Nel 2003, nell’articolo “Se l’onestà non paga” proponevo di “premiare chi denuncia episodi di criminalità economica con un compenso proporzionato all’entità della frode”. All’epoca il termine whistleblower (letteramente colui che fischia) era ancora tradotto in Italia con il termine di “delatore” ed aveva un connotato fortemente negativo. Per questo l’idea di pagare i “delatori” suonava come un premio ai traditori, moralmente riprovevole.
Questa percezione si basava su una confusione tra fedeltà e legalità. La fedeltà ad un criminale, non solo è un atto moralmente riprovevole, è esso stesso un crimine. Denunciarlo non è un atto di tradimento, ma un atto eroico. Questo vale se il criminale è un mafioso, un corruttore, o un inquinatore.
Da allora ho fatto ricerche sul whistleblowing (in primis “Who blows the whistle on corporate fraud”, con i colleghi Dyck e Morse, nel 2009 ) e ho scritto numerosi articoli di cui trovate in basso alcuni link.
Da questi studi ho imparato quanto elevati siano i costi pagati dai whistleblower: non solo vengono ostracizzati da colleghi ed amici, ma spesso non trovano più lavoro per il resto della vita. Molto spesso i whistleblower sono odiati come sono odiate le “secchie” a scuola: perché facendo in modo coscienzioso il loro dovere ci fanno sentire moralmente inferiori. Altre volte sono temuti: un superiore non sempre onesto ha paura di un dipendente whistleblower.
Ma ho anche imparato che i premi ai whistleblower funzionano. Negli Stati Uniti il governo ha recuperato decine di miliardi di dollari grazie alle denunce dei whistleblower. Ma questi sono niente in confronto ai benefici non visibili: moltissime persone sono state dissuase dal commettere una frode per la paura di un whistleblower.
Ciononostante quando parlavo di questo argomento in Italia, fino a non molto tempo fa, avvertivo una reazione tra l’indifferenza e il fastidio. Negli ultimi tempi le cose sono cambiate. Vuoi perché sono molti i cittadini che (lo vediamo con i tanti scandali bancari) ci rimettono di tasca propria, vuoi perché ci si sta finalmente rendendo conto che la corruzione, oltre che moralmente riprovevole, è un costo alto per tutti, fatto sta che sempre più spesso emergono episodi di denuncia di illeciti da parte di semplici e coraggiosi cittadini.
A questo cambiamento ha senz’altro contribuito la voce, alta e forte, di Papa Francesco, che non solo si è più volte scagliato, in modo tutt’altro che formale, contro la corruzione “che impoverisce senza vergogna”, ma che ha anche esplicitamente invitato i vescovi Italiani a «non essere timidi o irrilevanti nello sconfessare e nello sconfiggere una diffusa mentalità di corruzione pubblica e privata».
Anche la Camera dei Deputati ha da poco approvato una legge in materia che, pur rappresentando un passo avanti, manca però dei due punti principali per poter essere realmente efficace:
1) il premio e 2) la tutela (anonimato) sin da subito per chi denuncia. Speriamo che sia migliorata.
Sappiamo che i cambiamenti culturali sono i più difficili da ottenersi e, in ogni caso, richiedono molto tempo. Per questo, è per me motivo di grande speranza avvertire che in Italia è finalmente cambiata la percezione stessa del whistleblowing, non più visto come delazione, ma come un servizio alla comunità. Questo cambiamento è riflesso anche nella traduzione italiana del termine whistleblower: denunziante civico. Capisco che nell’Italia di 13 anni fa premiare gli onesti sembrava un’idea rivoluzionaria. Ma oggi i tempi sono maturi.
La Fed di New York regolatore «catturato»