il Sud d’Europa?

L’unica soluzione rimasta è riconoscere le differenze insanabili e spezzare consensualmente l’area euro. In economia il male maggiore è l’incertezza. La crisi greca ha seminato il dubbio che uno o più paesi possano uscire dall’euro. Difficilmente tale dubbio potrà essere fugato. Ma il mercato non ha idea di come tale uscita possa avvenire. Travolti dalla passione amorosa, i fondatori dell’euro si rifiutarono di considerare una via d’uscita. L’euro, si diceva, è irreversibile. Ma perfino la Chiesa, che non riconosce il divorzio, in situazioni estreme ha una procedura per la separazione. Perché l’euro no?

Questa mancanza di regole sta gettando il panico nei mercati finanziari e paralizzando gli investimenti. Chi uscirà per primo? Come verranno trattati i contratti in euro di questo paese? Quali conseguenze avrà sugli altri paesi e sulle loro banche? Una separazione pilotata e rapida sarebbe il male minore.

Creando due blocchi, ridurrebbe lo stigma su ogni singolo paese e consentirebbe al Sud di continuare a detenere una valuta liquida. La svalutazione dell’euro-sud rispetto all’euro-nord ridurrebbe il peso del debito pubblico e privato e permetterebbe un recupero di competitività che rilancerebbe l’economia. Eliminata l’incertezza gli investimenti riprenderebbero.

Inconcepibile? Perfino gli Stati Uniti lo fecero negli anni 30. Di fronte ai costi economici e sociali prodotti dalla Grande Depressione, gli Stati Uniti abbandonarono la parità aurea e trasformarono tutti i contratti scritti in dollari-oro in contratti in dollari carta svalutati. Perché gli stati del Sud Europa non dovrebbero abbandonare la parità con l’euro e trasformare i contratti scritti in euro in contratti in uno svalutato euro-sud?

Una legittima passione per l’unità europea ha accecato i padri fondatori dell’euro. Come due innamorati che sperano che il loro matrimonio eliminerà i rispettivi difetti, i padri fondatori si sono illusi che l’Unione Europea avrebbe creato lo spirito europeo. In verità, la libera circolazione delle persone, le borse di studio Erasmus e l’uso sempre più diffuso dell’inglese stanno lentamente formando uno spirito europeo.

Ma ci vorranno molti decenni, forse secoli, prima che un cittadino finlandese consideri un greco alla stregua del suo vicino di casa. Più di un millennio di divisioni non si cancella nello spazio di un decennio. Un’unione coatta non aiuta l’economia, ma neppure le possibilità di un’unione futura. Per salvare lo spirito europeo è meglio un divorzio consensuale, che preservi l’unione economica senza forzare quella monetaria. L’alternativa, uno stillicidio di litigi e recriminazioni, potrebbe essere devastante.

I miei tre punti per l’Agenda per l’Italia

Sabato scorso ho partecipato al panel conclusivo del workshop Ambrosetti a Cernobbio, in cui gli spunti emersi dai precedenti interventi venivano sintetizzati ed elaborati in una “Agenda per l’Italia”, di fronte al Ministro dell’Economia Padoan. La stampa non era ammessa, quindi per correttezza mi limiterò a riassumere solo il mio intervento, tacendo sui contributi degli altri relatori, Valerio De Molli e Nouriel Rubini.

Io ho individuato nella situazione italiana tre fattori di debolezza: una deflazione internazionale, dei problemi strutturali preesistenti alla crisi finanziaria e una crisi bancaria.

Cominciando dalla crisi bancaria, su cui la capacità di intervento del governo italiano è maggiore, il problema è duplice: da un lato bisogna risolvere l’incertezza che sta attanagliando alcune grandi banche e che rischia di asfissiare l’economia reale; dall’altro bisogna farlo in un modo che sia politicamente compatibile, evitando di scatenare quella (giusta) rabbia popolare che tanto ha fatto per destabilizzare il sistema politico americano dopo la crisi del 2008 e di cui vediamo ancora ora le conseguenze. Ben venga quindi un ruolo della CDP come investitore di ultima istanza negli istituti in difficoltà che non riescono a reperire capitali sul mercato, ma a due condizioni. La prima è che i termini siano simili ad un fallimento per tutte le parti coinvolte (inclusa la possibilità di revocatoria fallimentare), tranne i creditori.  La seconda è che ci sia una commissione d’inchiesta su come e perché queste banche sono entrate in crisi senza che i meccanismi di allerta (sia a livello societario che istituzionale) funzionassero.

Se questa commissione venisse istituita, io mi sono offerto di guidarla per il compenso simbolico di 1 euro.

La crisi strutturale riguarda l’incapacità del nostro sistema di aumentare la produttività, ovvero il prodotto per ora lavorata. Recenti studi internazionali dimostrano che solo metà della produttività di un Paese è dovuta alla quantità totale di capitale e lavoro investiti, il resto è determinato da come sono allocati questi fattori. A questo fine è cruciale la flessibilità di trasferire questi fattori da un’azienda ad un’altra. Negli anni passati, l’enfasi è stata sulla flessibilità del fattore lavoro. È giunto il momento di focalizzarsi sulla flessibilità del fattore capitale.  Questo significa anche favorire il trasferimento di risorse da aziende meno produttive ad aziende più produttive.

Un ruolo cruciale in questa riallocazione gioca il settore bancario. A questo fine le riforme delle Popolari e delle BCC sono state un passo in avanti, così come lo è stata la riforma della legge fallimentare. Ma si può fare di più. In particolare è necessario migliorare la tutela degli investitori di minoranza: senza questa tutela nessun imprenditore è disposto a fondersi o a trasferire le risorse della propria azienda in un’azienda in cui a comandare è un altro. Una Consob più attiva è un passo essenziale in questa direzione.

La terza debolezza riguarda una situazione internazionale in cui c’è un eccesso di risparmio. Per motivi demografici, l’Occidente vuole risparmiare molto. Data questa offerta di risparmio il tasso di interesse reale di equilibrio dovrebbe essere negativo. Ma in presenza di una bassa inflazione e di un limite (tra lo zero e il -0.5%) cui possono scendere i tassi di interessi nominali, il mercato tende a riequilibrarsi distruggendo risparmio attraverso una recessione. Esistono due politiche per rimediare a questo problema: un finanziamento monetario del deficit, che faccia aumentare l’inflazione, o un aumento del deficit pubblico che riduca il risparmio aggregato. Entrambe queste politiche sono proibite dalle regole dell’eurozona, regole che non possono essere facilmente rinegoziate.

Il governo ha una responsabilità di porre questo problema all’Europa. In verità, questo governo ha il merito di essere stato, nei confronti dell’Europa, più critico dei precedenti. Ma lo ha fatto in modo troppo timido e troppo isolato, spesso usando le sue critiche come scusa per chiedere maggiore flessibilità sul deficit. Deve condurre invece una battaglia di principio e formare una coalizione contro l’egemonia culturale della Germania.

Lessons for Italy from the Greek Crisis / Lezioni per l’Italia dalla Crisi Greca

The first lesson Italy should learn from the Greek crisis is that a unilateral exit from the euro is too costly. Only time will provide us with the exact figures of what these six months of uncertainty and these three weeks of bank holiday have cost the Greek economy. Yet, these costs are only the appetizer of what would have happened with a Grexit. Even the risk-loving Varoufakis when he stared at the abyss of Grexit advised against it. And all these disasters happened with a referendum that did not even consider the possibility of an exit from euro on the ballot. What would happen in Italy if – as the Five Star Movement seems to want – we will have a referendum on the euro itself?

The second and third lessons can be learned by looking at Tsipras’ main mistakes in negotiations. The first – unforgivable – mistake is not to have a Plan B. Unforgivable because he tried to bluff and when his bluff was caught, he was toast. Doubly unforgivable because he had six months to prepare it. But does a Plan B possibly exist? Prepared appropriately a currency change is possible, albeit risky. The problem is that it works better the more efficient is the State bureaucracy and the more secret the plan remains. On both fronts it seems to me that the chances it might work in Italy are very slim. Another Plan B for Greece would have been to threaten to take over the Bank of Greece and to flood the market with the 10 euro banknote printed in Greece. The flooding would have had a double purpose: providing liquidity to Greek banks and scary Germans about the risk of potential inflation in the eurozone. The other European countries could react by outlawing the 10 euro banknotes, but it would be costly for their citizens who hold them. In this respect Italy has an advantage; the Bank of Italy prints the 20 and 50 euro notes. It is difficult to outlawing both of them contemporaneously. But this is pretty crazy stuff. If you want to play tough – like Tsipras did – you need to be prepared to go down this path. Alternatively, you beg for clemency.
The second – more comprehensible – mistake made by Tsipras is that he misestimated Germany’s dedication to Europe.

Until recently Germany would have never had the courage to risk destroying the European project to pursue its internal policy goal. Not any more. Schäuble’s position made it clear that the protection of German taxpayers is more important than any other consideration. This new German attitude changes forever the political dynamics in Europe.

Italy, thus, should abandon any dream of unilateral exit from the euro. After Tsipras’s experience no reasonable politicians will lead Italy down this path and beware of the unreasonable ones. The feasible options –in my view — are only three.
The first is to accept the status quo and realize that our economic policy is decided in Germany and that Germany is not willing to change it to for our needs. Thus, let’s abandon false hopes about introducing some flexibility in the rules, ain’t going to happen. While this approach could be a winning one for conservative parties, like the Spanish PPE, it is suicidal for any party of the Left. We see what happened to the Greek Pasok and what is happening to the Spanish PSOE. If the Italian PD wants to avoid extinction, it better not choose this option.
The second is to attempt to get Germany out of the euro. As I explained in my book Europa o no (Europe or not), an exit from the euro of a country with a stronger currency is much more doable. Unfortunately, the country with a stronger currency has no interest in doing so, unless it is threatened with a possible worse outcome.
What is worse for the Germans? Inflation. Thus, promoting a revision of the European Central Bank’s mandate, so that price stability is defined as an consumer price inflation that is on average 4% (instead that less than 2% as it is today), would probably start to freak the Germans out. The problem is that the theoretical bases for this move are not so strong and it will be easy for the Germans to resist this attempt.

The last and better option is to conduct a battle to make the euro sustainable. The first step in this direction is to introduce some automatic transfers that will help the countries in temporary recession, e.g. a European unemployment insurance mechanism. All economists worth this name agree on the necessity of such transfers. Nobody objects in principle. All the objections are short-sighted national political objections. There is no better time to overcome them. During the last euro meeting, the French President Hollande has broken the Paris-Berlin axis and he is in desperate need to re-establish himself as a European leader. To this purpose there is nothing better than pushing a proposal for a European unemployment insurance system with Italian support. The chances of seeing it implemented are increased by Germany’s temporary political weakness. Schäuble’s very aggressive stand at the last Brussels meeting has raised many criticisms in Germany and even more abroad. Germany cannot afford to dismiss such a proposal out of hand, especially if it cannot ride on the high horse of moral and economic principles, but has to expose its short-sighted national egoism.

This is the moment. If not now, when?

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La prima lezione che l’Italia dovrebbe trarre dalla crisi greca è che un’uscita unilaterale dall’euro è troppo costosa. Solo il tempo ci fornirà le cifre esatte di quanto questi sei mesi di incertezza e tre settimane di chiusura delle banche siano costate all’economia greca. Tuttavia, tali costi sono solo l’antipasto di quello che sarebbe successo con la Grexit. Persino uno propenso al rischio come Varoufakis di fronte all’abisso della Grexit l’ha sconsigliata. E tutti questi disastri sono accaduti con un referendum che sulla scheda elettorale neanche accennava alla possibilità dell’uscita dall’euro. Cosa succederebbe in Italia se – come sembra volere il Movimento 5 Stelle – avessimo un referendum sull’euro?

La seconda e terza lezione possono essere apprese guardando agli errori principali di Tsipras nei negoziati. Il primo – imperdonabile – errore è di non avere un piano B. Imperdonabile perché ha tentato di bluffare e quando il suo bluff è stato scoperto, lui è finito. Doppiamente imperdonabile perché aveva sei mesi per prepararlo. Ma poteva esserci un Piano B? Se preparato in modo appropriato, un cambio di moneta è possibile, per quanto rischioso. Il problema è che tanto meglio funziona quanto più efficiente è la burocrazia dello Stato e più segreto rimane il piano. Su entrambi i fronti, mi sembra che le possibilità che possa funzionare in Italia siano molto scarse. Un altro Piano B per la Grecia sarebbe stato quello di minacciare di prendere la Banca di Grecia e di inondare il mercato con banconote da 10 euro stampate in Grecia. Questa emissione massiccia di banconote da 10 avrebbe avuto un duplice scopo: fornire liquidità alle banche greche e spaventare la Germania circa il rischio di inflazione potenziale nella zona euro. Gli altri paesi europei avrebbero potuto reagire vietando le banconote da 10 euro, ma ciò sarebbe stato costoso per i loro cittadini che le detenevano. A questo proposito l’Italia ha un vantaggio: la Banca d’Italia stampa le banconote da 20 e 50 Euro. È difficile metterle entrambe contemporaneamente fuori legge. In ogni caso sarebbe una cosa da pazzi. Se si vuole giocare duro – come Tsipras ha fatto – è necessario essere pronti ad andare avanti su questa strada. In alternativa, si implora clemenza. Il secondo – più comprensibile – errore fatto da Tsipras è che ha fatto una stima sbagliata della dedizione della Germania al progetto europeo.

Fino a poco tempo la Germania non avrebbe mai avuto il coraggio di rischiare di distruggere il progetto europeo per perseguire un suo obiettivo di politica interna. Ora non più. La posizione di Schäuble ha chiarito che la protezione dei contribuenti tedeschi è più importante di qualsiasi altra considerazione. Questo nuovo atteggiamento tedesco cambia per sempre le dinamiche politiche in Europa. 

L’Italia, dunque, dovrebbe abbandonare qualsiasi sogno di uscita unilaterale dall’euro. Dopo l’esperienza di Tsipras nessun politico ragionevole porterà l’Italia su questa strada e bisogna stare attenti a quelli irragionevoli. Le opzioni possibili – dal mio punto di vista – sono solo tre.
La prima è quella di accettare lo status quo e rendersi conto che la nostra politica economica è decisa in Germania e che la Germania non è disposta a cambiarla per le nostre esigenze. Così, abbandoniamo false speranze di introdurre una certa flessibilità nelle regole, non accadrà. Anche se questo approccio potrebbe essere vincente per i partiti conservatori, come il PPE spagnolo, è suicida per i partiti di Sinistra. Vediamo cosa è accaduto al PASOK greco e quello che sta accadendo al PSOE spagnolo. Se il PD italiano vuole evitare l’estinzione, è meglio non scegliere questa opzione.
La seconda è quella di cercare di far uscire la Germania dall’euro. Come ho spiegato nel mio libro “Europa o no”, l’uscita dall’euro di un paese con una valuta più forte è molto più fattibile. Purtroppo, il paese con una valuta più forte non ha alcun interesse a farlo, a meno che non sia minacciato da qualcosa di peggio. Cos’è peggio per i tedeschi? L’inflazione. Quindi, promuovere una revisione del mandato della Banca centrale europea, in modo che la stabilità dei prezzi sia definita come l’aumento armonizzato dei prezzi al consumo del 4% (invece di meno del 2% come è oggi), inizierebbe probabilmente a far perdere le staffe ai tedeschi. Il problema è che le basi teoriche di questa mossa non sono così forti e sarà facile per i tedeschi resistere a questo tentativo. 

L’ultima e migliore opzione è quella di condurre una battaglia per rendere l’euro sostenibile. Il primo passo in questa direzione è quello di introdurre dei trasferimenti automatici che aiutino i paesi in recessione temporanea, come, ad esempio, un’assicurazione comune europea contro la disoccupazione. Tutti gli economisti degni di questo nome concordano sulla necessità di tali trasferimenti. Nessuno è contrario in linea di principio. Tutte le obiezioni sono miopi obiezioni di politica interna. Non c’è momento migliore per superarle. Durante l’ultimo eurosummit, il presidente francese Hollande ha rotto l’asse Parigi-Berlino e ha un disperato bisogno di riposizionarsi come leader europeo. A questo fine non c’è niente di meglio che portare avanti una proposta per un’assicurazione comune europea contro la disoccupazione, con il supporto italiano. Le possibilità di vederla attuata sono aumentate in virtù della temporanea debolezza politica della Germania. La posizione molto aggressiva di Schäuble durante l’ultima riunione di Bruxelles ha sollevato critiche in Germania e ancor più all’estero. La Germania non può quindi permettersi di respingere tale proposta su due piedi, soprattutto non potendo fare appello ad alti principi morali ed economici, ma solo a un miope egoismo nazionale.

È il momento giusto. Se non ora, quando?

Mossa obbligata per salvare l’euro

Testo dell’articolo pubblicato su L’Espresso del 31.12.2014

Il 2015, anno quinto della crisi dell’eurozona, si apre nell’attesa di massicci acquisiti di titoli pubblici da parte della Banca Centrale Europea, il cosiddetto quantitative easing (QE). Tutti invocano questa misura, ma pochi la capiscono. Avverrà veramente a gennaio? Metterà fine alla crisi della moneta comune? Non sono certo un indovino, ma la teoria economica può aiutarci a rispondere.

Per sostenere il livello di scambi e quindi anche il livello di reddito, tutte le economie necessitano di una quantità di moneta proporzionale al livello del loro reddito. Quando la quantità di moneta disponibile è eccessiva, il livello dei prezzi sale (ovvero si genera inflazione). Quando la quantità di moneta in circolazione è troppo poca, i prezzi scendono (deflazione) e rischia di scendere anche il reddito (recessione). Per questo ogni banca centrale regola la quantità di moneta in modo da evitare entrambi gli estremi. La quantità di moneta in circolazione, però, non è rappresentata solo dalle banconote emesse dalla BCE ma anche da tutti i depositi bancari. Molti di questi depositi sono detenuti da imprese cui le banche stesse hanno aperto delle linee di credito. Quindi una parte importante della moneta è prodotta dal sistema bancario quando estende credito.
La crisi economica ed ancor più la crisi del sistema bancario, cui è stato giustamente richiesto di ricapitalizzarsi, hanno ridotto l’ammontare di prestiti bancari e quindi indirettamente l’ammontare di moneta in circolazione. Per ristabilirlo la BCE ha inizialmente abbassato il tasso di sconto. Essendo arrivata pressoché a zero, non ha che un’alternativa: comprare titoli in cambio di depositi presso la BCE. Così facendo aumenta il livello di depositi e quindi la quantità di moneta.

Se è così semplice perché la Bundesbank (ovvero la banca centrale tedesca) si oppone? Per due motivi. Primo, il sistema bancario tedesco è messo meglio di quello del Sud Europa. Quindi la moneta in circolazione in Germania è sufficiente a sostenere un reddito crescente, senza causare alcuna deflazione. Non rischiando molto, i tedeschi vedono solo l’aspetto negativo di un aumento dell’offerta di moneta: il rischio di un’inflazione leggermente più alta.
Il secondo motivo è più politico. Un acquisto massiccio di titoli pubblici (ivi inclusi quelli di governi del sud d’Europa) trasferisce un sostanziale rischio di credito sulle spalle della BCE e quindi pro quota sui contribuenti tedeschi. Si tratta, anche in forma lieve, di una integrazione fiscale che ne’ i tedeschi ne’ i francesi vogliono. Per di più, questo trasferimento attenua gli incentivi alla disciplina fiscale nel Sud d’Europa, aumentando le preoccupazioni tedesche che si tratti dell’inizio di continui sussidi al Sud.

Le preoccupazioni tedesche non sono infondate, ma sono usate strumentalmente. Se i tedeschi volessero venirci incontro, si potrebbero trovare soluzioni alternative. Un’economista americano, ad esempio, ha suggerito che invece di comprare titoli pubblici europei, la BCE compri titoli pubblici americani. Questo eliminerebbe il rischio di trasferimenti fiscali all’interno dell’Europa e non allenterebbe la pressione alla disciplina fiscale nel Sud Europa. In aggiunta, avrebbe l’effetto di svalutare l’euro rispetto al dollaro, aumentando le esportazioni dell’Europa.
Ci sono dubbi su quanto forte possa essere l’effetto espansivo di QE, soprattutto partendo da tassi di interesse sui titoli pubblici (anche periferici) molto bassi. La svalutazione del cambio è sicuramente il canale potenzialmente più importante. Ma molto si gioca sulla credibilità di una azione anche futura. Le divisioni trapelate all’interno del Consiglio della BCE non fanno che indebolire l’effetto potenziale di QE, tanto che alcuni pensano che le fughe di notizie siano una strategia tedesca.
Se approvato, QE non metterà fine alla crisi dell’area euro. Ma se non dovesse essere approvato, sarebbe un segnale devastante per il progetto europeo. Evidenzierebbe la mancanza di una volontà politica di salvare l’eurozona, mettendo in dubbio la sopravvivenza stessa dell’euro.
Di una sola cosa possiamo stare certi: il prossimo anno non ci sarà da annoiarci.

Grillo: parliamo del dopo euro

Sarà stato il numero di presenti secondo alcuni al di sotto delle aspettative, sarà stato per coprire i dissensi interni, o sarà stato per riprendere in mano l’iniziativa politica da tempo controllata unicamente da Matteo Renzi, sabato al Circo Massimo Beppe Grillo ha deciso di passare il Rubicone.
Dopo aver parlato a lungo di un referendum sull’uscita dell’Italia dall’euro, Grillo ha deciso di farne il centro della sua campagna autunnale. L’idea è brillante e potenzialmente vincente per il Movimento 5 Stelle, mentre è rischiosa e potenzialmente disastrosa per l’Italia.

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Una dissonanza preoccupante

Leggo sempre con interesse gli editoriali di Wolfgang Münchau sul Financial Times e così è stato con quello di domenica 7 Settembre (l’articolo è visibile ai soli abbonati), che vi riassumo qui brevemente.

Münchau si chiede cosa debba fare Draghi per far ripartire l’economia europea e, pur elencando tre principali teorie economiche – Keynesiana, monetarista, strutturalista – mostra scarso interesse per quelle che considera ormai dispute tra economisti.  Continua a leggere

Il mito del “below 2%, but close”

Tra i militari si dice che i generali sono sempre perfettamente addestrati a combattere la guerra precedente, ma non quella che verrà. Lo stesso vale per le banche centrali. Queste istituzioni vengono create e regolamentate per combattere le crisi del passato, non quelle del futuro. La Banca Centrale Europea ne è un esempio.

Quando la BCE fu creata, la preoccupazione principale era prevenire l’inflazione. Per questo alla BCE fu assegnato un solo obiettivo: la stabilità dei prezzi. Nel determinare la politica monetaria, la Federal Reserve americana guarda non solo alla stabilità dei prezzi, ma anche alla disoccupazione. Alla BCE, invece, non è stata data questa flessibilità per paura che potesse abusarne, causando inflazione.
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