Banche, quella commissione d’inchiesta che non s’ha da fare

Testo dell’articolo pubblicato il 10.09.2017 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole”. 

“Sì alla commissione d’inchiesta” sulle crisi bancarie, dichiarava Renzi nel 2015, rispondendo alle molte richieste in questo senso. Dopo 2 anni, la commissione, istituita solo lo scorso luglio, deve ancora partire. Difficilmente, da qui alla fine della Legislatura, riuscirà a fare alcunché.

In assenza di un’inchiesta, i cittadini devono accontentarsi dei libri sull’argomento. A Marzo, Greco e Vanni hanno pubblicato “Banche Impopolari” (Mondadori), un racconto utile e dettagliato sulla storia del nostro sistema bancario. Qualche mese dopo sono stati depositati gli atti di citazione contro i vertici delle Popolari Venete, basati sulle indagini interne effettuate dal nuovo management.

C’è da prendere paura. Per esempio, il cda della BPVi ha accordato 50 milioni di prestiti al sig. Ravazzolo “in assenza di analisi economico-reddituali sul cliente” (non venivano fornite né le dichiarazioni dei redditi, né informazioni di dettaglio sugli immobili), senza garanzie, nonostante il Nucleo Analisti di Direzione avesse segnalato l’opportunità di adeguato “supporto garantistico”. Ma si tratta di un atto di citazione. Decideranno i giudici la fondatezza di queste accuse. Sempre che i processi si celebrino, perché in Non c’è spazio per quel giudice, di Cecilia Carreri (Mare Verticale), scopriamo che un processo contro Zonin non venne mai celebrato. Nel 2001 Bankitalia aveva effettuato un’ispezione da cui erano nati pesanti rilievi al CdA e una denuncia all’autorità giudiziaria. Dall’indagine che ne seguì emerse “una continua commistione tra interessi istituzionali della BPVi e interessi personali o societari del tutto estranei”. Il processo non avvenne mai.
Invece, un processo celebrato (anche se solo in 1° grado) è quello descritto nel libro di Carlotta Scozzari Banche in sofferenza (GoWare), sulla Carige. Visto che in Italia la presunzione di innocenza vale fino alla sentenza passata in giudicato (ovvero per i reati economici fino a quando la prescrizione libera tutti), quanto riferito nel libro non deve essere interpretato come verità assodata. Ciononostante è interessante scoprire che secondo i giudici Giovanni Berneschi, padre padrone di Carige, gestiva da anni un’associazione a delinquere usando il trucco più vecchio del mondo: dei sodali compravano immobili a 100 e li rivendevano a Carige Vita a 200. Scrivono i giudici: “l’anomalo incremento dei prezzi degli immobili in percentuali macroscopicamente elevate in brevissimo tempo è emerso in maniera evidente: gli immobili – prevalentemente a destinazione alberghiera – venivano acquistati da società del gruppo Cimatti e, in seguito, del gruppo Cavallini e rivenduti nel giro di pochi giorni – se non addirittura lo stesso giorno – agli istituti assicurativi, subendo una lievitazione di prezzo ben lontana dal margine normalmente tollerato.” In sostanza il gruppo Cavallini ha acquistato immobili per 71 milioni di euro rivendendoli a Carige Vita a più del doppio. Il tutto per anni.

“La magistratura ha strumenti d’indagine – mi si dirà – che consiglieri, presidenti di società, perfino le autorità di vigilanza non hanno. Quindi non è colpa loro se non hanno visto. Non c’è governance che possa evitare tutte le frodi”. Ma ciò può essere vero per operazioni complicate, non per semplici acquisti d’immobili a prezzi gonfiati, facili da prevenire. Basta che le regole interne di una società quotata prevedano l’identificazione dei proprietari effettivi di tutte le imprese da cui la società stessa acquista. Perdere qualche legittimo affare perché un venditore non vuole rivelare i propri azionisti è un piccolo prezzo da pagare per evitare frodi di questo tipo. Inoltre, in tutti gli acquisti l’audit interno di una società quotata dovrebbe monitorare le deviazioni significative dei prezzi dagli standard di mercato.

Né frodi, né mala gestio bastano a spiegare le crisi bancarie, ma, come dice Warren Buffett, “quando c’è bassa marea si scopre chi nuota nudo.” Ed è durante le crisi economiche che si scopre chi ruba e chi è incompetente. Anche se gli inetti e i ladri non sono la sola causa della crisi, perché non approfittare della crisi per mandare a casa i primi e sbattere in galera i secondi? Almeno c’è la speranza di ripartire dopo la crisi con una classe dirigente migliore.


“La commissione d’inchiesta sulle banche è praticamente svanita: si è persa un’altra occasione per imparare dai propri errori e avere una classe dirigente migliore.”

Lo scopo delle indagini non è solo quello di mettere in galera i colpevoli, ma anche quello di imparare dagli errori. Così, la totale trasparenza societaria delle controparti di società quotate è una condizione semplice per evitare questo tipo di frode. In Italia è adottata da tutte le quotate? Purtroppo lo scorso autunno abbiamo scoperto che non era adottata neanche dal Gruppo 24 Ore, proprietario di questo giornale. Con i problemi che sono emersi. Sarebbe opportuno che la Consob richiedesse alle quotate almeno di dichiarare se seguono questa best practice.

Questo è solo un piccolo esempio dei benefici che si sarebbero potuti ottenere da una seria Commissione d’Inchiesta. Purtroppo è un’altra occasione perduta. Pur con tutte le sue lentezze, non ci resta che sperare nella magistratura. Sempre che non arrivi prima la prescrizione.


Qui altri miei articoli sul tema “banche”.

Qui gli altri articoli della rubrica “Alla Luce del Sole” 

L’Unione Bancaria si infrange sul Piave

Articolo pubblicato su “Il Sole 24 Ore” il 25.06.2017 nella Rubrica Alla Luce del Sole 

Per le due banche popolari venete non poteva finire in modo peggiore. Ci perderanno i contribuenti, che dovranno pagare circa due anni di Imu sulla prima casa per ripianare il buco che si creerà con la liquidazione coatta amministrativa delle due banche. Ci perderanno i clienti, che al posto di tre linee di credito (da Veneto Banca, BPVi, e Banca Intesa) se ne troveranno solo una di gran lunga inferiore alla somma delle tre. Ci perderanno i dipendenti che negli ultimi 18 mesi hanno visto scappare i depositanti, i clienti e le opportunità di mercato e che presto saranno “efficientati” nel nome del consolidamento. Ma soprattutto ci ha perso la credibilità delle istituzioni italiane ed europee, per come l’intera vicenda è stata gestita.

In nome del principio secondo cui il costo dei fallimenti bancari deve essere pagato dagli investitori e non dai contribuenti, l’Europa aveva introdotto la regola del bail-in: ad assorbire le perdite dovevano essere i creditori subordinati, poi quelli senior, per arrivare anche ai depositi sopra i 100mila euro. L’Italia, pur sapendo che le nostre banche avevano venduto subordinati e obbligazioni a clienti inconsapevoli, non si era opposta con sufficiente forza né all’approvazione di questa regola, né alla sua introduzione anticipata al primo gennaio 2016.

Ma quella stessa Europa che si era opposta a qualsiasi tentativo di salvare le banche venete attraverso un intervento statale in nome di un principio, ha gettato il principio alle ortiche quando si è trattato di liquidarle, permettendo al governo italiano di intervenire per rimborsare tutti i creditori, anche quelli che non erano stati truffati. Al tempo stesso, lo Stato italiano che non aveva avuto la forza di ritardare l’introduzione della regola, che non aveva trovato in 18 mesi una soluzione per salvare le due popolari, ha trovato una scappatoia legale per salvare chi? Non certo i risparmiatori truffati, che avrebbero comunque ricevuto un rimborso. Solo gli investitori furbi (o bene informati), che ancora 10 giorni fa compravano al 30% del nominale debito in scadenza di Veneto Banca, che valeva zero e nel prossimo futuro sarà rimborsato alla pari. *
La scelta di rimborsare in toto i creditori non ha una logica economica, ma una politica: si cerca di contenere la rabbia in vista delle prossime elezioni.

Nel maldestro tentativo di prolungare l’agonia di qualche giorno, il Governo italiano ha anche introdotto un pericolosissimo precedente. Dieci giorni fa ha posticipato per decreto la scadenza di un’obbligazione di Veneto Banca. Se il bond fosse stato detenuto dalle grande banche di investimento internazionali, la notizia sarebbe stata sulla prima pagina del Financial Times, ma per qualche vecchietto veneto si muove a stento il Gazzettino. Decisioni come questa spiegano perché in Italia non ci si fida né dello Stato, né delle banche.

Il mercato finanziario si basa sulla fiducia: fiducia che i contratti saranno rispettati e non cambiati in corsa, a seconda del potere politico del contraente. Il decreto del governo mina questa fiducia e crea un pericolosissimo precedente. Quello che è stato fatto per Veneto Banca può essere ripetuto un domani per un’altra banca, o per il governo stesso. Questo è il motivo per cui gli investitori internazionali vogliono titoli emessi secondo il diritto inglese. Ma il nostro debito pubblico è per la stragrande maggioranza emesso sotto il diritto italiano e quindi può essere consolidato in qualsiasi momento con un decreto simile a quello approvato l’altro venerdì dal governo. All’estero si domandano se abbiamo assistito alle prove generali del default della Repubblica Italiana.

Due banche sono morte, uccise non solo dalla cattiva gestione precedente, ma anche dall’incertezza sul futuro, che le ha ulteriormente depauperate. Sono state immolate sull’altare dell’unione bancaria e dell’Europa. Ma sono morte invano. La speranza di una vera unione bancaria si è infranta sul Piave: l’escamotage scelto dal nostro governo svuota l’intera Bank Resolution Recovery Directory e rimanda alle calende greche la possibilità di un’assicurazione europea sui depositi. Perché mai i tedeschi dovrebbero assicurare con i propri soldi chi cambia le carte in tavola?

Ma è la stessa idea di Europa che viene messa in dubbio, almeno nella formulazione cara a molti: l’Europa come fonte di disciplina che costringe i nostri governi a scelte giuste, ma politicamente costose. Nella vicenda delle popolari venete, abbiamo visto il peggio da entrambi i lati. Delle regole logiche (come il bail-in), ma non adatte al nostro sistema economico, vengono applicate in modo arbitrario da una gruppo di sedicenti tecnocrati, più interessati alla sopravvivenza del sistema che li ha generati che a quello dell’economia dei Paesi amministrati. E lungi dal servire da busto ortopedico per raddrizzare l’operato del nostro governo, queste regole servono da scudo per coprire gli errori e gli interessi di chi ci governa. Il risultato è un papocchio che rende l’Italia ancora più inaffidabile di prima.

Al tempo del fallimento del vecchio Banco Ambrosiano fecero molto meglio Andreatta e la Banca d’Italia di allora. È triste che la Seconda Repubblica ci faccia rimpiangere la Prima, ma ancora più triste che a farcela rimpiangere sia anche l’Europa.


*Errata corrige: Un lettore mi ha gentilmente fatto notare che il bond la cui scadenza è stata allungata era un subordinato e quindi riceverà zero, non sarà pagato al 100%. Quest’errore (di cui mi scuso con i lettori)  elimina la preoccupazione che i bene informati ci abbiano guadagnato, non cambia il resto del ragionamento.

Problemi e prospettive del sistema bancario in Italia (video)

Video del mio intervento al convegno “La tutela del risparmio e le prospettive del sistema bancario in Italia – In memoria di Renzo Soatto”, svoltosi a Padova il 25 Febbraio 2017.

Quelle banche condannate a cambiare (in fretta) – Video

Il 31 marzo scorso, nell’ambito del Festival Città Impresa diretto da Dario Di Vico, si è svolto un confronto tra Ferruccio de Bortoli e me, sul tema delle banche. Qui di seguito il video dell’incontro, che è stato moderato da Nicola Saldutti.


Qui altri miei articoli sul tema “banche”.

Orrori bancari, la responsabilità non è delle famiglie (che hanno ripagato il 95% dei debiti). Il Caso Veneto.

Intervista pubblicata su Corriere Imprese NordEst il 13 Marzo 2017, a cura di Alessandro Macciò.

Il suo lavoro, presentato all’Università di Padova nel corso di un convegno sulla tutela del risparmio, sarà anche “artigianale” come ha detto, ma rende bene l’idea. Luigi Zingales, docente padovano di Finanza alla University of Chicago Booth School of Business, ha preso la lista dei primi trenta debitori della Banca Popolare di Vicenza, resa nota dal TG La7 di Enrico Mentana, ha spostato indietro le lancette di qualche anno e ha fatto un po’ di calcoli. Il risultato è che nel 2008, quindi agli albori della crisi, il 35% di questi clienti (che alla fine del 2015 rappresenteranno il 29% delle sofferenze in bilancio di Bpvi) navigava già in cattive acque, con un rapporto medio tra posizione finanziaria netta e margine operativo lordo ampiamente sopra la soglia fissata per ottenere il credito. Dal sospetto alla certezza, per Zingales il passo è breve. “Le banche non hanno fatto bene il loro mestiere”. Al convegno del Bo, organizzato dallo studio Cortellazzo&Soatto, c’era anche il viceministro Morando. E Zingales ha colto la palla al balzo per spronare il governo a indagare sui grandi debitori delle banche Venete.

Professor Zingales, partiamo dal quadro internazionale. Brexit, Trump, spinte populiste: quali sono le ripercussioni economiche sul sistema economico del Nordest?
Il clima politico certamente non aiuta e le tensioni nell’Area Euro possono avere un riverbero negativo, ma nel caso si può dire che piove sul bagnato: l’Italia sta uscendo dalla crisi troppo lentamente e con ripercussioni eccessive in certi settori. I Non performing loan (Npl, cioè i crediti deteriorati delle banche che i debitori non riescono a ripagare) ci dicono che le famiglie sono state virtuose e che i problemi di concessione del credito hanno riguardato soprattutto l’edilizia. In Spagna i prezzi degli immobili sono crollati molto più che in Italia, eppure il tasso di non performing loan raggiunge il 35% delle imprese Spagnole e il 50% di quelle Italiane: questo livello di perdite è difficile da spiegare, per fare meglio bastava buttare i soldi a caso. La domanda quindi è: perché la vigilanza non si è accorta di questi errori sistematici? Per evitare di ripeterli serve un’indagine seria, come quelle dell’aviazione americana dopo gli incidenti aerei.

 

Finora si conosce la lista dei primi trenta debitori di Bpvi. Cosa emerge dall’analisi?
Viene da chiedersi perché i responsabili della banca abbiano esteso il credito e non abbiano fatto qualcosa per evitare l’aumento dei debiti. E la vigilanza?  Ha visto e non poteva intervenire, o non ha proprio visto? Nel primo caso bisogna adottare nuovi strumenti, nel secondo bisogna fare altri tipi di riflessione. Manca la pistola fumante, ma le domande sono forti.

Oltre a Bpvi, anche Veneto Banca ha rischiato il default e si è salvata solo grazie all’intervento del fondo Atlante. Qual è il suo giudizio sulla vicenda delle due ex Popolari Venete?
Un sistema di grandi banche con capitali di rischio a prezzi fatti in casa era sbagliato dal principio, ma ci sono gravi colpe di chi ha guardato dall’altra parte. Dove sono oggi i commercialisti che hanno validato i prezzi delle azioni? Dov’erano le autorità di vigilanza, anche la Consob, quando le banche hanno approvato gli aumenti di capitale? Nel 2014 ho scritto più volte che serviva più trasparenza sui prezzi e che le semplici spiegazioni allegate ai prospetti non bastavano: la mia non è una critica ex post, ma fatta sul momento. Per tutta risposta c’è stato un silenzio di tomba, e gli investitori hanno perso tutto.

Il piano di rilancio di Bpvi e Veneto Banca prevede la fusione tra i due istituti: le sembra la soluzione corretta? 
Oggi la situazione è molto brutta: servirà un aumento di capitale massiccio e il fondo Atlante non può sostenerlo. La domanda a questo punto è: lo Stato azzererà l’investimento in Atlante o no? Per me sì, perché Atlante è un soggetto privato che ha investito e ha perso. Per ridurre le perdite si farà un consolidamento che comporterà la riduzione dei posti di lavoro e una concentrazione delle forze bancarie: quando c’è una fusione in vista e le banche parlano di sinergie, il risultato sono tagli sui costi del personale e sul potere di mercato.

Se l’operazione andrà in porto, quale scenario dobbiamo aspettarci? 
Il Veneto avrà un sistema bancario più snello e la fusione peggiorerà le cose, è inevitabile. Il governo Italiano dovrebbe seguire l’esempio di quello Spagnolo, che ha ricapitalizzato il settore bancario e oggi assiste a una crescita economica superiore al 3%. In Italia invece si fanno solo interventi tampone, troppo tardi e con risorse inadeguate: per mettere la parola fine al problema c’è bisogno di una svolta.


Qui altri miei articoli sul tema “banche”

Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori

Testo dell’articolo pubblicato il 5.06.2016 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole” . A seguire, la lettera al giornale del dott. Salvatore Rossi – presidente dell’Ivass e direttore generale della Banca d’Italia – e la mia breve replica.
Qui, qui e qui i precedenti articoli della rubrica.


Se in tutte le società esiste il rischio di un conflitto d’interessi, nelle imprese assicurative questo rischio è massimo. Il management di una compagnia di assicurazione non gestisce solo le risorse dei soci, ma decide anche sull’allocazione dell’enorme massa di risparmio che appartiene a chi ha sottoscritto un fondo pensione il cui valore dipende interamente o in parte dalla performance degli investimenti. Se – per esempio – il management di un’assicurazione investe in un fondo di private equity di un amico con commissioni elevate ma una cattiva performance, il costo della cattiva performance viene pagato in parte dagli assicurati, mentre la gratitudine dell’amico va tutta al management.

Non a caso l’ex presidente di Generali, Cesare Geronzi, aveva definito la compagnia di Trieste  “la mucca dalle cento mammelle.” Parlava con cognizione di causa, visto che Giovanni Perissinotto, amministratore delegato dell’epoca, si vantava di aver usufruito delle riserve tecniche per il non felice investimento in Telecom Italia: un modo elegante per dire che a pagare (anche solo con un rendimento nullo) per le perdite di quell’investimento erano gli assicurati e non gli azionisti.

Proprio per evitare questi problemi, si stanno facendo sempre più stringenti le regole in materia di “investimenti e di attivi a copertura delle riserve tecniche”, ovvero le regole che le compagnie assicurative devono seguire nell’investire i soldi degli assicurati per evitare i conflitti di interesse di cui sopra. Per esempio, un regolamento del 2011 dell’ISVAP (il progenitore dell’attuale IVASS – Istituto di Vigilanza delle Assicurazioni) esclude i crediti deteriorati dalle attività in cui le assicurazioni possono investire le riserve tecniche.

Lo scorso anno l’autorità delle assicurazioni europee (EIOPA) ha emanato delle nuove linee guida in materia. Queste regole – messe in consultazione pubblica dall’IVASS – introducono una serie di importanti modifiche. Oltre al rafforzamento dei controlli interni, il nuovo regolamento prevede che gli investimenti debbano essere fatti in base al “principio della persona prudente”. In particolare le assicurazioni devono garantire la qualità, la liquidità e la redditività del portafoglio, anche attraverso “specifiche procedure di analisi prospettiche quantitative per i rischi derivanti da attivi complessi” con particolare riguardo a Fondi di Investimento Alternativi italiani e UE (art 18).

Le consultazioni pubbliche si sono chiuse il 15 di febbraio, ma l’IVASS non ha ancora emesso il regolamento finale.  Viene da chiedersi quale ruolo abbia giocato in questo ritardo l’esigenza di Banca d’Italia di convincere le compagnie di assicurazione ad investire le riserve tecniche degli assicurati nel fondo Atlante,  dedicato principalmente a comprare i crediti deteriorati del sistema. Nonostante l’IVASS sia teoricamente un’autorità amministrativa indipendente, è presieduta dal direttore generale della Banca d’Italia.

È difficile immaginare che l’investimento in Atlante rispetti il “principio della persona prudente.” È illiquido, altamente rischioso, e con un rendimento atteso dichiarato di solo il 6%: meno di un semplice indice azionario. Trattandosi di un fondo d’investimento alternativo, dovrebbe anche essere analizzato con “procedure di analisi prospettiche quantitative” e gli organi di gestione e controllo delle assicurazioni dovrebbero assumersi la responsabilità di questa scelta.

Perché allora tutte le principali assicurazioni italiane (ma non quelle estere) si sono affrettate a sottoscrivere il fondo Atlante? Perché l’IVASS, che dovrebbe proteggere gli assicurati, ha preventivamente eletto Atlante come strumento legittimo per gli investimenti delle riserve tecniche di Classe C, sollevando il management dalla responsabilità. Alla protezione dei consumatori, la Banca d’Italia sembra anteporre le esigenze di stabilità.  Affinché la protezione sia effettiva, tutte le funzioni di difesa del consumatore dovrebbero essere raggruppate in un organo separato, veramente indipendente.


Lettera del dott. Salvatore Rossi, presidente dell’Ivass e direttore generale della Banca d’Italia, pubblicata su “Il Sole 24 Ore” del 7.06.2016 

Caro Direttore, Le chiedo ospitalità per replicare all’articolo «Le assicurazioni e i consumatori da difendere con un’Authority» del Prof. Luigi Zingales, pubblicato sul Sole 24 Ore di domenica 5 giugno. Zingales, con garbo ma con la consueta severità, rimprovera all’Ivass, l’istituto di vigilanza sulle assicurazioni che presiedo pro tempore, alcuni recenti comportamenti. In particolare, egli si chiede come mai un certo regolamento di attuazione di una “linea guida” proposta dall’Eiopa (l’autorità europea in materia assicurativa e di fondi pensione), che l’Ivass ha già posto in consultazione pubblica, non sia stato ancora emanato. Trattandosi di norme che riguardano tra l’altro anche gli investimenti delle compagnie assicurative, il Prof. Zingales affaccia l’ipotesi che ciò dipenda da una malcelata volontà dell’Ivass di favorire il finanziamento del fondo Atlante.

Qualche precisazione è necessaria, nell’interesse di una più completa informazione dei lettori del Sole 24 Ore. Il tema può sembrare per addetti ai lavori, ma è rilevante per milioni di assicurati.

Il regolamento che si attendeva è stato approvato ieri dall’organo collegiale dell’Ivass. Si tratta di una coincidenza, non ci siamo affrettati per il pungolo, peraltro sempre benvenuto, del Prof. Zingales. Mi sarebbe in effetti piaciuto che questo regolamento fosse stato emanato prima e mi scuso per il ritardo, che ha però delle buone ragioni: le regole da definire erano molte e i numerosi commenti ricevuti nel corso della consultazione andavano attentamente vagliati. Siamo nel pieno di una rivoluzione normativa su scala europea (discendente dalla Direttiva Solvency II). L’Eiopa ha pubblicato circa 700 linee-guida su svariati temi di grande complessità. Per recepirle, l’Ivass ha dovuto finora preparare e mettere in consultazione 24 articolati regolamenti, alcuni ancora da emanare. Insomma eravamo, e ancora siamo, in un vero e proprio ingorgo regolamentare.

Ma veniamo al merito della questione sollevata da Luigi Zingales.

Intanto sgomberiamo il campo da un possibile equivoco: il “principio della persona prudente” (in tempi più maschilisti si sarebbe detto del buon padre di famiglia) che l’articolista invoca è, sì, fissato da Solvency II, ma va applicato all’intero portafoglio di investimenti di un’impresa assicurativa; l’Eiopa esplicitamente esclude che esso debba applicarsi a ogni singolo investimento in ogni sua declinazione ( sicurezza, qualità, liquidità, profittabilità), altrimenti la gestione finanziaria delle compagnie diverrebbe troppo rigida, a scapito degli stessi assicurati.

Atlante è, sotto il profilo della regolamentazione assicurativa, un “fondo di investimento alternativo” come tanti altri. Se una compagnia decide di acquistarne delle quote deve sottostare a particolari requisiti di capitale e di governance, incluse specifiche analisi quantitative, il cui rispetto è verificato dall’Ivass, come sempre in casi analoghi. In ogni caso quelle quote non possono essere incluse nelle polizze unit linked, in cui il rischio è in capo all’assicurato.

Nel regolamento appena emanato non vi è alcuna agevolazione pensata per Atlante. Per la verità, Atlante non c’entrava e non c’entra nulla con quel regolamento.

Un altro equivoco possibile è che l’ISVAP (istituto predecessore dell’Ivass) avesse vietato alle compagnie di investire in crediti bancari deteriorati, ma che questo divieto sia poi stato, o sarà, rimosso. Chiarisco che nulla cambia: era e resta vietato per le compagnie investire direttamente in crediti bancari deteriorati; era e resta consentito acquisire quote di veicoli speciali o di fondi che a loro volta investano in crediti bancari deteriorati. La ratio di questa seconda opzione è che il rischio sarebbe ripartito fra una pluralità di investitori, vi sarebbero presidi come una quotazione o un rating, le compagnie sarebbero comunque tenute al rispetto dei requisiti specifici prima menzionati.

Il Prof. Zingales conclude auspicando che la tutela del consumatore di servizi finanziari venga accentrata in un’autorità indipendente apposita. È naturalmente un’opinione legittima. Vi sono nel mondo alcuni importanti esempi di questo tipo di assetto istituzionale, anche se nella maggior parte dei paesi avanzati si ritrovano assetti più somiglianti al nostro. L’Ivass ha una lunga tradizione di tutela dei singoli assicurati. La Banca d’Italia ha fatto dal canto suo negli ultimi anni importanti investimenti in questo campo, a partire dall’Arbitro Bancario Finanziario. La tutela della stabilità del sistema finanziario è un interesse pubblico anch’esso fondamentale, perché è la prima difesa degli interessi dei risparmiatori. La storia di tutti i paesi ci insegna che casi di instabilità finanziaria grave si sono sempre pesantemente ripercossi sull’intera platea dei risparmiatori e degli acquirenti di servizi finanziari. Le due tutele vanno dunque perseguite entrambe, sono complementari l’una all’altra e si rafforzano a vicenda.


Mia breve replica alla lettera del dott. Salvatore Rossi, pubblicata su “Il Sole 24 Ore” del 7.06.2016 

Ringrazio molto il dott. Salvatore Rossi per le precisazioni e il giudizio di commentatore “garbato ma severo”. Rimango tuttavia preoccupato del fatto che il regolamento Ivass proibisca alle assicurazioni di investire in crediti deteriorati, ma non in fondi che investono in crediti deteriorati. Se così fosse, qualsiasi restrizione potrebbe essere aggirata pagando una commissione ad un gestore che rimpacchetta un’attività, rendendola legittima. Penso che sarebbe utile se l’Ivass intervenisse per chiarire e tranquillizzare i tanti consumatori che hanno affidato i loro sudati risparmi alle assicurazioni.

Money and friendship blind justice / Schei e amicissia orba la giustissia

Article written for Il Sole 24 Ore

People are angry in Vicenza. The Banca Popolare di Vicenza (BPV) has lost more than one billion euros in the first half of 2015 and is asking for a 1.5 billion capital increase to survive. Angry are the shareholders who have patriotically supported their local bank over the years with continuous capital increases. The losses in the first half have devoured last year’s one billion euro capital increase and reduced the value of shares by 25%, and now the bank is forcing them to launch another massive capital increase. Angry are the bank unions, knowing that the new recovery plan will require heavy cuts in the number of employees. Also angry are the debtors of BPV, who bought shares in the bank as part of the loans received and now have to find new funds to finance their purchases, right when these shares are not easy to sell. The anger of all of these people has been unleashed against the European Central Bank. They speak of “real extortion by the “commissioners” in Frankfurt.” At risk is not only the bank but also the same Northeast model. Are we facing an attack by Europe on our local banking system, vital to sustaining Italian small businesses?

In order to attribute responsibility, you need to understand the facts. The loss of 1.05 billion euros and the need for a massive capital increase is not due to a sudden worsening of the BPV’s business, or to the introduction of new regulations, but due entirely to four accounting transactions.
The first is the reduction by 269 million (equal to 58%) of the value of goodwill, or the load value that the BPV reported from past acquisitions. This reduction in the first half of 2015 followed another reduction of 600 million on December 31, 2014. How is it possible that within 18 months, which by the way were characterized by falling rates and a slight recovery, the goodwill of BPV has decreased by 81.5%? Is it due to excessive rigidity by Frankfurt’s regulators, or by excessive laxity in previous years?
The second source of losses (of 119 million) was due to the reclassification of the value of certain investments in the Sicav funds. As of 12/31/2014, the balance sheet value of all of BPV’s Sicav funds amounted to about 215 million. How is a loss of 55% in six months, during which stocks markets have risen on average, possible? Again is it due to excessive rigidity by Frankfurt’s regulators, or by excessive laxity in previous years?
The third source of losses, equal to 703 million euros, was due to an increase in the coverage of non-performing loans, which rose from 31.5% on December 31, 2014, to 39.6% on June 30, 2015. It’s hard to believe that in 6 months BPV’s customer solvency has deteriorated so much, especially since the bank, in its interim report, speaks of the “first signs of improvement” in the Italian credit market. Is it perhaps the case that the previous provisions were too small?
The need for a capital increase higher than the losses is due to the discovery by ECB inspectors of “correlations between subscribed capital and loans made to some members.” If a bank lends money to members so that they will buy shares in that same bank, the bank’s capital reserve is artificially inflated. But since BPV was involved in playing this game, this was not a new discovery by the Frankfurt commissioners. Gianni Zonin, the bank’s president, had told the Giornale di Vicenza in a December 28, 2013 interview: “40% of new members have sought funding to join the proposed plan, but 60% did not need any support.”

In light of all these factors, the conspiracy theory of Europe versus poor Vicenza does not seem to hold up. Why should the ECB’s supervision have it in for just BPV and not the more fearsome banks in the European market such as Unicredit and Intesa? More than a year ago, the Bank of Italy had made similar findings of Veneto Banca, findings that resulted in fining the entire board of directors for 2.7 million euros. Thanks to this earlier intervention, the adjustments imposed today by the ECB on Veneto Banca are lower. The question, then, is not why the ECB has been so severe with BPV, but why the Bank of Italy has not been.

Responsibility lies not just with the Bank of Italy, but also with those institutions in charge of ensuring that financial statements give a true picture of the accounting situation. This starts with the board of directors and the supervisory board, which have protecting accounting integrity as their main reason for being. Next is the auditing committee, which is the guarantor of the budget, supported by external experts. They are particularly important in unlisted banks, since they take on the responsibility of determining the value of shares. Then there’s the Consob [the public authority responsible for regulating the Italian financial markets], responsible for proper disclosures to the market. In the frequent solicitations into the public savings of BPV, has Consob always demanded necessary transparency to protect the investors? A year ago, at the last increase, I raised my doubts about this to the Sole 24 Ore.
Neither auditors nor formal controls are lacking. They are not lacking the capacity to perform these checks: many of the ECB inspectors in charge of Italian banks are from the Bank of Italy. What is lacking is political will. Why is that? Perhaps we can find the answer to this in a local proverb: “schei e amicissia orba la giustissia” (money and friendship blind justice).

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A Vicenza sono arrabbiati La  Banca Popolare di Vicenza (Bpv) nei primi sei mesi del 2015 ha perso più di un miliardo di euro e chiede 1,5 miliardi di aumento di capitale per sopravvivere. Sono arrabbiati gli azionisti che hanno patriotticamente sostenuto la loro banca locale con continui aumenti di capitale.
Le perdite del primo semestre hanno divorato l’aumento di capitale da un miliardo dell’anno scorso, hanno decurtato il valore delle loro azioni del 25%, e ora costringono la banca a lanciare un altro massiccio aumento di capitale. Sono arrabbiati i sindacati della banca, consapevoli dei pesanti tagli che il nuovo piano di rilancio imporrà al numero di dipendenti. Sono arrabbiati anche i debitori della BPV, che avevano comprato azioni della banca con parte dei prestiti ricevuti ed ora devono trovare nuovi fondi per finanziare i loro acquisti, proprio quando queste azioni non risultano facilmente vendibili. La rabbia di costoro si scatena contro la Banca Centrale Europea. C’è chi parla di «veri e propri ricatti da parte dei “commissari” di Francoforte». A rischio non ci sarebbe solo la banca, ma lo stesso modello Nord Est. Ci troviamo di fronte ad un attacco dell’Europa al nostro sistema di banche locali, vitale per sostenere le piccole imprese italiane?

Per attribuire correttamente le responsabilità bisogna comprendere i fatti. La perdita di 1,05 miliardi e la necessità del massiccio aumento di capitale non sono dovuti ad un improvviso peggioramento del business della BPV, né all’introduzione di nuove normative, ma interamente a quattro fatti contabili.
Il primo è la riduzione di 269 milioni (pari al 58%) del valore di avviamento, ovvero al valore di carico a cui la BPV riportava le passate acquisizioni. Questa riduzione nel primo semestre 2015 segue un’altra di 600 milioni fatta al 31 dicembre 2014. Come è possibile che nel giro di 18 mesi , tra l’altro caratterizzati da tassi in discesa e da una timida ripresa, il valore di avviamento della BPV si sia ridotto dell’8i.5%? Si tratta della eccessiva rigidità del regolatore di Francoforte o piuttosto di una eccessivo lassismo degli anni passati?
La seconda fonte di perdite (per 119 milioni) è dovuta alla riclassificazione del valore di alcune partecipazioni in fondi Sicav. Al 31/12/2014 il valore di bilancio di tutte le Sicav detenute da BPV era pari a 215 milioni. Come è possibile una perdita del 55% in 6 mesi, durante i quali i mercati azionari sono mediamente saliti? Di nuovo si tratta dell’eccessiva rigidità del regolatore di Francoforte o piuttosto di una eccessivo lassismo degli anni precedenti?
La terza fonte di perdite, pari a 703 milioni, è dovuta ad un aumento dell’indice di copertura dei crediti deteriorati, che passa dal 35,1% del 31 dicembre 2014 al 39,6% del 30 giugno 2015. Difficile pensare che in 6 mesi la solvibilità dei clienti BPV sia peggiorata così tanto anche perché la stessa banca, nella sua relazione semestrale, parla di «primi segnali di miglioramento» nel mercato del credito in Italia. Non è forse il caso che gli accantonamenti precedenti erano troppo esigui?
La necessità di un aumento di capitale superiore alle perdite nasce dalla scoperta degli ispettori della Bce di «correlazioni tra capitale sottoscritto e finanziamenti concessi ad alcuni soci». Se una banca presta i soldi ai soci affinchè comprino le azioni della banca stessa, la riserva di capitale della banca risulta inflazionata artificialmente. Ma che la BPV fosse coinvolta in questa partita di giro non è una novità scoperta dai commissari di Francoforte. Gianni Zonin, il presidente della banca, lo aveva dichiarato al Giornale di Vicenza in un’intervista, il 28 dicembre 2013: «II 40% dei nuovi soci ci ha chiesto un finanziamento per aderire al piano proposto; il 60% invece non ha avuto bisogno di alcun sostegno».

Alla luce di tutti questi fattori, la teoria della cospirazione europea contro la povera Vicenza non sembra reggere. Perché mai la vigilanza della Bce dovrebbe accanirsi proprio con la BPV e non con banche più temibili sul mercato europeo come UniCredit e Intesa? Tanto più che un anno fa la stessa Banca d’Italia aveva fatto rilievi molto simili a Veneto Banca, rilievi che avevano portato ad una multa di 2,7 milioni all’intero consiglio di amministrazione. Anche grazie a questo intervento più tempestivo, oggi gli aggiustamenti imposti dalla Bce a Veneto Banca sono inferiori. La domanda, quindi, non è perché la Bce sia stata cosi severa con la BPV, ma perché la Banca d’Italia m passato non lo sia stata.

La responsabilità non è solo di Bankitalia, ma anche di tutte quelle istituzioni preposte a garantire che i bilanci rappresentino un’immagine veritiera della situazione contabile. A cominciare dal consiglio di amministrazione e dal collegio sindacale, che ha nella protezione dell’integrità contabile la sua principale ragione d’essere. Poi c’è la società di revisione, che del bilancio si fa garante, supportata da esperti esterni. Specialmente nelle banche non quotate sono loro che si assumono la responsabilità di determinare il valore delle azioni. Poi c’è la Consob, responsabile della corretta comunicazione al mercato. Nelle frequenti sollecitazioni al pubblico risparmio della BPV, la Consob ha sempre preteso la trasparenza necessaria per tutelare gli investitori? Un anno fa, in occasione dell’ultimo aumento, io sollevavo i miei dubbi a riguardo sul Sole.
I controllori non mancano, né mancano i numerosi controlli formali. Non è mancata neppure la capacita di effettuare questi controlli: molti degli ispettori Bce preposti alla banche italiane vengono da Bankitalia. È mancata la volontà politica. Perché? Forse la risposta s’ha da trovare in un proverbio di quelle zone: «schei e amicissia orba la giustissia».