Testo dell’articolo pubblicato il 19.02.2017 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole”.
Anche questa primavera, come ogni tre anni, impazza il toto-nomine per le imprese partecipate dallo Stato. Si va dai pettegolezzi alle indagini giudiziarie, si parla di tutto tranne che della cosa più importante: quali obiettivi il Governo vuole conseguire attraverso le sue partecipate?
Io sarei favorevole a una dismissione totale di tutte le partecipazioni statali, ma anche coloro che non lo sono devono convenire che non ha senso detenere delle imprese senza avere degli obiettivi strategici. È solo per garantire dei posti da distribuire ai sostenitori più facoltosi e munifici del leader del momento? Anche per fugare questi dubbi è doveroso che il Governo identifichi quali sono questi obiettivi strategici. Solo da questi obiettivi può discendere l’individuazione delle persone adatte a realizzarli. È la prima domanda che qualsiasi “head hunter” pone al cliente.
Può lo Stato intervenire nella direzione di imprese quotate? Come Elkann interviene su Fca, Del Vecchio su Luxottica, e la famiglia De Agostini su Lottomatica non si vede perché lo Stato non possa intervenire sulle aziende in cui ha un pacchetto di controllo, purché lo faccia nei modi appropriati. Gli interventi non devono essere pressioni occulte sugli amministratori delegati. Il governo deve tracciare delle linee guida chiare e comunicarle sia agli elettori che al mercato.
“Perché un’impresa partecipata dallo Stato non dovrebbe introdurre delle linee guida più severe sull’inquinamento?”
La teoria economica ci dice che un’impresa a controllo pubblico ha un significato in presenza di quelle che gli economisti chiamano esternalità, ovvero situazioni in cui l’attività di produzione influenza il benessere di soggetti diversi dalle parti contraenti (dipendenti, consumatori, fornitori, etc.). Il tipico esempio di esternalità è l’inquinamento. La produzione di pentole con il rivestimento in teflon o di tessuti Gore-tex richiede l’uso di sostanze perfluoro-alchiliche (PFAS). Se non trattate propriamente queste sostanze cancerogene finiscono nelle falde acquifere, come sta succedendo in 21 comuni del Veneto. A pagare i costi di quest’inquinamento sono indistintamente tutti gli abitanti. Perché un’impresa partecipata dallo Stato non dovrebbe introdurre delle linee guida più severe sull’inquinamento? Come oggigiorno molte imprese hanno controlli sulla filiera dei fornitori, per evitare che facciano uso di lavoro minorile, così le imprese a partecipazione statale dovrebbero avere un controllo sull’inquinamento (perlomeno in Italia) dei propri fornitori.
Mi si dirà che questo svantaggia le imprese a partecipazione statale nella competizione di mercato. È vero. Ma questo discorso vale per qualsiasi politica industriale che faccia deviare un’impresa dalla massimizzazione del profitto. Siamo daccapo: se così è, vendiamole che è meglio. Per di più queste imprese, nonostante gli sforzi dell’Unione Europea, ricevono dei sussidi dallo Stato. Per esempio Saipem ha trovato nella Cassa Depositi e Prestiti un provvidenziale compratore, disposto a sacrificare 450 milioni per mantenerne il controllo nelle mani dello Stato. Che cosa hanno ricevuto i contribuenti in cambio di questi 450 milioni?
L’altra importante esternalità è la corruzione, non solo quella nazionale, ma anche quella internazionale. Proprio Saipem ha l’invidiabile primato di essere stata la prima società al mondo a essere condannata per corruzione internazionale con una sentenza passata in giudicato. Altre imprese a partecipazione statale stanno competendo nella “nobile” gara per il secondo posto.
“È molto difficile che una parte delle tangenti pagate all’estero non finisca nelle tasche di qualche manager o faccendiere locale. La corruzione internazionale alimenta la corruzione nazionale”
Se pensiamo che la corruzione all’estero non ci riguardi, facciamo un grosso errore. Innanzitutto, la corruzione finanzia in molti Stati africani dittatori spietati che si arricchiscono smodatamente affamando la loro popolazione. Come il fenomeno dei migranti ci ricorda, il benessere dell’Africa è anche il nostro benessere. Ma poi è molto difficile che una parte delle tangenti pagate all’estero non finisca nelle tasche di qualche manager o faccendiere locale. La corruzione internazionale alimenta la corruzione nazionale. Perché le imprese partecipate dallo Stato non dovrebbero essere in prima linea nella battaglia contro questo cancro? Invece sembrano essere nell’occhio del ciclone.
Contrariamente a quanto si pensi, la grande corruzione è molto più facile da combattere che la piccola: basta controllare i flussi di denaro. La buona pratica internazionale impone una rigorosa due diligence per tutti i pagamenti, ma particolarmente quelli riguardanti commissioni di intermediazione. La decisione spetta al consiglio di amministrazione, e chi sbaglia paga: in termini di carriera, se non penalmente. Non solo se è provata la corruzione (che è sempre molto difficile da provare), ma anche solo se non è stata seguita la procedura. Le imprese a partecipazione statale si sono dotate di una simile procedura? Una procedura è inutile (anzi dannosa) se non viene fatta rispettare: fornisce solo l’illusione del controllo. La vera domanda è: quante sanzioni sono state inflitte dalle partecipate dello stato per violazioni di questa procedura?
Nei prossimi giorni il senatore Mucchetti, presidente della Commissione Industria del Senato, ascolterà i vertici delle principali aziende partecipate dallo Stato. Ci piacerebbe che ponesse queste domande. E soprattutto che pretendesse delle riposte esaustive. Altrimenti che ci teniamo a fare queste partecipazioni?
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