L’Unione Bancaria si infrange sul Piave

Articolo pubblicato su “Il Sole 24 Ore” il 25.06.2017 nella Rubrica Alla Luce del Sole 

Per le due banche popolari venete non poteva finire in modo peggiore. Ci perderanno i contribuenti, che dovranno pagare circa due anni di Imu sulla prima casa per ripianare il buco che si creerà con la liquidazione coatta amministrativa delle due banche. Ci perderanno i clienti, che al posto di tre linee di credito (da Veneto Banca, BPVi, e Banca Intesa) se ne troveranno solo una di gran lunga inferiore alla somma delle tre. Ci perderanno i dipendenti che negli ultimi 18 mesi hanno visto scappare i depositanti, i clienti e le opportunità di mercato e che presto saranno “efficientati” nel nome del consolidamento. Ma soprattutto ci ha perso la credibilità delle istituzioni italiane ed europee, per come l’intera vicenda è stata gestita.

In nome del principio secondo cui il costo dei fallimenti bancari deve essere pagato dagli investitori e non dai contribuenti, l’Europa aveva introdotto la regola del bail-in: ad assorbire le perdite dovevano essere i creditori subordinati, poi quelli senior, per arrivare anche ai depositi sopra i 100mila euro. L’Italia, pur sapendo che le nostre banche avevano venduto subordinati e obbligazioni a clienti inconsapevoli, non si era opposta con sufficiente forza né all’approvazione di questa regola, né alla sua introduzione anticipata al primo gennaio 2016.

Ma quella stessa Europa che si era opposta a qualsiasi tentativo di salvare le banche venete attraverso un intervento statale in nome di un principio, ha gettato il principio alle ortiche quando si è trattato di liquidarle, permettendo al governo italiano di intervenire per rimborsare tutti i creditori, anche quelli che non erano stati truffati. Al tempo stesso, lo Stato italiano che non aveva avuto la forza di ritardare l’introduzione della regola, che non aveva trovato in 18 mesi una soluzione per salvare le due popolari, ha trovato una scappatoia legale per salvare chi? Non certo i risparmiatori truffati, che avrebbero comunque ricevuto un rimborso. Solo gli investitori furbi (o bene informati), che ancora 10 giorni fa compravano al 30% del nominale debito in scadenza di Veneto Banca, che valeva zero e nel prossimo futuro sarà rimborsato alla pari. *
La scelta di rimborsare in toto i creditori non ha una logica economica, ma una politica: si cerca di contenere la rabbia in vista delle prossime elezioni.

Nel maldestro tentativo di prolungare l’agonia di qualche giorno, il Governo italiano ha anche introdotto un pericolosissimo precedente. Dieci giorni fa ha posticipato per decreto la scadenza di un’obbligazione di Veneto Banca. Se il bond fosse stato detenuto dalle grande banche di investimento internazionali, la notizia sarebbe stata sulla prima pagina del Financial Times, ma per qualche vecchietto veneto si muove a stento il Gazzettino. Decisioni come questa spiegano perché in Italia non ci si fida né dello Stato, né delle banche.

Il mercato finanziario si basa sulla fiducia: fiducia che i contratti saranno rispettati e non cambiati in corsa, a seconda del potere politico del contraente. Il decreto del governo mina questa fiducia e crea un pericolosissimo precedente. Quello che è stato fatto per Veneto Banca può essere ripetuto un domani per un’altra banca, o per il governo stesso. Questo è il motivo per cui gli investitori internazionali vogliono titoli emessi secondo il diritto inglese. Ma il nostro debito pubblico è per la stragrande maggioranza emesso sotto il diritto italiano e quindi può essere consolidato in qualsiasi momento con un decreto simile a quello approvato l’altro venerdì dal governo. All’estero si domandano se abbiamo assistito alle prove generali del default della Repubblica Italiana.

Due banche sono morte, uccise non solo dalla cattiva gestione precedente, ma anche dall’incertezza sul futuro, che le ha ulteriormente depauperate. Sono state immolate sull’altare dell’unione bancaria e dell’Europa. Ma sono morte invano. La speranza di una vera unione bancaria si è infranta sul Piave: l’escamotage scelto dal nostro governo svuota l’intera Bank Resolution Recovery Directory e rimanda alle calende greche la possibilità di un’assicurazione europea sui depositi. Perché mai i tedeschi dovrebbero assicurare con i propri soldi chi cambia le carte in tavola?

Ma è la stessa idea di Europa che viene messa in dubbio, almeno nella formulazione cara a molti: l’Europa come fonte di disciplina che costringe i nostri governi a scelte giuste, ma politicamente costose. Nella vicenda delle popolari venete, abbiamo visto il peggio da entrambi i lati. Delle regole logiche (come il bail-in), ma non adatte al nostro sistema economico, vengono applicate in modo arbitrario da una gruppo di sedicenti tecnocrati, più interessati alla sopravvivenza del sistema che li ha generati che a quello dell’economia dei Paesi amministrati. E lungi dal servire da busto ortopedico per raddrizzare l’operato del nostro governo, queste regole servono da scudo per coprire gli errori e gli interessi di chi ci governa. Il risultato è un papocchio che rende l’Italia ancora più inaffidabile di prima.

Al tempo del fallimento del vecchio Banco Ambrosiano fecero molto meglio Andreatta e la Banca d’Italia di allora. È triste che la Seconda Repubblica ci faccia rimpiangere la Prima, ma ancora più triste che a farcela rimpiangere sia anche l’Europa.


*Errata corrige: Un lettore mi ha gentilmente fatto notare che il bond la cui scadenza è stata allungata era un subordinato e quindi riceverà zero, non sarà pagato al 100%. Quest’errore (di cui mi scuso con i lettori)  elimina la preoccupazione che i bene informati ci abbiano guadagnato, non cambia il resto del ragionamento.

Problemi e prospettive del sistema bancario in Italia (video)

Video del mio intervento al convegno “La tutela del risparmio e le prospettive del sistema bancario in Italia – In memoria di Renzo Soatto”, svoltosi a Padova il 25 Febbraio 2017.

Banche, non si gioca con la Commissione d’Inchiesta

Testo dell’articolo pubblicato il 10.01.2017 su “Il Sole 24 Ore”. 

Le crescenti perdite dovute a crediti deteriorati hanno già portato all’intervento dello Stato in Monte dei Paschi di Siena e rischiano di portare ad un intervento statale in altre banche.

Sull’onda della rabbia scatenata da quest’intervento la proposta di pubblicare i nomi dei primi 100 debitori insolventi di MPS sembra trovare consenso da più parti, non ultima dal Presidente dell’Associazione Bancaria Italiana (ABI) Antonio Patuelli.  Continua a leggere

Banche: dobbiamo capire cosa non ha funzionato, per evitare che si ripetano gli errori (intervista)

Testo dell’intervista pubblicata su Il Fatto Quotidiano il 3.01.2017, a cura di Carlo Di Foggia.

“Senza una commissione d’inchiesta sul sistema bancario, l’Italia è condannata a ripetere gli errori del passato”.  Dall’Università di Chicago, dove insegna Finanza, l’economista Luigi Zingales lancia un appello alla classe dirigente ora che il governo ha approvato il soccorso al Monte dei Paschi (e non solo).
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Monte Paschi: Un governo serio mette i soldi ma poi deve fare un’inchiesta (intervista)

Testo dell’intervista pubblicata su Il Giornale il 28.12.2016, a cura di Marcello Zacché.

Zingales: “Ok all’azionista pubblico che ha l’obbligo di pretendere chiarezza sul Monte e informare subito i contribuenti” 

Lo Stato entra in Mps. È un bene o un male? «Data l’attuale situazione è un male necessario», risponde Luigi Zingales, economista italiano tra i più ascoltati al mondo, professore di Finanza alla University of Chicago Booth School of Business.
Di formazione liberale, in questa intervista al Giornale Zingales spiega gli errori, ma anche le opportunità dell’intervento pubblico nelle banche. «È un po’ come quelle medicine che non vorresti mai prendere, fino a quando le devi assumere in tutta fretta. Così questa decisione è arrivata troppo tardi e con troppo poco».
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Monte Paschi: sì all’intervento statale, ma è necessaria una commissione d’inchiesta sulle banche (intervista)

Testo dell’intervista pubblicata sul Corriere Fiorentino il 24.12.2016, a cura di Marzio Fatucchi 

Subito dopo il decreto per gli aiuti di Stato a Mps, il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem ha fatto sapere che prima del salvataggio pubblico varato ieri dal Governo, deve scattare il meccanismo del «bail-in» per la banca. Una misura molto più pesante per azionisti e risparmiatori.
«Quando una banca è solvente secondo gli ultimi criteri decisi dalla Bce, e Mps si trova in questa situazione, lo Stato può intervenire imponendo la conversione dei subordinati solo in caso di crisi sistemica. Non ci sono dubbi che l’Italia sia in tale crisi. Non credo l’Europa voglia discutere su questo aspetto. Io credo che sia un gioco delle parti di fronte ad una “prima volta” nell’applicazione della nuova direttiva sulle banche: la Bce e l’Eurogruppo forse non vogliono essere accusati, un domani, di aver “ceduto su tutto la linea”. Ma stanno scherzando col fuoco: se c’è un motivo per andare alla guerra con l’Europa, questo è uno, non certo per un punto di flessibilità. Anche se l’aver aspettato ad intervenire su Monte dei Paschi, non è stata una buona cosa».

Lei da tempo è a favore dell’intervento di Stato…
«Praticamente scrivo lo stesso articolo da un anno!».

Non è stato un errore aspettare così tanto?
«La mia paura è che sia troppo tardi e troppo poco, non tanto per Banca Mps ma per il sistema bancario italiano. Durante questo periodo la crescita è mancata: negli ultimi sei mesi a Mps avevano altre preoccupazioni e così, non solo a Siena, la condizione è peggiorata. Purtroppo siamo agli inizi di una situazione che rasenta il panico, come dimostra la perdita dei depositi vista a Mps. Esiste il rischio che una gestione non perfetta di questa crisi possa creare incertezze in altre banche. Spero che non succeda, e dobbiamo anche noi della comunicazione essere corretti: questo non è un “bail in”, non sono a rischio depositi e conto correnti. Purtroppo gli italiani si lasciano prendere dal panico facilmente quando si parla di banche. E, ultimo aspetto, la situazione di incertezza porta poi dubbi su tutto. Perché sappiamo che la Bce avrà una revisione del portafoglio “in bonis” di Mps, e mi aspetto altri problemi da qui».

Teme che 5 miliardi di aiuti di Stato non siano sufficienti?
«Non so niente di specifico, ragiono sulla storia e sulle abitudini, in tanti Paesi. Le banche, quando c’è una  crisi bancaria, fanno under-provisioning, tendono a mettere meno soldi da parte per i crediti inesigibili».

Cioè si post-pongono i pagamenti o si consentono dilazionamenti?
«Sì, con sistemi come extend and pretend (estendi il credito ndr) e evergreening (crediti rinnovati a condizioni vantaggiose, dando liquidità per pagare interessi precedenti ndr). Attenzione, in alcuni casi è giusto fare così per evitare il default delle imprese. Queste però sono scelte discrezionali: e il rischio che ci siano problemi di questo tipo emerge in tutte le banche a lungo in crisis».

Da quando il Monte è in crisi, da Siena sono passati alcuni tra i manager considerati migliori nel settore: perché non sono riusciti a farla uscire dal tunnel?
«Cambiare una cultura radicata è molto difficile, non basta un solo manager. E poi, in un momento di carenza di capitale, anche il banchiere più esperto non vuole far risultare troppe perdite, altrimenti la banca salta. Non so se è il problema di Mps, ma è pratica diffusa, soprattutto in Italia, dove non c’è cultura delle regole e dei numeri».

E quale è il rischio?
«Che dopo questo intervento massiccio, lo Stato debba tornare con altri soldi. E sarebbe devastante, dal punto di vista economico e politico».

Ecco, la politica. Un anno fa l’ex presidente del Consiglio Renzi diceva che il sistema bancario era sano. Forse era un modo per evitare di parlare di banche diventate, dopo il caso Etruria, un tallone di Achille per il governo.
«Un presidente del Consiglio o un governatore di BankItalia non possono seminare panico, devono tranquillizzare. Certo, dovrebbero tranquillizzare con fatti concreti e non con la fantasia. Il vero problema non sono le espressioni (alcune infelici, come quella di Renzi che disse “ottimo affare comprare Mps”, che un presidente del Consiglio non deve proprio usare) ma le scelte fatte, gli atti concreti».

Lei, da sempre liberale e liberista, è per la nazionalizzazione. Come il “comunista democratico” Enrico Rossi e il M5S. Chi è fuori posto?
«La gente del XXI secolo non è così divisa tra destra e sinistra come un tempo».

In tanti hanno chiesto di sapere chi sono i cento principali debitori del Monte dei Paschi che non hanno reso soldi e che hanno rischiato di far «saltare» la banca. Sarebbe giusto saperlo?
«Sacrosanto: se il governo fa l’errore di immettere questi soldi sulle banche senza far partire una commissione d’inchiesta, fa un regalo al M5S. La vittoria di Donald Trump negli USA è anche conseguenza della rabbia post intervento statale dopo la crisi finanziaria del 2008: in Usa la commissione è stata fatta ma è stata “politica”, non ha prodotto quasi nulla e questo ha solidificato una narrativa pericolosa. Ci vuole una commissione d’inchiesta su Mps e casi simili, fatta da tecnici, che spieghi come sono andate le cose. Ricordando però anche che il 25% delle nostre imprese è sparito con la crisi: un problema generale c’è».

Il Monte deve restare senese? La direzione generale deve restare a Rocca Salimbeni?
«Capisco che per Siena sia importante, ma è un dettaglio. Quello che serve è un cambiamento radicale del management».

Lo prenderebbe ora un conto al Monte dei Paschi?
«Sì, anche se non metterei più di 100 mila euro: tanto non ce li ho… Ma oggi sicuramente più di ieri, dopo l’intervento dello Stato. Comunque consiglio sempre: mai tutti i soldi in una banca sola».

Monte dei Paschi: i Doveri dello Stato Azionista

Testo dell’articolo pubblicato il 24.12.2016 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole”.

E alla fine… paga Pantalone. Uno Stato che fatica a trovare i soldi per pagare i suoi debiti con le imprese, per restaurare le scuole pericolanti, per finanziare la ricerca stanzia la bellezza di 20 miliardi per salvare le banche. E come se non bastasse, per salvare Monte Paschi, il simbolo del clientelismo politico se non massonico. Come è possibile? Se da un lato c’è chi si domanda se fosse proprio necessario, dall’altro c’è chi si preoccupa se i propri risparmi siano sicuri.

Sono domande più che legittime, cui i cittadini faticano a dare una risposta, frastornati da notizie contradditorie, soffocate dalla polemica politica. Per questo è utile mettere l’attuale situazione italiana in un contesto storico.

Le banche, per loro costituzione, sono istituzioni fragili: prendono a prestito a brevissimo termine (depositi) e prestano a lungo. Questa trasformazione delle scadenze le espone al rischio di una corsa agli sportelli. Questo rischio può essere eliminato proibendo alle banche di fare credito a medio-lungo termine o estendendo una garanzia statale sui depositi. La prima strada (seguita in Italia dopo la riforma del 1936) ha un costo: riduce il credito all’economia. La seconda strada ha il costo di ridurre gli incentivi dei banchieri a prestare in modo oculato.

Proprio per evitare questo rischio l’Europa ha creato il famigerato meccanismo di bail-in. I depositi sono protetti solo fino a 100mila euro. In caso di insolvenza di una banca, prima che lo Stato possa intervenire, gli obbligazionisti e i depositanti con più di 100mila euro devono subire delle perdite fino a un massimo dell’8% dell’attivo di una banca. Queste regole sono state introdotte proprio a difesa dei contribuenti, per evitare che i banchieri abusino della garanzia statale.

Le stesse regole europee, però, riconoscono il rischio di una crisi sistemica. Quando in difficoltà non è una sola banca, ma tutta l’economia, il concetto di solvibilità di una banca diventa scivoloso. Immobili che valgono 100 in condizioni normali, sono venduti a 50 quando tutte le banche sono in crisi. Ma se prendiamo a riferimento il valore di 50, tutte le banche diventano insolventi. Proprio per evitare questo circolo vizioso, la direttiva europea (la Brrd) prevede un’eccezione al bail-in in caso di crisi sistemica: la ricapitalizzazione preventiva. Perché questa avvenga, la banca deve essere considerata solvente almeno nel caso base degli stress test della Banca centrale europea. L’unica condizione (oltre alla determinazione che si tratti di una crisi sistemica) è la conversione dei crediti subordinati.

Questo è quello che avverrà nel caso di Mps. Invocare il bail-in, come ha fatto il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem, è non solo sbagliato, ma veramente pericoloso. Per colpa delle resistenze tedesche, non esiste in Europa una vera assicurazione sui depositi. Quindi, se si diffondesse in Italia il timore che anche i depositi possano essere decurtati, la corsa agli sportelli sarebbe inevitabile, con conseguenze catastrofiche.

Lungi dall’essere una nazionalizzazione (in cui lo Stato vuole sostituirsi al privato), la ricapitalizzazione preventiva è un modo in cui lo Stato interviene a sostegno dell’economia privata. Rimane però il fatto che lo Stato diventa azionista e che intervenendo può favorire arbitrariamente l’una o l’altra parte. Per questo l’opposizione non va fatta all’idea dell’intervento – senza di esso i rischi per i depositanti potrebbero essere enormi – ma al modo in cui sembra essere stato congegnato.

Il primo punto è quale sarà il ruolo dello Stato come azionista. Che la crisi bancaria sia sistemica, non significa che i banchieri non abbiano colpa: significa solo che in Italia il marciume era diffuso. Proprio per questo l’intervento dello Stato non deve essere un colpo di spugna. Le imprese private tendono a guardare avanti: spesso il costo di individuare i colpevoli eccede i benefici. Non è così per lo Stato: scoprire e punire gli eventuali colpevoli non risponde solo alla giustificata rabbia popolare, è un principio fondamentale dello Stato di diritto.

Per cominciare, l’azionista-Stato dovrebbe pubblicare la lista dei primi cento debitori insolventi di Mps, facendo – se necessaria – un’eccezione per decreto alla legge sulla privacy. In secondo luogo l’azionista-Stato dovrebbe promuovere una vera e propria commissione di inchiesta interna, che faccia luce sulle cause del dissesto. Per rendere questa inchiesta possibile, lo Stato dovrebbe introdurre immediatamente il reato di “ostacolo alla giustizia” per tutti coloro che distruggono o occultano dati relativi a tutte le banche. Per finire, l’azionista-Stato dovrebbe imporre un cambio ai vertici, che non solo non hanno raggiunto lo scopo per cui erano stati nominati, ma appaiano troppo compromessi con la storia passata.

Il secondo punto riguarda le forme di intervento, che in tutta probabilità avverrà in due fasi: la conversione delle obbligazioni subordinate in azioni e il rimborso per i clienti retail a cui erano stati venduti i titoli subordinati. Dal sito del ministero apprendiamo che la fase uno avverrà attribuendo ad alcuni titoli (più esposti e detenuti da istituzionali) un valore del 75%, mentre agli altri del 100%. E fin qui sembra logico. Si apprende poi che le azioni convertite verranno riacquistate dal Governo per indennizzare i clienti retail. Non è chiaro come questo venga fatto. In particolar modo se i “rimborsati” saranno solo i clienti retail che hanno originariamente comprato e detenuto fino a oggi i subordinati, o tutti i possessori dei 2,1miliardi di subordinati venduti alla clientela retail. Nel secondo caso i beneficiari sarebbero anche gli hedge fund che hanno comprato negli ultimi mesi. Va bene che siamo a Natale, ma regalare i soldi pubblici agli hedge fund, mi sembra fuori luogo. Se poi si scoprisse che questi hedge fund sono legati in qualche modo al governo, ci sarebbe il rischio di una rivoluzione, a cui mi assocerei io per primo.


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Monte dei Paschi, come evitare un altro scandalo

Testo dell’articolo pubblicato l’11.12.2016 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole”.

Anche se la notizia non è ancora ufficiale, le principali agenzie internazionali la riportano come un fatto certo: la Banca Centrale Europea (Bce) ha rifiutato l’estensione di 20 giorni del termine entro il quale Mps deve aver completato la ricapitalizzazione di 5 miliardi. La decisione era largamente prevedibile. Mps ha avuto 5 mesi di tempo per realizzare questa operazione. Se non c’è riuscito in 5 mesi, cosa potranno 20 giorni in più? È vero che la crisi di governo non ha aiutato la situazione, ma neppure prima c’era la ressa per investire. Quella che fin dall’inizio sembrava una missione impossibile, si è rivelata tale.

Ma la BCE ha un altro motivo per non rimandare. Il 31 dicembre finirà la sua ispezione dei crediti “in bonis”, ovvero dei prestiti a debitori solventi. Si tratta di un’ispezione di routine, ma il risultato potrebbe essere tutto tranne che routinario. Molte banche, quando sono in crisi, applicano la tecnica di estendere il credito, magari aumentando il fido, per coprire le difficoltà finanziarie del cliente. Nel mondo bancario questa pratica ha addirittura un nome: evergreening. Difficile pensare che una banca in crisi da anni, come Mps , non lo abbia praticato almeno un po’. La domanda inquietante è quanto. La risposta verrà a gennaio e potrebbe aprire un altro buco nei conti: una buona ragione per non rimandare la ricapitalizzazione.

La domanda stessa alla Bce sembra essere una tattica politica. La vittoria del No al referendum non era una sorpresa: dall’inizio di settembre era in vantaggio nei sondaggi. Come è possibile che Mps non abbia preparato un piano B?  E se questo piano B prevedeva un rinvio della decisione, possibile che Mps ed il governo non abbiano preventivamente sondato la Bce sulle sue intenzioni? Mi rifiuto di credere che entrambe queste mosse non siano state fatte, sarebbe un segnale sulla qualità della nostra classe dirigente ben più preoccupante della crisi del Mps.

L’unica ragionevole spiegazione è che questa domanda di rinvio sia stata fatta sapendo che sarebbe stata rigettata, solo per scaricare sulla Bce la responsabilità del bail-in delle obbligazioni subordinate, che verranno trasformate in azioni. Rimane da capire in che termini avverrà questo bail-in: in particolare come verranno tutelati gli investitori al dettaglio a cui questi subordinati sono stati venduti senza spiegazioni adeguate.

Ci sono due modi per ovviare a quest’errore. Il primo è che lo Stato si compri sul mercato tutta l’emissione che era stata venduta alla clientela retail. Rimane da stabilire il prezzo, che non deve essere necessariamente il 100% del valore facciale. Vista l’alternativa, i risparmiatori accetterebbero di buon grado anche un valore pari all’80%. Ma rimane il rischio di cause per il 20% mancante. Quindi è facile che l’offerta avvenga al valore nominale. Questo significa un esborso per lo Stato intorno ai due miliardi (il costo è inferiore perché lo Stato riceverebbe in cambio le azioni ottenute dalla conversione dei subordinati). L’alternativa è rimborsare gli investitori retail dopo la conversione dei subordinati e in cambio della cessione delle azioni in cui questi subordinati saranno convertiti.

Questo secondo metodo ha due vantaggi. Il primo è la rapidità. Per quanto veloce, un’offerta pubblica di acquisto richiede tempi tecnici (permesso della Consob, periodo di offerta, ecc.). Con le feste imminenti, difficilmente il tutto potrebbe essere completato entro la fine dell’anno. La seconda è che in un’offerta pubblica è difficile (se non legalmente impossibile) discriminare in base all’identità del venditore, mentre in un rimborso lo è. Questo significa che in un’offerta pubblica anche tutti gli hedge fund che hanno comprato in questi mesi i titoli dagli investitori individuali si troverebbero a beneficiare dell’acquisto al nominale, realizzando guadagni da favola. Nel caso del rimborso, invece, sarebbe relativamente facile limitarlo agli investitori retail che hanno comprato originariamente e detenuto in portafoglio il subordinato. Non so quanto sia il risparmio, ma penso possa facilmente arrivare a centinaia di milioni.

Molti hedge fund che hanno comprato negli ultimi mesi e stanno facendo lobbying sul governo affinché si segua la prima strada. Se il governo cedesse alle pressioni, sarebbe uno scandalo.


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MPS: Convertire o non Convertire, Questo è il Problema

Testo dell’articolo pubblicato il 27.11.2016 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole”. 

Giovedì [24 Novembre] l’assemblea di Monte Paschi ha approvato l’aumento di capitale da 5 miliardi, il primo tassello del piano di salvataggio della banca senese. Il secondo riguarda la conversione volontaria dei titoli subordinati in azioni Mps, che si apre domani. Ai detentori di subordinati viene offerto un ammontare in euro pari al valore nominale del loro titolo. Ma dovranno reinvestire questi soldi in azioni Mps, al prezzo a cui sottoscriveranno i nuovi azionisti.

In apparenza sembra un’ottima offerta. Se nell’aumento di capitale i detentori di subordinati convertiti sono trattati alla pari dei nuovi investitori, che volontariamente investono denaro fresco, è come se quando convertono ricevessero il valore nominale dei loro titoli in azioni Mps.  Dato che sul mercato i subordinati scambiano al 60% del nominale, dobbiamo concludere che chi li compra oggi e converte guadagna il 167% (=100/60) in pochi giorni?

Non necessariamente. Innanzitutto l’operazione può fallire e il compratore si troverebbe dei titoli da un valore incerto. In secondo luogo, siamo in Italia e le azioni non si contano ma si pesano. Il fatto che un azionista sia disposto a pagare 50 cent ad azione per una quota di controllo non significa che per gli azionisti di minoranza le azioni valgano quella cifra. Proprio per questo, la convenienza dell’operazione dipende dalla dimensione di un investitore.

Un piccolo investitore, che detiene così pochi titoli da essere ininfluente  sul risultato finale dell’operazione, deve considerare solo due possibili scenari. Il primo è che l’intera operazione si concluda con successo. Se non ha aderito all’offerta si trova in mano dei titoli subordinati in una banca molto più solida, titoli che avranno un valore di mercato vicino al nominale. Se invece ha aderito, si trova lo stesso ammontare in azioni Mps, che molto probabilmente scambieranno con uno sconto rispetto al valore di sottoscrizione dei grandi investitori, ovvero con un 20-30% in meno.  Quindi se il piccolo investitore si aspetta che l’offerta riesca, non ha interesse ad aderirvi. Nel caso in cui si aspetta fallisca, aderirvi o meno è irrilevante, perché la conversione non avrà luogo. Ergo all’investitore che detiene pochi titoli conviene non aderire all’offerta di conversione, indipendentemente dalle sue aspettative sulla riuscita dell’operazione.

Diverso è il discorso per un investitore con una quota rilevante di subordinati (come ad esempio Generali), che può determinare col suo comportamento la riuscita dell’offerta.  In questo caso la decisione sul da farsi dipende dalle aspettative su cosa succederà se l’operazione fallisce.

Se ci si aspetta che il Governo intervenga per evitare il bail-in di Mps, allora conviene non aderire all’offerta, perché i creditori subordinati recupereranno tutti i loro soldi, scenario improbabile in caso di conversione. Se invece non ci si aspetta alcun intervento governativo e scatta il bail-in, la decisione dipende dalle aspettative sul bail-in. Se il bail-in avviene in modo rapido ed è solo una trasformazione dei subordinati in titoli azionari, conviene non aderire all’offerta. In una conversione volontaria (e quindi non totale) i subordinati che convertono fanno un favore a quelli che non convertono, perché aumentano il capitale sociale che fa da garanzia al debito. Quindi è preferibile avere un titolo azionario dopo un bail-in che forza tutti a convertire, che averlo dopo un bail-in volontario, dove alcuni non convertono.

Se invece ci si aspetta che il bail-in distrugga valore, allora un grande investitore potrebbe preferire una conversione costosa ad un disastro totale.  Ma la distruzione di valore deve essere superiore ai 448 milioni di commissioni che Mps dovrà pagare a JP Morgan se l’operazione riesce, perché altrimenti il bail-in rimane vantaggioso. Sono veramente così alti i costi del bail-in? Se non lo sono, perché in molti si aspettano una riuscita dell’operazione?

Perché – come già più volte hanno evidenziato questo [Il Sole 24Ore] e altri giornali – il Governo è in grado di offrire dei benefici aggiuntivi ai grandi investitori. La credibilità di questo conguaglio, però, dipende in modo cruciale dalla sopravvivenza del governo. Se dovesse cadere dopo il referendum costituzionale, la promessa potrebbe non valere più, da qui lo stretto legame tra vittoria del sì e successo dell’operazione Mps.  Perché ci ostiniamo a chiamarla “operazione di mercato”?


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Un’assicurazione comune contro la disoccupazione per salvare l’Unione Europea

Testo dell’articolo pubblicato l’11.09.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”. 

L’influenza che Angela Merkel e la Germania hanno sulla politica europea non è dovuta solo alla dimensione del paese o alla sua forza economica, ma anche alla straordinaria capacità che i politici ed intellettuali tedeschi hanno di influenzare il dibattito europeo. Scelgono sempre di concentrare le loro battaglie su dei principi economici condivisibili. Poi martellano in tutte le sedi in modo compatto finché ottengono quello che vogliono, dal pareggio di bilancio al bail-in.

La loro determinazione non sarebbe un problema se gli altri paesi – il nostro in primis – facessero altrettanto. Ma non lo fanno. E i politici tedeschi sono molto accorti nella scelta dei principi da sostenere: prediligono solo quelli che sono nel loro stretto interesse nazionale, dimenticandosi degli altri. Ad esempio, si parla poco della mancata implementazione dell’assicurazione comune sui depositi bancari, decisa nel 2012: non è nell’interesse della Germania.

Ma il caso più eclatante è quello della politica fiscale. Qualsiasi economista degno di questo nome riconoscerà che una moneta comune non è sostenibile senza una qualche forma di politica fiscale comune. Eppure dopo 17 anni di moneta comune i passi in avanti su questo fronte sono stati minimi, per non dire nulli. Per anni i nostri governi hanno inutilmente reclamato l’introduzione degli eurobond.  Perché mai i tedeschi dovrebbero accettare di condividere i debiti altrui? Dalla loro non hanno solo l’interesse nazionale, ma anche il principio: la condivisione dei debiti spingerebbe le cicale italiane a contrarre ulteriori debiti. E come dare loro torto?

Per prevalere intellettualmente, bisogna spingere su una forma di politica fiscale che non sia un trasferimento unidirezionale di risorse dalla Germania al Sud Europa e che non distorca gli incentivi dei governi a comportarsi in modo virtuoso. Questa politica esiste: è un’assicurazione europea contro la componente ciclica della disoccupazione. Non si tratta di un trasferimento unidirezionale: nel 2005 la disoccupazione era molto più alta in Germania che in Spagna ed Italia, e quindi il trasferimento sarebbe andato dal Sud al Nord. Disegnando il trasferimento in funzione della componente ciclica della disoccupazione, questa assicurazione non solo non distorce gli incentivi dei governi, ma li migliora: i governi che abbassano la componente strutturale della disoccupazione ricevono più trasferimenti durante una crisi.  Infine, aiuta i governi a mantenere la disciplina fiscale: riducendo la necessità di deficit di bilancio quando uno shock negativo colpisce un Paese.

Proprio per questo dobbiamo rallegrarci dell’iniziativa del nostro Ministero delle Economia, che ha pubblicato sul suo sito una proposta di assicurazione europea per la disoccupazione. Sono poche pagine che illustrano come un’assicurazione comune avrebbe un costo relativamente limitato (50 miliardi all’anno) e genererebbe trasferimenti non unidirezionali.  La proposta prende anche posizione su alcuni nodi cruciali, come l’amministrazione comune di questa assicurazione, scelta che dovrebbe tranquillizzare i paesi nordici dal rischio di abusi.

Al momento, però, si tratta di un timido sforzo, sia dal punto di vista intellettuale che politico. Fintantoché il governo italiano è isolato in questo sforzo, non ha possibilità di riuscita. E fintantoché concentra tutti i propri sforzi nell’elemosinare decimali di “flessibilità” sul deficit, non ha l’autorità politica e morale per creare una coalizione a sostegno di questa idea.  È necessario il massimo impegno a tutti i livelli per fare di questa proposta la bandiera della nuova Europa, non tanto e solo per il benessere dell’Italia, ma per quello dell’Europa intera. Senza una politica fiscale comune, la moneta comune non ha futuro. Ben lo sapevano i fondatori, ma confidavano che – con il tempo – questa politica fiscale comune sarebbe emersa. Dopo 17 anni la fiducia non basta più. Bisogna passare ora dalle buone intenzioni alle azioni. Domani potrebbe essere troppo tardi.


Qui di seguito i link ai precedenti articoli della Rubrica “Alla Luce del Sole”: 

– Quale soluzione per il Monte Paschi?
– Crisi bancarie, chi non impara dalla storia le ripete
– Quel «tesoretto» della bad bank del Banco di Napoli
– Quante sofferenze si nascondono negli “incagli”?
– Cosa Insegnano ad Atlante le Sofferenze del Banco di Napoli 
– Le Operazioni di Sistema sono Aiuti di Stato?
– Aguzzate la vista
L’azione di responsabilità è fondamentale per ricostruire la fiducia nelle banche Italiane
Deutsche Bank e Monte Paschi: similitudini e differenze
– Salvare le banche per far ripartire l’economia
– L’importanza di un Buon Piano di Successione e il Ruolo del Consiglio di Amministrazione 
Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia
– Cosa fare per evitare che il “decreto banche” diventi solo un regalo alle banche
– Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori
– Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi 
– Le Responsabilità della Consob sulle Obbligazioni Subordinate
– Gli stipendi degli AD e quei paracadute troppo grandi

Quale soluzione per il Monte Paschi?

Testo dell’articolo pubblicato il 4.09.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”. 

Mercoledì il Sole ha riportato per primo la notizia che l’aumento di capitale del Monte dei Paschi potrebbe essere di “solo” 3 miliardi di euro perché gli altri due verrebbero dalla conversione volontaria dei subordinati nelle mani degli investitori internazionali. Ieri da Cernobbio sono arrivate conferme in questo senso. Come potrebbe svilupparsi questa soluzione?

In circolazione ci sono 4,9 miliardi di euro di subordinati MPS, di cui 638 milioni in scadenza entro ottobre (difficile immaginare che gli investitori convertano questi) e 2,161 miliardi nelle mani di clienti retail. Quindi il bail-in volontario (perché di questo si tratterebbe) sarebbe possibile solo su 2,1 miliardi di euro. La maggior parte di questi è a tasso fisso tra il 5% e il 7%. Perché mai un investitore istituzionale dovrebbe scegliere volontariamente la conversione?

Un’ipotesi è che i “volontari” siano attirati da un rapporto di conversione molto conveniente. Il ragionamento filerebbe se non ci fosse un successivo aumento di capitale, che rischia di annullare qualsiasi beneficio. Far riuscire l’aumento, il consorzio di collocamento farà di tutto per rendere le nuove azioni attraenti, riducendo il prezzo delle azioni esistenti, ivi incluse quelle appena convertite. Quindi se l’aumento di capitale riesce, chi ha convertito si trova azioni molto diluite che non pagano alcun dividendo, mentre chi non lo ha fatto mantiene dei titoli che rendono tra il 5 e il 7%. Se l’aumento non riesce, ci sarà il bail-in: il valore delle azioni sarà azzerato e i subordinati saranno convertiti forzatamente in azioni. Ovvero chi ha convertito prima perde tutto, chi ha aspettato non può fare peggio e nel frattempo ha accumulato interessi.

La conversione non sarebbe conveniente anche se chi converte oggi ricevesse la garanzia di essere trattato come gli altri subordinati in caso di bail-in: perderebbe comunque gli interessi elevati nel frattempo.  Ma se è così, chi mai convertirà volontariamente?

Una possibilità è che il governo offra a coloro che convertono dei vantaggi speciali. Ma ciò sarebbe in totale contrasto con le direttive europee sugli aiuti di stato.  L’alternativa è un appello patriottico: dovete convertire per salvare l’Italia. Ma gli investitori istituzionali che detengono i subordinati devono rispondere ai propri azionisti (molti dei quali non sono neppure italiani). Se dovessero rinunciare a parte del valore dei loro titoli per fare un favore al sistema Italia, con tutta probabilità sarebbero oggetto di cause legali da parte dei loro azionisti.  Ognuno ha il diritto di donare i propri soldi, ma non quelli altrui. L’ipotesi della conversione volontaria fa sospettare che la realtà sia ben diversa: il mercato non è disponibile ad investire 5 miliardi di euro in MPS. Che si può fare?

Se il governo non vuole perseguire la soluzione sistemica – auspicata già da tempo in questa rubrica – l’unica alternativa è un bail-in modificato. In ballo ci sono 2,1 miliardi di euro di titoli subordinati venduti alla clientela retail (il taglio medio era stato ridotto a mille euro proprio per attirare i piccoli risparmiatori).  Questi investitori, però, hanno goduto di un tasso maggiorato (+2.5% sull’Euribor a 6 mesi) per 8 anni. Se il Governo vuole proteggerli, ma non premiarli, dovrebbe riacquistare i loro titoli ad un prezzo che annulla il beneficio in termini di extra rendimento ricevuto. Questo valore è pari all’80% del prezzo di emissione.

Dopo il riacquisto dei subordinati in mano alla clientela retail, il bail-in dei rimanenti subordinati sarebbe sacrosanto e fornirebbe complessivamente 4,2 miliardi di equity alla banca senese. Se poi fosse necessario, sarebbe relativamente facile, con una banca ripulita dai subordinati, raccogliere un paio di miliardi di equity attraverso un’emissione azionaria.

Investendo 1,68 miliardi di euro (0.8X2.1), il governo sarebbe in grado di rimettere in piedi il Monte dei Paschi. Perché non farlo?  Non si dica che ce lo impedisce l’Europa. A Bruxelles (e Berlino) preferirebbero di gran lunga questa soluzione, che salverebbe il principio del bail-in, a qualsiasi altra soluzione pasticciata.


Qui di seguito i link ai precedenti articoli della Rubrica “Alla Luce del Sole”: 

– Crisi bancarie, chi non impara dalla storia le ripete
– Quel «tesoretto» della bad bank del Banco di Napoli
– Quante sofferenze si nascondono negli “incagli”?
– Cosa Insegnano ad Atlante le Sofferenze del Banco di Napoli 
– Le Operazioni di Sistema sono Aiuti di Stato?
– Aguzzate la vista
L’azione di responsabilità è fondamentale per ricostruire la fiducia nelle banche Italiane
Deutsche Bank e Monte Paschi: similitudini e differenze
– Salvare le banche per far ripartire l’economia
– L’importanza di un Buon Piano di Successione e il Ruolo del Consiglio di Amministrazione 
Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia
– Cosa fare per evitare che il “decreto banche” diventi solo un regalo alle banche
– Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori
– Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi 
– Le Responsabilità della Consob sulle Obbligazioni Subordinate
– Gli stipendi degli AD e quei paracadute troppo grandi

Deutsche Bank e Monte Paschi: similitudini e differenze

Testo dell’articolo pubblicato il 10.07.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”.

“Chi conosce la realtà delle cose, sa che la vera questione sulla finanza europea non sono gli Npl (i crediti deteriorati, ndr) delle banche italiane, ma sono i derivati di altre banche” ha dichiarato il Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Il riferimento non troppo implicito era a Deutsche Bank (DB), che sembra soffrire in Borsa (-45% dall’inizio dell’anno, -11% dalla Brexit) quasi quanto il nostro Monte Paschi (-76% dall’inizio dell’anno, -38% dalla Brexit). In Italia sono in molti ad usare questa analogia.  Non è solo l’antico “mal comune, mezzo gaudio”, ma anche la speranza che la crisi della principale banca tedesca renda più flessibili i politici di quel Paese, facilitando a livello europeo l’autorizzazione ad iniettare capitale pubblico in MPS senza prima coinvolgere i titoli subordinati. Si tratta di una ragionevole scommessa?

Ci sono molti punti di similitudine tra MPS e DB. Innanzitutto, entrambe soffrono sia di una crisi patrimoniale che di una crisi reddituale. Patrimoniale, perché il mercato non crede nel valore contabile delle loro attività. Con un attivo di €169 miliardi, MPS capitalizza in Borsa solo €600 milioni; con un attivo di €1629 miliardi DB capitalizza solo €16,3 miliardi. Le azioni possono essere considerate un’opzione sul valore degli attivi con un prezzo di esercizio pari al valore delle passività. Usando questo metodo, per ottenere una capitalizzazione di borsa pari a quella di MPS bisogna ipotizzare che il valore degli attivi sia del 33% inferiore a quello contabile, per DB del 24%.

Crisi reddituale perché entrambe faticano a trovare un nuovo modello di business che sia profittevole. Infine, entrambe sono state coinvolte in numerosi scandali. La differenza è che DB ha già pagato profumatamente ($2,5 miliardi solo per la manipolazione sul Libor), MPS non ancora.

Ma ci sono due importanti differenze. La prima è che DB è principalmente una banca d’affari (presta solo il 26% del suo attivo) che opera sui mercati internazionali. Per questo la Federal Reserve americana l’ha considerata una banca a rischio sistemico. MPS rimane ancora principalmente una banca commerciale (presta il 66% dell’attivo), con una forte presenza in Toscana e Veneto. Non può essere un rischio sistemico a livello internazionale, non perché non sia a rischio (il costo per assicurarsi contro il default di un bond di MPS è più di 3 volte quello per un titolo simile di DB), ma perché non è sufficientemente grande e interrelata con le altre grandi istituzioni mondiali da essere sistemica.

La seconda differenza è nel come sono finanziate. DB ha depositi per il 35% dell’attivo, obbligazioni per l’8%, e subordinati per 1%. MPS, invece, ha depositi per il 47%, obbligazioni per il 18%, e subordinati per il 2%. Ma le obbligazioni ed i subordinati di DB sono stati venduti sul mercato ed ora sono posseduti da investitori diversificati, molti internazionali. Non altrettanto MPS. Gli investitori sono principalmente nazionali e molti di questi sono investitori al dettaglio, a cui spesso questi titoli sono stati venduti non spiegando (o peggio occultando ) i rischi specifici.

La prima di queste differenze implica che la Germania può permettersi di aspettare ad intervenire su DB: anche se DB riducesse i suoi prestiti all’economia, l’impatto interno sarebbe limitato e comunque le altre banche potrebbero facilmente compensare. Non altrettanto vale per MPS. L’effetto sull’economia sarebbe devastante soprattutto su Toscana (già colpita dalla crisi di Banca Etruria) e Veneto (colpito dalla crisi di BPVi e Veneto Banca).

La seconda differenza implica che un bail-in dei subordinati ed anche dei creditori di DB non avrebbe conseguenze tragiche in Germania perché sarebbe assorbito nel portafoglio degli investitori istituzionali, mentre avrebbe effetti devastanti in Italia. Se il bail-in di €250 milioni di subordinati di Banca Etruria ha prodotto un suicidio, molta disperazione, ed una fuga dai depositi bancari, cosa potrebbe causare il bail-in di €2,8 miliardi di subordinati di MPS?

Qui di seguito i link ai precedenti articoli della Rubrica “Alla Luce del Sole”:

– Salvare le banche per far ripartire l’economia
– L’importanza di un Buon Piano di Successione e il Ruolo del Consiglio di Amministrazione 
– Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia
– Cosa fare per evitare che il “decreto banche” diventi solo un regalo alle banche
– Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori
– Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi 
– Le Responsabilità della Consob sulle Obbligazioni Subordinate
– Gli stipendi degli AD e quei paracadute troppo grandi