Banche, quella commissione d’inchiesta che non s’ha da fare

Testo dell’articolo pubblicato il 10.09.2017 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole”. 

“Sì alla commissione d’inchiesta” sulle crisi bancarie, dichiarava Renzi nel 2015, rispondendo alle molte richieste in questo senso. Dopo 2 anni, la commissione, istituita solo lo scorso luglio, deve ancora partire. Difficilmente, da qui alla fine della Legislatura, riuscirà a fare alcunché.

In assenza di un’inchiesta, i cittadini devono accontentarsi dei libri sull’argomento. A Marzo, Greco e Vanni hanno pubblicato “Banche Impopolari” (Mondadori), un racconto utile e dettagliato sulla storia del nostro sistema bancario. Qualche mese dopo sono stati depositati gli atti di citazione contro i vertici delle Popolari Venete, basati sulle indagini interne effettuate dal nuovo management.

C’è da prendere paura. Per esempio, il cda della BPVi ha accordato 50 milioni di prestiti al sig. Ravazzolo “in assenza di analisi economico-reddituali sul cliente” (non venivano fornite né le dichiarazioni dei redditi, né informazioni di dettaglio sugli immobili), senza garanzie, nonostante il Nucleo Analisti di Direzione avesse segnalato l’opportunità di adeguato “supporto garantistico”. Ma si tratta di un atto di citazione. Decideranno i giudici la fondatezza di queste accuse. Sempre che i processi si celebrino, perché in Non c’è spazio per quel giudice, di Cecilia Carreri (Mare Verticale), scopriamo che un processo contro Zonin non venne mai celebrato. Nel 2001 Bankitalia aveva effettuato un’ispezione da cui erano nati pesanti rilievi al CdA e una denuncia all’autorità giudiziaria. Dall’indagine che ne seguì emerse “una continua commistione tra interessi istituzionali della BPVi e interessi personali o societari del tutto estranei”. Il processo non avvenne mai.
Invece, un processo celebrato (anche se solo in 1° grado) è quello descritto nel libro di Carlotta Scozzari Banche in sofferenza (GoWare), sulla Carige. Visto che in Italia la presunzione di innocenza vale fino alla sentenza passata in giudicato (ovvero per i reati economici fino a quando la prescrizione libera tutti), quanto riferito nel libro non deve essere interpretato come verità assodata. Ciononostante è interessante scoprire che secondo i giudici Giovanni Berneschi, padre padrone di Carige, gestiva da anni un’associazione a delinquere usando il trucco più vecchio del mondo: dei sodali compravano immobili a 100 e li rivendevano a Carige Vita a 200. Scrivono i giudici: “l’anomalo incremento dei prezzi degli immobili in percentuali macroscopicamente elevate in brevissimo tempo è emerso in maniera evidente: gli immobili – prevalentemente a destinazione alberghiera – venivano acquistati da società del gruppo Cimatti e, in seguito, del gruppo Cavallini e rivenduti nel giro di pochi giorni – se non addirittura lo stesso giorno – agli istituti assicurativi, subendo una lievitazione di prezzo ben lontana dal margine normalmente tollerato.” In sostanza il gruppo Cavallini ha acquistato immobili per 71 milioni di euro rivendendoli a Carige Vita a più del doppio. Il tutto per anni.

“La magistratura ha strumenti d’indagine – mi si dirà – che consiglieri, presidenti di società, perfino le autorità di vigilanza non hanno. Quindi non è colpa loro se non hanno visto. Non c’è governance che possa evitare tutte le frodi”. Ma ciò può essere vero per operazioni complicate, non per semplici acquisti d’immobili a prezzi gonfiati, facili da prevenire. Basta che le regole interne di una società quotata prevedano l’identificazione dei proprietari effettivi di tutte le imprese da cui la società stessa acquista. Perdere qualche legittimo affare perché un venditore non vuole rivelare i propri azionisti è un piccolo prezzo da pagare per evitare frodi di questo tipo. Inoltre, in tutti gli acquisti l’audit interno di una società quotata dovrebbe monitorare le deviazioni significative dei prezzi dagli standard di mercato.

Né frodi, né mala gestio bastano a spiegare le crisi bancarie, ma, come dice Warren Buffett, “quando c’è bassa marea si scopre chi nuota nudo.” Ed è durante le crisi economiche che si scopre chi ruba e chi è incompetente. Anche se gli inetti e i ladri non sono la sola causa della crisi, perché non approfittare della crisi per mandare a casa i primi e sbattere in galera i secondi? Almeno c’è la speranza di ripartire dopo la crisi con una classe dirigente migliore.


“La commissione d’inchiesta sulle banche è praticamente svanita: si è persa un’altra occasione per imparare dai propri errori e avere una classe dirigente migliore.”

Lo scopo delle indagini non è solo quello di mettere in galera i colpevoli, ma anche quello di imparare dagli errori. Così, la totale trasparenza societaria delle controparti di società quotate è una condizione semplice per evitare questo tipo di frode. In Italia è adottata da tutte le quotate? Purtroppo lo scorso autunno abbiamo scoperto che non era adottata neanche dal Gruppo 24 Ore, proprietario di questo giornale. Con i problemi che sono emersi. Sarebbe opportuno che la Consob richiedesse alle quotate almeno di dichiarare se seguono questa best practice.

Questo è solo un piccolo esempio dei benefici che si sarebbero potuti ottenere da una seria Commissione d’Inchiesta. Purtroppo è un’altra occasione perduta. Pur con tutte le sue lentezze, non ci resta che sperare nella magistratura. Sempre che non arrivi prima la prescrizione.


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L’Unione Bancaria si infrange sul Piave

Articolo pubblicato su “Il Sole 24 Ore” il 25.06.2017 nella Rubrica Alla Luce del Sole 

Per le due banche popolari venete non poteva finire in modo peggiore. Ci perderanno i contribuenti, che dovranno pagare circa due anni di Imu sulla prima casa per ripianare il buco che si creerà con la liquidazione coatta amministrativa delle due banche. Ci perderanno i clienti, che al posto di tre linee di credito (da Veneto Banca, BPVi, e Banca Intesa) se ne troveranno solo una di gran lunga inferiore alla somma delle tre. Ci perderanno i dipendenti che negli ultimi 18 mesi hanno visto scappare i depositanti, i clienti e le opportunità di mercato e che presto saranno “efficientati” nel nome del consolidamento. Ma soprattutto ci ha perso la credibilità delle istituzioni italiane ed europee, per come l’intera vicenda è stata gestita.

In nome del principio secondo cui il costo dei fallimenti bancari deve essere pagato dagli investitori e non dai contribuenti, l’Europa aveva introdotto la regola del bail-in: ad assorbire le perdite dovevano essere i creditori subordinati, poi quelli senior, per arrivare anche ai depositi sopra i 100mila euro. L’Italia, pur sapendo che le nostre banche avevano venduto subordinati e obbligazioni a clienti inconsapevoli, non si era opposta con sufficiente forza né all’approvazione di questa regola, né alla sua introduzione anticipata al primo gennaio 2016.

Ma quella stessa Europa che si era opposta a qualsiasi tentativo di salvare le banche venete attraverso un intervento statale in nome di un principio, ha gettato il principio alle ortiche quando si è trattato di liquidarle, permettendo al governo italiano di intervenire per rimborsare tutti i creditori, anche quelli che non erano stati truffati. Al tempo stesso, lo Stato italiano che non aveva avuto la forza di ritardare l’introduzione della regola, che non aveva trovato in 18 mesi una soluzione per salvare le due popolari, ha trovato una scappatoia legale per salvare chi? Non certo i risparmiatori truffati, che avrebbero comunque ricevuto un rimborso. Solo gli investitori furbi (o bene informati), che ancora 10 giorni fa compravano al 30% del nominale debito in scadenza di Veneto Banca, che valeva zero e nel prossimo futuro sarà rimborsato alla pari. *
La scelta di rimborsare in toto i creditori non ha una logica economica, ma una politica: si cerca di contenere la rabbia in vista delle prossime elezioni.

Nel maldestro tentativo di prolungare l’agonia di qualche giorno, il Governo italiano ha anche introdotto un pericolosissimo precedente. Dieci giorni fa ha posticipato per decreto la scadenza di un’obbligazione di Veneto Banca. Se il bond fosse stato detenuto dalle grande banche di investimento internazionali, la notizia sarebbe stata sulla prima pagina del Financial Times, ma per qualche vecchietto veneto si muove a stento il Gazzettino. Decisioni come questa spiegano perché in Italia non ci si fida né dello Stato, né delle banche.

Il mercato finanziario si basa sulla fiducia: fiducia che i contratti saranno rispettati e non cambiati in corsa, a seconda del potere politico del contraente. Il decreto del governo mina questa fiducia e crea un pericolosissimo precedente. Quello che è stato fatto per Veneto Banca può essere ripetuto un domani per un’altra banca, o per il governo stesso. Questo è il motivo per cui gli investitori internazionali vogliono titoli emessi secondo il diritto inglese. Ma il nostro debito pubblico è per la stragrande maggioranza emesso sotto il diritto italiano e quindi può essere consolidato in qualsiasi momento con un decreto simile a quello approvato l’altro venerdì dal governo. All’estero si domandano se abbiamo assistito alle prove generali del default della Repubblica Italiana.

Due banche sono morte, uccise non solo dalla cattiva gestione precedente, ma anche dall’incertezza sul futuro, che le ha ulteriormente depauperate. Sono state immolate sull’altare dell’unione bancaria e dell’Europa. Ma sono morte invano. La speranza di una vera unione bancaria si è infranta sul Piave: l’escamotage scelto dal nostro governo svuota l’intera Bank Resolution Recovery Directory e rimanda alle calende greche la possibilità di un’assicurazione europea sui depositi. Perché mai i tedeschi dovrebbero assicurare con i propri soldi chi cambia le carte in tavola?

Ma è la stessa idea di Europa che viene messa in dubbio, almeno nella formulazione cara a molti: l’Europa come fonte di disciplina che costringe i nostri governi a scelte giuste, ma politicamente costose. Nella vicenda delle popolari venete, abbiamo visto il peggio da entrambi i lati. Delle regole logiche (come il bail-in), ma non adatte al nostro sistema economico, vengono applicate in modo arbitrario da una gruppo di sedicenti tecnocrati, più interessati alla sopravvivenza del sistema che li ha generati che a quello dell’economia dei Paesi amministrati. E lungi dal servire da busto ortopedico per raddrizzare l’operato del nostro governo, queste regole servono da scudo per coprire gli errori e gli interessi di chi ci governa. Il risultato è un papocchio che rende l’Italia ancora più inaffidabile di prima.

Al tempo del fallimento del vecchio Banco Ambrosiano fecero molto meglio Andreatta e la Banca d’Italia di allora. È triste che la Seconda Repubblica ci faccia rimpiangere la Prima, ma ancora più triste che a farcela rimpiangere sia anche l’Europa.


*Errata corrige: Un lettore mi ha gentilmente fatto notare che il bond la cui scadenza è stata allungata era un subordinato e quindi riceverà zero, non sarà pagato al 100%. Quest’errore (di cui mi scuso con i lettori)  elimina la preoccupazione che i bene informati ci abbiano guadagnato, non cambia il resto del ragionamento.

Problemi e prospettive del sistema bancario in Italia (video)

Video del mio intervento al convegno “La tutela del risparmio e le prospettive del sistema bancario in Italia – In memoria di Renzo Soatto”, svoltosi a Padova il 25 Febbraio 2017.

Quelle banche condannate a cambiare (in fretta) – Video

Il 31 marzo scorso, nell’ambito del Festival Città Impresa diretto da Dario Di Vico, si è svolto un confronto tra Ferruccio de Bortoli e me, sul tema delle banche. Qui di seguito il video dell’incontro, che è stato moderato da Nicola Saldutti.


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Orrori bancari, la responsabilità non è delle famiglie (che hanno ripagato il 95% dei debiti). Il Caso Veneto.

Intervista pubblicata su Corriere Imprese NordEst il 13 Marzo 2017, a cura di Alessandro Macciò.

Il suo lavoro, presentato all’Università di Padova nel corso di un convegno sulla tutela del risparmio, sarà anche “artigianale” come ha detto, ma rende bene l’idea. Luigi Zingales, docente padovano di Finanza alla University of Chicago Booth School of Business, ha preso la lista dei primi trenta debitori della Banca Popolare di Vicenza, resa nota dal TG La7 di Enrico Mentana, ha spostato indietro le lancette di qualche anno e ha fatto un po’ di calcoli. Il risultato è che nel 2008, quindi agli albori della crisi, il 35% di questi clienti (che alla fine del 2015 rappresenteranno il 29% delle sofferenze in bilancio di Bpvi) navigava già in cattive acque, con un rapporto medio tra posizione finanziaria netta e margine operativo lordo ampiamente sopra la soglia fissata per ottenere il credito. Dal sospetto alla certezza, per Zingales il passo è breve. “Le banche non hanno fatto bene il loro mestiere”. Al convegno del Bo, organizzato dallo studio Cortellazzo&Soatto, c’era anche il viceministro Morando. E Zingales ha colto la palla al balzo per spronare il governo a indagare sui grandi debitori delle banche Venete.

Professor Zingales, partiamo dal quadro internazionale. Brexit, Trump, spinte populiste: quali sono le ripercussioni economiche sul sistema economico del Nordest?
Il clima politico certamente non aiuta e le tensioni nell’Area Euro possono avere un riverbero negativo, ma nel caso si può dire che piove sul bagnato: l’Italia sta uscendo dalla crisi troppo lentamente e con ripercussioni eccessive in certi settori. I Non performing loan (Npl, cioè i crediti deteriorati delle banche che i debitori non riescono a ripagare) ci dicono che le famiglie sono state virtuose e che i problemi di concessione del credito hanno riguardato soprattutto l’edilizia. In Spagna i prezzi degli immobili sono crollati molto più che in Italia, eppure il tasso di non performing loan raggiunge il 35% delle imprese Spagnole e il 50% di quelle Italiane: questo livello di perdite è difficile da spiegare, per fare meglio bastava buttare i soldi a caso. La domanda quindi è: perché la vigilanza non si è accorta di questi errori sistematici? Per evitare di ripeterli serve un’indagine seria, come quelle dell’aviazione americana dopo gli incidenti aerei.

 

Finora si conosce la lista dei primi trenta debitori di Bpvi. Cosa emerge dall’analisi?
Viene da chiedersi perché i responsabili della banca abbiano esteso il credito e non abbiano fatto qualcosa per evitare l’aumento dei debiti. E la vigilanza?  Ha visto e non poteva intervenire, o non ha proprio visto? Nel primo caso bisogna adottare nuovi strumenti, nel secondo bisogna fare altri tipi di riflessione. Manca la pistola fumante, ma le domande sono forti.

Oltre a Bpvi, anche Veneto Banca ha rischiato il default e si è salvata solo grazie all’intervento del fondo Atlante. Qual è il suo giudizio sulla vicenda delle due ex Popolari Venete?
Un sistema di grandi banche con capitali di rischio a prezzi fatti in casa era sbagliato dal principio, ma ci sono gravi colpe di chi ha guardato dall’altra parte. Dove sono oggi i commercialisti che hanno validato i prezzi delle azioni? Dov’erano le autorità di vigilanza, anche la Consob, quando le banche hanno approvato gli aumenti di capitale? Nel 2014 ho scritto più volte che serviva più trasparenza sui prezzi e che le semplici spiegazioni allegate ai prospetti non bastavano: la mia non è una critica ex post, ma fatta sul momento. Per tutta risposta c’è stato un silenzio di tomba, e gli investitori hanno perso tutto.

Il piano di rilancio di Bpvi e Veneto Banca prevede la fusione tra i due istituti: le sembra la soluzione corretta? 
Oggi la situazione è molto brutta: servirà un aumento di capitale massiccio e il fondo Atlante non può sostenerlo. La domanda a questo punto è: lo Stato azzererà l’investimento in Atlante o no? Per me sì, perché Atlante è un soggetto privato che ha investito e ha perso. Per ridurre le perdite si farà un consolidamento che comporterà la riduzione dei posti di lavoro e una concentrazione delle forze bancarie: quando c’è una fusione in vista e le banche parlano di sinergie, il risultato sono tagli sui costi del personale e sul potere di mercato.

Se l’operazione andrà in porto, quale scenario dobbiamo aspettarci? 
Il Veneto avrà un sistema bancario più snello e la fusione peggiorerà le cose, è inevitabile. Il governo Italiano dovrebbe seguire l’esempio di quello Spagnolo, che ha ricapitalizzato il settore bancario e oggi assiste a una crescita economica superiore al 3%. In Italia invece si fanno solo interventi tampone, troppo tardi e con risorse inadeguate: per mettere la parola fine al problema c’è bisogno di una svolta.


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La Politica Bancaria che non c’è / Italy’s non-existent banking strategy

Testo dell’articolo pubblicato il 5.03.2017 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole”.  English translation below. 

Sono passati quindici mesi dal “salvataggio” delle quattro banche regionali e quasi un anno dalla creazione del Fondo Atlante. Dopo tutto questo tempo dobbiamo concludere che la politica adottata dal Governo di posporre la risoluzione dei problemi delle banche e fare finta che non siano così gravi (la strategia che gli inglesi chiamano “extend and pretend”) non funziona.

La dilazione è costata al Paese (e soprattutto a certe regioni) un anno di crescita. Nel Veneto il credito bancario alle imprese lo scorso anno è sceso del 6% e in Toscana del 3%, mentre in Piemonte e Lombardia è rimasto sostanzialmente stabile (rispettivamente +0.2% e -0.2%). La principale differenza tra queste regioni è data dalle crisi bancarie, che hanno colpito molto più il Veneto (Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza) e la Toscana (MPS ed Etruria) che il Piemonte e la Lombardia. Che la qualità del portafoglio del sistema bancario influisca sulla crescita dei prestiti alla clientela non è un segreto. Lo dice anche la Commissione Europea. Ma allora perché il Governo ha trascinato i problemi senza risolverli per più di un anno?

Parte del problema è l’illusione che la crisi sia dovuta solo alla perfidia dei fondi stranieri, che si ostinano a valutare al 20% del nominale le sofferenze bancarie che varrebbero molto di più. È vero che – dati della Banca d’Italia alla mano – il valore recuperato dalle sofferenze negli ultimi due anni è in media del 40%. Ma tale valore non considera i costi legali e il tempo che un tale recupero richiede. Non considera neppure il fatto che tanto maggiori sono i crediti in sofferenza, tanto più difficile è il recupero, perché le (poche) garanzie immobiliari perdono di valore quando vengono vendute tutte allo stesso tempo.  Unicredit, che non si è cullata in questa illusione e ha svalutato le sue sofferenze al 12.94%, è riuscita nella difficile operazione di raccogliere 13 miliardi di euro di nuovo capitale. Tutte le banche che non hanno avuto questo coraggio sono ancora in crisi.

Per sostenere questa illusione sul valore delle sofferenze (e ritardare il redde rationem) il Governo ha caldamente sponsorizzato la formazione del Fondo Atlante, creato per comprare sofferenze e poi usato per scaricare sulla collettività (Cassa Depositi e Prestiti e Poste) e sugli ignari assicurati (Generali e Cattolica) le perdite che Unicredit e Banca Intesa avrebbero accumulato per aver garantito gli aumenti di capitale delle due Popolari Venete. La stessa Commissione Europea ha dichiarato che “la struttura di finanziamento di Atlante costituisce una fonte di interdipendenza tra soggetti più forti e soggetti più deboli. Ciò potrebbe dar luogo a un contagio in caso di perdite inattese derivanti da investimenti”. Lungi dall’essere un elemento di stabilità, quindi, il Fondo Atlante rischia di mettere a repentaglio l’intero sistema.

Cosa poteva fare il Governo – si dirà – quando la Commissione Europea impedisce ogni mossa? È la solita strategia di attribuire all’Europa la responsabilità degli errori nostrani.  Contrariamente a quello che si vuole far credere, l’Europa caldeggia da tempo un intervento di ricapitalizzazione delle banche, come quello (molto parziale) approvato dal Governo a dicembre (e non ancora implementato).

Se la Commissione ha finora ritardato l’intervento su MPS è perché vuole evitare che i soldi pubblici siano sprecati, per esempio rimborsando chi non ha nessun titolo per essere risarcito, come gli hedge fund che hanno comprato i subordinati di MPS nell’ultimo anno. Di questo intervento dovremmo essere grati alla Commissione.

Se poi i 20 miliardi del Decreto Salva-Banche non bastano (come è probabile), molti dei nostri partner europei sono aperti all’idea che noi si faccia ricorso al fondo ESM (European Stability Mechanism). È il fondo cui ha fatto ricorso la Spagna nel 2012, quando doveva smaltire molte sofferenze derivanti dalla crisi immobiliare. Una volta fatto ricorso al fondo e ricapitalizzato le banche, la Spagna ha ripreso a crescere a più del 3% l’anno.  Cosa aspetta l’Italia a farlo?


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Fifteen months have gone since the “rescue” of the four regional banks and almost one year since the creation of the government mandates and privately funded bank rescue fund Atlante .

After all this time, we can conclude that the strategy adopted by the government of postponing the resolution of banks’ problems and pretending they are not so serious (a strategy also known as “extend and pretend”) is not working. Deferment has cost Italy (and some regions in particular) one year of economic growth.

Lending to businesses last year dropped 6% in Veneto and 3% in Tuscany, while it remained broadly stable in Piedmont and Lombardy (+0.2% and -0.2% respectively). The main difference between these regions comes from the banking crisis, which hit Veneto (Veneto Banca and Banca Popolare di Vicenza) and Tuscany (Banca Monte dei Paschi di Siena and Etruria) harder than Piedmont and Lombardy. The impact of the quality of banks’ assets on lending is not a secret. The European Commission has also written about it. But why has the government sat on its hands for more than one year?

Part of the problem is the illusion that the crisis is due only to the treachery of foreign funds, who value non-performing loans at around 20% of their book value when they are worth much more. It’s true that NPLs over the past two years have yielded on average 40%, according to the Bank of Italy. But such a valuation does not include legal costs and the time to collect them.

It also doesn’t consider the fact that higher the amount of NPLs, the more difficult to collect on them, since the (few) existing real estate collateral loses some of its value when sold in bulk. UniCredit, which did not believe in this illusion and wrote down its bad loans to 12.94%, succeeded in the difficult plan to raise €13 billion of fresh capital. The banks who lacked the same courage are still in a crisis.

In order to support the illusion about the value of bad loans (and postpone the “redde rationem”), the government strongly backed the creation of the Atlante fund, designed to buy NPLs and then unload on the collectivity (state backed lender Cassa Depositi e Prestiti and state controlled posted service Poste Italiane) and unaware insurers (Generali and Cattolica) the losses that UniCredit and Intesa Sanpaolo were facing for guaranteeing the recapitalization of the two Veneto-based banks.

The European Commission said that “Atlante’s funding structure represents a source of interdependence between stronger and weaker players. This could lead to contagion in case of unexpected losses from investments.” Far from being a factor of stability, the Atlante fund risks of putting the entire system at risk.

A question remains: what could the government do if the European Commission blocks any move? This is Italy’s usual strategy of accusing Europe of its own mistakes. Contrarily to what people want us to believe, Europe has long called for intervening in the recapitalization of banks, like the one (very limited) approved by the government in December (and not yet implemented).

If the Commission has so far postponed the intervention on MPS, this is because it wants to prevent public money from going wasted, for example by reimbursing those who have no right to be compensated, like the hedge funds which bought MPS’s subordinated bonds in the past year. We should thank the Commission for this position.

If €20 billion of the bailout fund approved by the Cabinet in December is (likely) not enough, many of our European partners are open to the idea that Italy resorts to the European Stability Mechanism (ESM). The fund was tapped by Spain in 2012, when the country needed to dispose of the many NPLs piled up during the real estate crisis. After using the fund and recapitalizing its banks, Spain returned to grow by more than 3% per year. What is Italy waiting for to do the same?

Decreto salva banche, il valore di una lista (postilla)

Sono d accordo con Massimo Famularo che è meglio fare analisi più approfondite, utilizzando tutta la ricchezza dei dati, che limitarsi a delle analisi basate su 30 osservazioni. Per questo è da più di un anno chi mi batto a favore di una commissione di inchiesta, autorevole e realmente indipendente, su MPS e su tutte le banche in crisi. Il punto del mio articolo sul Sole non era di sostituire un’analisi più approfondita, ma solo di stimolare l’appetito. Se con solo 30 dati uno può provare a dire qualche cosa, immaginiamoci con 200.000. Volevo anche dimostrare che la lista dei debitori insolventi non è necessariamente una gogna mediatica per i debitori, ma l’inizio di un analisi sulle politiche di credito usate dalle varie banche e sulla vigilanza alle stesse fatta da Banca d’Italia. Insomma la commissione di inchiesta è meglio della lista dei debitori insolventi, ma la lista dei debitori insolventi è meglio di niente. Non vorrei che aspirando al meglio, si finisse per coprire anche quella poca luce che si sta facendo.


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Decreto salva banche, il valore di una lista

Testo dell’articolo pubblicato il 12.02.2017 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole”. 

Questa settimana la Commissione Finanze del Senato ha rigettato la proposta del senatore leghista Roberto Calderoli di introdurre nel decreto Salva Banche una norma che richiedeva agli istituti di credito beneficiari di un intervento dello Stato di pubblicare i nomi dei principali debitori insolventi. Il rifiuto è stato motivato con il desiderio di evitare una gogna mediatica a danno dei debitori.

Ma la pubblicazione di simili liste non serve a scaricare la colpa dei fallimenti bancari sui debitori. In un Paese dove il Pil reale è sceso del 9% in quattro anni, non deve essere fonte di imbarazzo se un’impresa, che si è comportata onestamente, non è più in grado di far fronte ai debiti. Non esiste impresa senza rischio e il rischio implica anche la possibilità di fallimento, specialmente quando l’economia nel suo complesso va male.

La pubblicazione degli elenchi serve soprattutto a gettare luce sulla politica del credito delle banche in difficoltà e sull’efficacia della vigilanza bancaria.  Da simili elenchi si possono estrarre molte informazioni utili.  Quanto concentrate sono le sofferenze di una banca? Si tratta di un fenomeno diffuso su tutte le categorie o concentrato principalmente sui grandi crediti, quelli dove il consiglio di amministrazione esercita la sua discrezionalità? Le sofferenze nascono da prestiti effettuati a imprese che erano solide o da prestiti a imprese che ex ante non erano degne di credito, ma erano possedute da amici e parenti? Se il secondo caso fosse vero, dove era la vigilanza bancaria?  In un mondo digitale è relativamente facile per un supervisore accorgersi quando una banca ha una politica del credito sconsiderata. Basta guardare alcuni parametri chiari, per esempio, quale è il rapporto tra posizione finanziaria netta di una società e il suo  margine operativo lordo. Questo indice ci dice in quanti anni un’impresa riesce a ripagare i propri debiti con il flusso di cassa che genera. Il supervisore ha chiuso gli occhi o sapeva e non poteva intervenire? La risposta a questo quesito è fondamentale per evitare che un simile disastro si ripeta in futuro.

Ma è possibile ottenere tutte queste informazioni da una semplice lista? Per dimostrare che la risposta è affermativa, utilizzo la lista dei primi 30 debitori insolventi di Banca Popolare di Vicenza (BPVi) resi pubblici da Enrico Mentana su La7.

Innanzitutto i 30 più grandi debitori insolventi di BPVi rappresentano il 29% delle sofferenze a bilancio a fine 2015. Quindi esiste un’enorme concentrazione delle sofferenze bancarie, come anche confermato dalle statistiche di Banca d’Italia. Le famiglie pagano, le piccole imprese per lo più pagano, le grandissime imprese raramente falliscono, sono le medie imprese quelle che hanno prodotto le principali perdite.

Il secondo aspetto interessante è la concentrazione settoriale. Su banche dati sono riuscito a trovare le informazioni di bilancio per 20 dei 30 debitori insolventi. Per il 62% si tratta di imprese del settore immobiliare, divise equamente  tra imprese di costruzione in senso  proprio e imprese immobiliari in senso lato. Si noti che l’Italia non ha subito una bolla immobiliare come quella spagnola o irlandese. Dal picco del 2008 i prezzi delle case sono scesi solo del 16.5%.

Ma le informazioni più interessanti si trovano guardando ai bilanci. Al 31 12 2008, ovvero prima che la crisi abbia un vero impatto sui bilanci, il 35% delle imprese affidate dalla BPVi e poi diventate insolventi ha un margine operativo lordo negativo o un patrimonio netto negativo (o entrambi). Quando il margine operativo lordo è positivo, il rapporto tra Posizione Finanziaria Netta e Margine Operativo Lordo di queste imprese nel 2008 era in media di 55 (con una mediana di 20), molto al di sopra di 6-7, ritenuto il livello massimo a cui una banca può ragionevolmente estendere il credito ad un’impresa.  Solo due imprese avevano un livello di 6. Questo non è vero solo per le imprese di costruzioni. L’Hotel Dolomiti aveva un rapporto Posizione Finanziaria Netta-Margine Operativo lordo di 444 e l’Istituto Scolastico Cardinal Baronio di 35.

Solo la Magistratura potrà determinare se esistano dei potenziali conflitti di interesse in questi prestiti. Ma non occorre un giudice per capire che i vertici della BPVi non hanno usato una politica del credito prudente. Né occorre un’ indagine parlamentare per capire che, se io sono riuscito in modo artigianale a raccogliere queste informazioni, a maggior ragione potevano essere raccolte da chi fa vigilanza bancaria.  Delle due: o Banca d’Italia non aveva gli strumenti per intervenire o non è voluta intervenire.  Perché il Senato non vuole metterci nelle condizioni di porre questa domanda?

Decreto salva banche, il valore di una lista (postilla)


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Interesse nazionale o pretesto per distorcere le regole a favore di qualche giocatore (nostrano)?

La mia risposta a Il Foglio sulla questione dell'”Italianità” e “difesa degli asset strategici” dagli stranieri.

Bisogna ricordare che l’entrata degli investitori stranieri non danneggia gli operai né l’economia in generale, ma danneggia una piccola fetta dell’establishment locale 

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Magari con uno “straniero” a Mediaset l’Italia diventa un Paese normale

Testo dell’articolo pubblicato il 20.12.2016 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole”.

Il Ministero dello Sviluppo Economico ha un sito web destinato ad attirare gli investimenti esteri in Italia (http://www.investinitaly.com/). Tra le iniziative promosse spicca il Global Roadshow, volto a spiegare “le politiche dell’Italia per l’attrazione degli investimenti esteri.” Il sito, però, specifica che “l’evento è su invito.” Forse per questo il Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda, discutendo dell’acquisto del 20% di Mediaset da parte del francese Bolloré, ha dichiarato che non è “il modo più appropriato di procedere per rafforzare la propria presenza in Italia.” Non era stato invitato.

Il governo e la nostra classe politica vogliono l’Europa e la globalizzazione “su invito”. Almeno quando si tratta dell’entrata nei salotti buoni, perché non c’è altrettanta simpatia per i lavoratori che si sentono minacciati dagli immigrati. Dopo Brexit, Calenda aveva affermato: “Quanto più <gli inglesi> regoleranno e limiteranno la presenza di cittadini comunitari nel Regno Unito, tanto più noi limiteremo la presenza di merci del Regno Unito in Europa.”

Passi per chi viene dai salotti buoni, dove si chiede permesso prima di entrare e dove si sta molto attenti a non offendere gli invitati, ma dove è lecito spellare il parco buoi degli azionisti. Ma come può tale posizione venire da un esponente di un partito che si definisce ancora di sinistra?  Passi il nazionalismo economico di Salvini e quello di Fassina, almeno entrambi sono coerenti nel rifiutare il mercato in tutte le sue forme e metodi. Passi anche l’opposizione dell’ex Ministro dello Sviluppo Economico Paolo Romani: ha sempre dimostrato un amore personale per l’azienda del capo del suo partito. Ma come spiegarlo da parte di Carlo Calenda, esponente del PD e grande sostenitore del libero scambio? Quel Calenda che era stato uno strenuo sostenitore del Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), un accordo che avrebbe severamente limitato la capacità degli stati sovrani di regolare le multinazionali. Proprio quella sovranità che Calenda implicitamente minaccia di usare contro Bolloré.

Se non bastassero i principi dell’Europeismo e del libero mercato, a convincerci che il governo debba accogliere di buon cuore qualsiasi investimento estero, c’è la natura dell’impresa oggetto di attenzione.  Per decenni il PDS prima e il PD poi hanno (giustamente) combattuto l’anomalia italiana di un Presidente del Consiglio che controlla personalmente metà del mercato televisivo italiano. Ora che l’opportunità di sanare per sempre quest’anomalia si presenta su un piatto d’argento, uno dei suoi esponenti protesta nel silenzio generale del resto del partito?

Sia chiaro che in nessun modo voglio difendere Bolloré, uno spregiudicato finanziare che temo si comporterà in modo da far rimpiangere i capitalisti nostrani (che poco hanno da essere rimpianti). Ma difendo il principio di libera concorrenza. Non possiamo essere europeisti a giorni alterni. Non possiamo difendere la concorrenza e il mercato per gli altri e poi diventare protezionisti quando il mercato ci tocca direttamente. E penso che sia solo positivo che attività “strategiche” come la televisione siano in mano a non italiani. Almeno c’è una speranza che le nostre autorità si sveglino e facciano il loro dovere.

L’unica volta che la Consob di Vegas ha mostrato dei segni di vita è stato proprio quando Bolloré ha cercato di impadronirsi di Fonsai. Solo allora si sono ricordati delle regole del Testo Unico della Finanza. E guarda a caso l’Agcom si è svegliata solo ora, brandendo nientemeno che la legge Gasparri. A dimostrazione delle ferite profonde lasciate dal conflitto di interesse berlusconiano, la legge fatta su misura dal governo Berlusconi per l’azienda di famiglia torna comoda per difendere il patriarca.

Magari con uno “straniero” a capo di Mediaset, l’Agcom si ricorderà di far rispettare la par condicio, il Governo imporrà il limite di due reti televisive, e le frequenze per le televisioni saranno messe all’asta come quelle per i telefoni.  Magari con uno “straniero” a capo di Mediaset diventiamo un Paese normale.


Qui la lettera del Ministro Carlo Calenda al Sole 24Ore in risposta al mio articolo.

Questa la mia replica al Ministro:
Ringrazio il ministro Calenda per le precisazioni, dalle quali emerge chiaramente come egli voglia sottoporre gli investimenti francesi a un test ulteriore rispetto a quelli italiani. Le «incursioni speculative» sono deleterie solo quando sono fatte dagli «stranieri»? Io auspico un sistema che tratti tutti ugualmente, sia che uno sia francese, sia che sia italiano, sia che sia l’ex presidente del Consiglio che il calzolaio dell’angolo. Il ministro la chiama ideologia, io lo chiamo un ideale meritevole di essere difeso. (L.Z.)


Qui gli altri articoli apparsi nella Rubrica “Alla Luce del Sole”.

L’azione di responsabilità è fondamentale per ricostruire la fiducia nelle banche Italiane

Testo dell’articolo pubblicato il 17.07.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”.

Dopo qualche tentennamento, il consiglio di amministrazione della Banca Popolare di Vicenza ha deciso di dare via libera all’azione di responsabilità verso gli ex vertici. Altrettanto ha fatto il mese scorso Banca Carige. Fino a qualche anno fa le azioni di responsabilità nei confronti del management erano rarissime, per lo più limitate ai casi di fallimento. Oggi invece stanno diventando sempre più diffuse. Molti manager e molti giuristi considerano queste azioni una perdita di tempo o peggio un’espressione deteriore del “sentimento molto diffuso di voler impiccare un sacco di gente all’albero più alto della nave.” Dobbiamo forse giudicarle tali?

In teoria esiste il rischio che le azioni di responsabilità siano solo una punizione per la sfortuna. Con il senno di poi tutti sanno quali sono gli investimenti giusti. Un bravo manager deve saper rischiare, ma perché mai dovrebbe farlo se rischia di essere punito quando sbaglia? Proprio per questo motivo – in America prima ed in Italia poi – si è sviluppato il principio della “business judgment rule” , ovvero il principio che le decisioni di business non sono sindacabili. Gli amministratori possono essere considerati responsabili solo quando non adempiono al dovere di agire diligentemente (duty of care) e al dovere di perseguire l’interesse sociale (duty of loyalty). Quindi l’azione di responsabilità non colpisce i manager sfortunati, ma solo quelli che hanno agito senza dedicare la dovuta attenzione al loro lavoro o – peggio – hanno perseguito un interesse personale.

Anche quando questi estremi sussistono (e purtroppo in Italia sussistono spesso), non è facile trovare un consiglio di amministrazione disponibile ad iniziare un’azione di responsabilità.  Come cane non mangia cane, e medico non testimonia contro un altro medico, così i manager – che compongono la maggioranza dei consigli di amministrazione – tendono a votare contro qualsiasi azione di responsabilità per solidarietà di categoria. In questo sono aiutati dai consulenti legali, che vengono chiamati a verificare la sussistenza dei presupposti legali per l’azione. In un mondo molto ristretto, come è l’élite italiana,  non conviene ad un avvocato di grido argomentare a favore di un’azione di responsabilità contro un manager potente. Ne va del reddito futuro. Per questo ad essere incriminati sono generalmente solo i manager falliti: gli avvocati non hanno più nulla da perdere. Tanto forte è la loro riluttanza ad iniziare un’azione che una volta un famoso principe del foro – di fronte ad un’evidenza troppo forte per essere negata – dichiarò che sconsigliava un’azione, non dal punto di vista giuridico, ma per gli effetti mediatici negativi che tale azione avrebbe causato. Agiva da legale o da consulente di public relation?

Alla fine la decisione se intentare l’azione di responsabilità è una decisione di business, e in quanto tale molti consigli sono contrari. Dati i costi (certi) e gli incerti benefici monetari (un po’ per i tempi della giustizia italiana, un po’ per la furbizia degli accusati che intestano tutti i beni ai familiari) non sembra che il gioco valga la candela. Ma è un calcolo miope. L’azione di responsabilità è una scelta strategica. Uno dei principali valori di un’impresa è il suo capitale di fiducia: fiducia degli azionisti, dei creditori, dei consumatori, dei fornitori. Quando questa fiducia viene violata, come nel caso di BpVi, Carige e molte altre banche, è difficile ricostruirla.  Un passo necessario per ricostruire questo capitale di fiducia è fare chiarezza sulle responsabilità del passato, identificando quali errori sono stati commessi e da chi. L’azione di responsabilità è un segnale credibile che questo processo indispensabile è stato avviato. Per questo non bisogna essere dei forcaioli per gioire della notizia che queste due azioni sono state intraprese: è un segnale di svolta nel nostro sistema bancario. La fine del tunnel è ancora lontana, ma intanto si intravede uno spiraglio di luce. Speriamo altri seguano.

Qui di seguito i link ai precedenti articoli della Rubrica “Alla Luce del Sole”:

– Deutsche Bank e Monte Paschi: similitudini e differenze
– Salvare le banche per far ripartire l’economia
– L’importanza di un Buon Piano di Successione e il Ruolo del Consiglio di Amministrazione 
– Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia
– Cosa fare per evitare che il “decreto banche” diventi solo un regalo alle banche
– Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori
– Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi 
– Le Responsabilità della Consob sulle Obbligazioni Subordinate
– Gli stipendi degli AD e quei paracadute troppo grandi

Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia

Testo dell’articolo pubblicato il 19.06.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”.
Qui, quiquiqui e qui i precedenti articoli della rubrica.

La Banca d’Italia ha sempre avuto ottimi ricercatori nel suo ufficio studi. Costoro hanno accesso a dati molto importanti, come i tassi e le quantità di pressoché tutti i prestiti effettuati dalle banche in Italia. Grazie alla sua credibilità, Bankitalia può facilmente accedere anche ad altri dati sensibili come quelli dell’INPS e delle Agenzie delle Entrate. Per esempio ha avuto vasta eco sui giornali italiani ed esteri lo studio effettuato da Barone e Mocetti, due ricercatori di Bankitalia, sulla mobilità intergenerazionale a Firenze tra il XV e il XXI secolo. Lo studio collega i dati di un censimento della ricchezza fatto nella Firenze del 1427 con i dati IRPEF del 2011.  Uno studio fantastico, reso possibile dall’accesso a dati molto sensibili, ma essenziali per la ricerca.

Perché allora la maggior parte degli studi effettuati da Bankitalia è poco rilevante per la sua missione di vigilanza?  Basta sfogliare la lista dei recenti Temi di Discussione: vanno dalla “trasmissione dell’incertezza macroeconomica attraverso il mercato del lavoro” alla “stima degli effetti sulla produttività delle innovazioni ambientali”, al “contagio informativo riprodotto in laboratorio.”  In verità, esistono alcuni articoli molto rilevanti come “stima del razionamento del credito alle imprese” e “effetti economici del credit crunch”, ma sono la minoranza. Soprattutto mancano studi sui possibili prestiti a condizioni di favore nei confronti delle imprese possedute dai consiglieri di amministrazione delle banche e dei loro amici.

Con i dati di Bankitalia questi studi sono fattibili e sarebbero stati molto utili per individuare anticipatamente i problemi che si trovano ad affrontare oggi le banche. Più di vent’anni fa, dopo aver lavorato con questi dati in collaborazione con un ricercatore Bankitalia, chiesi proprio di fare uno studio di sui prestiti ai consiglieri di amministrazione, ma mi fu negato. Quando poi – in collaborazione con un altro ricercatore – facemmo uno studio sugli effetti delle amicizie sui prestiti bancari, ci fu impedito di farlo circolare. Anche se lo studio era assolutamente anonimo, molto più anonimo di quello sulle ricche famiglie fiorentine.

Il vero problema è che all’ufficio studi esiste uno scrutinio sulle ricerche, che seleziona quelle che possono circolare.  Purtroppo questo scrutinio non riguarda solo la sacrosanta confidenzialità dei dati, ma anche i risultati. La Banca d’Italia non è sola in questa forma di censura. Dopo la crisi finanziaria, la Federal Reserve americana fa lo stesso. Ma ciò che non toglie che sia sbagliato.  La (giusta) indipendenza delle banche centrali si basa sulla convinzione che costoro siano guidate dalla scienza economica e non dalla politica. Ma la scienza economica si basa sulla libera analisi empirica dei dati. Un’analisi limitata dalla censura diventa inevitabilmente un’analisi politica, non economica e come tale un’analisi che non merita di essere indipendente di diritto, perché non lo è di fatto.  Ma soprattutto privandosi del beneficio dell’analisi economica indipendente la Banca d’Italia non riesce a fare il proprio lavoro a dovere.

Per esempio un articolo recente sostiene una tesi interessante: se i tribunali sono lenti, i debitori smettono di ripagare i propri debiti quando sanno che la banca è in difficoltà e non potrà più fare loro prestiti in futuro.  L’articolo enfatizza il costo della lentezza dei tribunali, un tema caro ai vertici di Bankitalia, ma non mette in evidenza un’altra importante conseguenza. Se effettivamente i debitori smettono di pagare quando il rapporto bancario non ha futuro, allora l’idea di trasferire i crediti in sofferenza ad una bad bank – come da tempo proposto dal Tesoro – sarebbe un disastro.

L’evidenza nell’articolo non è completamente convincente. Ma il problema sollevato è estremamente importante. Non dovrebbe l’Ufficio Studi informare con i dati le scelte di Bankitalia e possibilmente anche del Governo? Altrimenti non è più un ufficio studi, ma semplicemente un ufficio PR.