Populist Plutocrats: Lessons From Around the World

Ecco il video completo della conferenza “Populist Plutocrats: Lessons From Around the World” organizzata lo scorso 23 Settembre dall’ Harvard Law School e dallo Stigler Center che dirigo presso la Chicago Booth School of Business.  La conferenza ha analizzato un fenomeno oggi quanto mai importante e pericoloso: il “populist plutocrat”. Per “populist plutocrat” si intende un leader che sfrutta la rabbia e le proteste degli elettori più poveri e meno istruiti contro le élite tradizionali, al fine di ottenere e mantenere il potere. Quindi, una volta in carica, sembra più che altro interessato ad arricchirsi, insieme a una cerchia relativamente ristretta di familiari, amici e alleati.


Here’s the video of the one-day conference, co-sponsored by Harvard Law School and the Stigler Center, that focused on an important and dangerous political phenomenon: the “populist plutocrat.” The populist plutocrat is a leader who exploits the cultural and economic grievances of poorer, less-educated voters against traditional elites in order to achieve and retain power, but who, once in office, seem substantially or primarily interested in enriching him- or herself, along with a relatively small circle of family members, cronies, and allies.

The Great American eclipse or the Great America’s eclipse?

Are oligopolies bad for the U.S. economy?

MPR News chief economics editor Chris Farrell spoke with Derek Thompson from The Atlantic and me, about the effect oligopolies – airlines, cellphone carriers, internet providers – have on micro and macro economies in the U.S.

Here is the podcast, enjoy! 

The Rising of Crony Capitalism in America (video)

Video of my lecture at the Eitan Berglas School of Economics, Tel Aviv University (TAU), March 19, 2017. The topic was: “The Rising of Crony Capitalism in America”.

Un Paese Spaccato / A House Divided

Articolo scritto insieme a Paola Sapienza e pubblicato il 19 gennaio 2017 sul blog dello Stigler Center (che dirigo), ProMarket.org.

Alla vigilia del giuramento di Donald Trump, l’ultimo sondaggio del Financial Trust Index (a cura di Chicago Booth e Kellogg School) vede gli americani nettamente divisi su alcune politiche economiche di Trump. L’unica cosa su cui la stragrande maggioranza degli americani è d’accordo è la necessità di “bonificare” Washington dalla corruzione. 


Nel momento in cui giura come 45° presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump non ha dietro di sé la maggioranza del Paese, come generalmente accade ad ogni presidente nel giorno dell’insediamento.

Infatti, oggi il Paese appare fortemente diviso tra repubblicani, ricompattati dietro Trump, e democratici, che sembrano disprezzarlo ogni giorno di più, con gli indipendenti che virano in direzione dei democratici. Questi i risultati che emergono dall’ultimo sondaggio del Financial Trust Index, curato da Chicago Booth e Kellogg School e realizzato alla fine di dicembre 2016 su un campione rappresentativo di 1.000 americani.

L’indagine si concentra sui progetti di deregolamentazione del nuovo presidente e sulle sue recenti nomine governative. Il 46 per cento degli intervistati si oppone al progetto di Trump di eliminare la Dodd-Frank, la riforma finanziaria approvata nel 2010 con l’intento di prevenire un’altra crisi finanziaria, mentre solo il 43 per cento lo sostiene (l’11 per cento non esprime un parere). I repubblicani sostengono fortemente la proposta (73 per cento a favore e 20 per cento contro), i democratici sono fortemente contrari (61 per cento e 31 per cento a favore), mentre gli indipendenti appaiono più equamente divisi, anche se sono in maggioranza contrari (52 per cento e 37 per cento a favore).

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Un simile divario si riconferma sulla decisione di Trump di nominare diversi miliardari in posizioni chiave del suo governo. Queste nomine renderanno più efficace l’azione di governo per il 65 per cento dei repubblicani, cosa che pensano solo il 17 per cento dei democratici e il 27 per cento degli indipendenti. I repubblicani sono ancora più ottimisti circa il beneficio di queste nomine per l’economia ( 75 per cento, a fronte del 24 per cento dei democratici e del 30 per cento degli indipendenti). Persino tra i repubblicani l’entusiasmo svanisce un po’ alla domanda se queste nomine contribuiranno ad avere un’economia gestita “nell’interesse di tutti gli americani”. Solo il 63 per cento dei repubblicani lo crede, a fronte del 26 per cento dei democratici e del 30 per degli indipendenti.

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L’unico punto su cui converge la maggioranza sia dei repubblicani che dei democratici, anche se con margini diversi, è la necessità di “bonificare” Washington dalla corruzione (“to drain the Washington corruption swamp”, secondo le parole di Trump in campagna elettorale). Su questo sono d’accordo il 93 per cento dei repubblicani, l’80 per cento degli indipendenti, e il 67 per cento dei democratici. È interessante notare che la risposta a questa domanda è altamente correlata con il livello di “rabbia” degli intervistati per la situazione economica attuale. Tra le persone che affermano di non essere arrabbiate, solo il 64 per cento pensa che ci sia la necessità di “bonificare” Washington dalla corruzione. Tra coloro che si dichiarano molto arrabbiati, questa percentuale sale all’85 per cento.

Anche su questo punto, però, c’è ancora un enorme divario circa la convinzione che Trump abbia davvero intenzione di fare qualcosa per risolvere il problema della corruzione: l’82 per cento dei repubblicani crede che Trump manterrà la promessa elettorale di introdurre riforme volte a ridurre la corruzione a Washington, mentre solo il 20 per cento dei democratici (e il 41 per cento degli indipendenti) pensa che sarà così.

In sintesi, gli americani si ritrovano uniti solo nell’odio verso Washington e la sua corruzione. Se il presidente Trump vuole unificare il paese dietro di lui, dovrà mantenere la promessa di “drain the swamp”. Tuttavia, le sue prime mosse non sembrano lasciare molte speranze in questo senso.


Cliccando qui puoi leggere altri miei articoli su Trump e le elezioni americane.

Inauguration Day: inizia l’era Trump (anche per l’Europa)

Nei due mesi che separano l’elezione dal giuramento, Trump ha dedicato molte attenzioni a Russia e Cina. Quanto all’Europa, ha – senza mezzi termini, come suo solito finora – lodato la Brexit, aggiunto che altri Paesi seguiranno l’esempio della Gran Bretagna e affermato che la NATO è obsoleta.

Cosa cambia per l’Europa con la presidenza Trump? Ne ho parlato con Giovanni Minoli a “Mix 24“.

Qui di seguito il podcast della conversazione (durata 8min12sec):

 


Qui altri miei articoli su Trump e le elezioni americane

Con Trump si rischia una guerra commerciale USA-UE?

Sulla politica commerciale, tra USA e UE ci sono sempre stati diversi punti di vista e  anche dispute, ma erano eccezioni nel contesto di una visione, che era invece coerente da entrambe le parti dell’Atlantico, che la soluzione giusta fosse il libero scambio. Con Trump si cambia radicalmente prospettiva. Sta prevalendo una diversa visione del mondo e l’Europa non sembra essere attrezzata, soprattutto politicamente, per affrontare un inasprimento dei rapporti commerciali con gli Stati Uniti.

Di questo ed altri aspetti della futura presidenza Trump ho parlato il 9 Gennaio alla trasmissione “Voci del Mattino” in onda su Rai Radio1.

Qui di seguito il podcast dell’intervista (durata 6min25sec):

Se Trump è Pro Business ma non Pro Market

Testo dell’editoriale pubblicato l’ 8.01.2017 su “Il Sole 24 Ore”.
Qui gli altri articoli pubblicati nella rubrica “Alla Luce del Sole”.

Appena eletto era difficile prevedere cosa avrebbe fatto il neo Presidente Trump. Nella campagna elettorale aveva detto tutto e il contrario di tutto: da una tariffa del 50% sulle importazioni cinesi alla reintroduzione della separazione tra banche commerciali e d’investimento, da un uso aggressivo dell’antitrust all’abolizione in toto di Dodd-Frank, la regolamentazione finanziaria introdotta dopo la crisi. Dopo due mesi, è chiaro che la politica industriale di Trump sarà pro business , ma non pro marketContinua a leggere

Il modo giusto di opporsi a Trump: una lezione dall’Italia/ The Right Way to Resist Trump

Traduzione Italiana, a cura de Il Sole 24 Ore, dell’articolo pubblicato sul New York Times  con il titolo “The Right Way to Resist Trump.
En Español: “Lecciones de la era Berlusconi para lidiar con Trump“. 

Cinque anni fa mettevo in guardia dal rischio di una presidenza Trump. Quasi tutti ridevano. Pensavano che fosse inconcepibile.

Non è che abbia particolari doti di preveggenza: è solo che sono italiano e questo film lo avevo già visto, con protagonista Silvio Berlusconi, che è stato presidente del consiglio per un totale di 9 anni tra il 1994 e il 2011. Sapevo come sarebbero potute andare le cose.

Ora che Trump è stato eletto presidente, il parallelo con Berlusconi potrebbe offrire indicazioni utili su come evitare di trasformare una vittoria di strettissima misura in una saga ventennale. Se pensate che il limite dei due mandati e l’età avanzata del magnate possano preservare il Paese da questo fato, siete troppo ottimisti: il suo mandato potrebbe facilmente trasformarsi in una dinastia Trump.

Berlusconi è riuscito a governare così a lungo l’Italia grazie principalmente all’incompetenza dell’opposizione che aveva di fronte, così sfrenatamente ossessionata dalla sua personalità da tralasciare qualsiasi dibattito politico concreto e concentrare tutti i suoi sforzi su attacchi personali che ottenevano l’unico effetto di accrescere la sua popolarità. Il segreto di Berlusconi era la capacità di innescare una reazione pavloviana tra i suoi avversari di sinistra, che ingenerava una simpatia istantanea nella maggior parte degli elettori moderati. Trump non è diverso.

Abbiamo visto in opera questa dinamica durante la campagna per le presidenziali. Hillary Clinton era talmente concentrata a spiegare tutti i difetti di Trump che spesso e volentieri ha trascurato di promuovere le sue idee, di fornire ragioni positive per votare per lei. I mezzi di informazione erano così intenti a ridicolizzare i comportamenti di Trump che hanno finito per garantirgli una pubblicità gratuita.

Purtroppo questa dinamica non è finita con le elezioni. Poco dopo il discorso della vittoria di Trump sono scoppiate proteste in tutta l’America. Contro cosa stavano protestando queste persone? Che ci piaccia o no, Trump ha vinto in modo legittimo. Negarlo non fa che alimentare la percezione che esistano candidati «legittimi» e candidati «illegittimi», e che un’élite ristretta stabilisca quali sono gli uni e quali gli altri. Se è così, le elezioni sono soltanto un concorso di bellezza tra candidati che hanno ricevuto la benedizione dei chierici del Consiglio dei guardiani, come in Iran.

Queste proteste sono anche controproducenti. Ci saranno mille motivi per lamentarsi durante la presidenza Trump, quando verranno prese decisioni pessime. Perché lamentarsi adesso, quando non è stata presa ancora nessuna decisione? Delegittima le future proteste e rivela i pregiudizi dell’opposizione.

Anche la petizione che chiede ai membri del Collegio elettorale di violare il loro mandato e non votare per Trump potrebbe fare il gioco del presidente eletto. È un’idea incauta. Su quali basi potremmo protestare in futuro, quando Trump truccherà le carte per ottenere ciò che vuole?

L’esperienza italiana offre un modello per sconfiggere Trump. Solo due uomini in Italia hanno vinto una competizione elettorale contro Berlusconi: Romano Prodi e l’attuale presidente del consiglio Matteo Renzi (anche se nel secondo caso si trattava soltanto di elezioni europee). Tutti e due hanno trattato Berlusconi come un avversario normale e si sono concentrati sulle questioni, invece che sul personaggio. In modi diversi, tutti e due sono visti come outsider, e non come membri di quella che in Italia viene definita «la casta».

Il Partito democratico in America dovrebbe imparare la lezione. Non deve fare quello che hanno fatto i Repubblicani dopo l’elezione del presidente Obama. La loro opposizione preconcetta a qualunque sua iniziativa ha avvelenato il pozzo della politica nazionale, alimentando la reazione anti-establishment (anche se per il partito si è rivelata una strategia elettorale vincente). Ci sono moltissime proposte di Trump con cui i Democratici possono concordare, per esempio i nuovi investimenti in infrastrutture. La maggior parte dei Democratici, inclusi politici come Hillary Clinton e Bernie Sanders ed economisti come Lawrence Summers e Paul Krugman, hanno perorato l’idea delle infrastrutture come mezzo per incrementare le domanda ed espandere l’occupazione tra i lavoratori senza un livello di istruzione superiore. Potranno esserci delle differenze di dettaglio con il piano dei Repubblicani, ma l’opposizione democratica guadagnerà credibilità se cercherà di trovare i punti in comune, invece di focalizzarsi unicamente sulle differenze.

E un’opposizione focalizzata sulla personalità di Trump lo incoronerebbe come guida delle masse nella lotta contro la casta di Washington. E indebolirebbe la voce dell’opposizione sulle questioni dov’è importante condurre una battaglia di principio.

I Democratici, inoltre, farebbero bene a offrire a Trump una sponda contro l’establishment repubblicano, un’offerta che lo costringerebbe a rivelare se il suo populismo sono soltanto parole o posizioni reali. Per esempio, con l’incoraggiamento di Trump, il programma repubblicano invocava la reintroduzione della legge Glass-Steagall, che separava l’attività delle banche d’affari da quella delle banche commerciali. I Democratici dovrebbero dichiarare il loro sostegno a questa separazione, una misura a cui molti Repubblicani sono contrari. L’ultima cosa che dovrebbe volere l’opposizione è che Trump possa usare l’establishment repubblicano come foglia di fico per i suoi fallimenti, rovesciando su di esso la responsabilità di aver bloccato le riforme popolari che ha promesso durante la campagna e probabilmente non ha mai avuto intenzione di mettere in pratica. Una cosa del genere non farebbe che ingigantire la sua immagine di eroe del popolo ostacolato dalle élite.

Infine, il Partito democratico dovrebbe trovare un candidato credibile tra i leader giovani, una persona al di fuori dei bramini del partito. La notizia che Chelsea Clinton sta pensando di presentarsi alle elezioni è la peggiore che si possa immaginare. Se il Partito democratico si sta trasformando in una monarchia, come può pensare di combattere le tendenze autocratiche di Trump?


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Cercando di Decifrare l’Enigma Trump

Testo dell’articolo pubblicato il 13.11.2016 su “Il Sole 24 Ore”. 

Dalla notte di martedì, non solo gli Stati Uniti, ma il mondo intero, si domandano quale tipo di presidente sarà Trump: Reagan o Mussolini, Nixon o Berlusconi. Questo interrogativo si pone per ogni neoeletto presidente. Quello che è diverso nel caso di Trump è l’incertezza, alimentata da tre fattori. Trump è il primo presidente degli Stati Uniti che non ha alcuna esperienza politica o militare. Quindi non c’è una storia a cui guardare. Se non bastasse, in campagna elettorale Trump ha dimostrato un’estrema disinvoltura nel cambiare posizione, negando addirittura quello che aveva affermato poco prima. Per finire, il suo programma elettorale è stato straordinariamente vago e – in alcuni punti – contraddittorio con quello del Partito Repubblicano che dovrà sostenerlo alla Camera o al Senato.

Nonostante la carenza di informazioni ci sono alcuni tratti caratteristici del nuovo presidente che possono essere utilizzati per capire come si comporterà Trump. Il primo è una mancanza di un forte contenuto ideologico. Reagan era motivato da forti principi, che poi adattava alle situazioni con spirito pragmatico. Trump, invece, cerca innanzitutto il consenso e poi tenta di adattare le sue posizioni a un’ideologia conservatrice del partito Repubblicano con totale cinismo.

Il secondo tratto dominante di Trump è un enorme ego che lo spinge verso una ricerca spasmodica del successo a tutti i costi. Tutti i politici cercano di essere rieletti, ma Trump farà della sua rielezione la stella polare del suo primo mandato. Tutto sarà sacrificato su questo altare.

Infine, c’è molto da imparare dalla sua esperienza che più che di imprenditore (sarebbe un’offesa alla categoria), io definirei di “palazzinaro”. Il settore delle costruzioni è uno dei più corrotti in tutti i Paesi, compresi gli Stati Uniti. Un settore dove i soldi si fanno con scaltre negoziazioni, più che con capacità gestionali ed innovazione. Non a caso il libro di Trump si intitola “L’arte del deal”, ovvero dell’affare.

Proprio partendo da quest’attenzione spasmodica all’affare, possiamo cercare di immaginare quali saranno i primi passi di Trump in politica estera. Cercherà un accordo con Putin, che darà carta bianca alla Russia in Medio Oriente, in cambio di un’eliminazione per procura dell’ISIS. Cercherà anche un accordo con la Cina. Chiederà ai cinesi delle restrizioni volontarie sull’export (come fece Reagan con il Giappone), offrendo in cambio alla Cina mano libera (sia in termini commerciali che militari) in Asia. Entrambi questi accordi scambiano un beneficio immediato con un costo futuro. Ma per Trump l’orizzonte è la rielezione tra quattro anni, tutto quello che potrebbe succedere dopo è irrilevante.

Dove Trump manterrà la sua promessa elettorale è nella costruzione del muro con il Messico. Si tratta di un’opera relativamente economica (600 milioni di dollari), dagli enormi effetti mediatici e con nessun impatto pratico. Insomma un grande spottone elettorale.

Più complesse saranno le sue scelte in politica economica. In campagna elettorale Trump ha usato toni molto populisti, promettendo una reintroduzione della separazione tra banche commerciali e banche d’investimento (un’idea odiata dall’industria finanziaria) e un blocco della fusione tra ATT e Time-Warner, rispolverando i fasti di un’antitrust addormentata da decenni (un’idea odiata da tutte le grandi imprese). Ma ha anche promesso di abolire la nuova regolamentazione finanziaria e la riforma sanitaria di Obama (idee molto apprezzate nel mondo del business), anche se di quest’ultima sembra ora che voglia mantenere alcuni aspetti.

La mia previsione è che lungi da essere un novello Andrew Jackson (il più populista tra i presidenti americani che arrivò ad abolire la banca centrale), su questo fronte Trump sarà molto più simile a George W. Bush, pur continuando a usare la retorica populista per motivi elettorali. La mia conclusione si basa sull’entourage di persone che lo circonda, ma anche sulla sua necessità di supporto all’interno dell’establishment del Partito Repubblicano. Trump è stato eletto quasi contro l’establishment del suo partito, ma ora ha bisogno di questo sostegno per approvare qualsiasi legge. Quindi nello spirito del deal a tutti i costi, Trump sarà ben lieto di abbandonare l’idea di rendere il sistema più giusto per comprarsi il consenso dei parlamentari repubblicani sul punto del suo programma economico cui tiene maggiormente: un aumento della spesa in infrastrutture.

Mentre la maggior parte dei deputati e senatori repubblicani sono ben contenti di sostenere l’aumento della spesa in difesa e una riduzione delle imposte (gli altri punti del programma di Trump), sono sempre stati contrari alla spesa in infrastrutture (una manovra keynesiana cara ai democratici).

Dubito, però, che non sia raggiunto un compromesso. I deputati e senatori repubblicani si son distinti per la loro opposizione ostinata a qualsiasi proposta di Obama. Se mettono il bastone tra le ruote anche a Trump, finiscono per perdere qualsiasi credibilità. Per questo mi aspetto un accordo che preveda sia una riduzione delle imposte, che un aumento della spesa in difesa e infrastrutture (compreso il famoso muro).

La conseguenza sarà un aumento del deficit, con buona pace dei Repubblicani più tradizionali come Paul Ryan. Nel breve periodo questo avrebbe effetti espansivi per l’economia americana, con benefici – in termini sia di occupazione che di aumento dei salari – concentrati particolarmente in quella classe media bianca che ha portato Trump alla vittoria.

Il vero perdente di questa manovra economica sarebbe l’Europa e particolarmente l’Italia. Un aumento del deficit porterebbe ad un aumento dei tassi di interesse in America e a ruota in Europa. L’aumento dei tassi prodotto da una simile manovra espansiva effettuata da Reagan appena rieletto portò al default di molti Paesi in America Latina. Speriamo che questa volta non tocchi all’Europa Latina.


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Perché Hillary Clinton ha fallito

Testo dell’articolo pubblicato il 10.11.2016 su “Il Sole 24 Ore”.

Nel 1972 il Partito Repubblicano di Nixon manipolò le primarie Democratiche con lo spionaggio al Watergate per far vincere Mc Govern, un candidato che non aveva chance di vincere nel test a testa con Nixon. Dicky Tricky vinse con un plebiscito.

Quest’anno a truccare le primarie Democratiche ci ha pensato lo stesso Partito Democratico. Come hanno evidenziato le email rivelate da Wikileaks, Debbie Wasserman Schultz – la presidente del partito Democratico – invece di essere un arbitro imparziale delle primarie, si era trasformata in uno dei principali sostenitori della Clinton. Se non bastasse, sempre da Wikileaks è emerso che una giornalista amica ha passato alla Clinton le domande prima di un dibattito con Bernie Sanders. Tutto l’establishment Democratico ha fatto squadra contro un candidato che avrebbe avuto maggiori chance di vincere contro Trump.

Perché lo ha fatto? Perché era sentimento comune che la presidenza fosse dovuta a Hillary Clinton, come se gli Stati Uniti fossero una monarchia. Le era dovuta per aver resistito a fianco del marito Bill, nonostante i continui tradimenti. Le era dovuta da Obama, che dopo averla battuta sul filo di lana nel 2008, aveva abbracciato il clan Clinton, al punto da scoraggiare il suo vicepresidente Biden, un candidato con migliori chance di vincere, dal partecipare alle primarie. Le era dovuta perché era giusto che una donna diventasse presidente, nonostante Hillary Clinton fosse arrivata alla fama principalmente come “moglie di”. Margaret Thatcher e Angela Merkel sono diventate primo ministro per meriti personali, non perché mogli di primi ministri. Perché gli Stati Uniti dovrebbero meritarsi di meno? O le quote rosa (su cui – in alcuni casi – sono d’accordo) si devono applicare anche alla posizione di presidente degli Stati Uniti?

Non era considerata la candidata più preparata? Sulla carta aveva indubbiamente molta più esperienza, ma aveva sbagliato le più importanti decisioni che aveva preso, dal voto a favore dell’invasione dell’Iraq alla decisione di invadere la Libia, fino a quella di lasciare senza soccorso l’ambasciatore americano a Bengasi, il cui cadavere finì trascinato per le strade della città libica.

gli errori del Partito Democratico

Come è possibile che il Partito Democratico abbia commesso un errore così madornale? Perché ha pensato che le elezioni si vincessero con i soldi e non con i voti. Hillary Clinton ha raccolto $687 milioni contro i $307 milioni di Trump. Con il sostegno degli amministratori delegati delle grandi imprese (tutti a suo favore) e non quello dei colletti blu. Con il consenso dei principali media, non capendo che la fiducia degli americani nei mezzi di comunicazione è così bassa che ogni attacco a Trump era pubblicità gratuita a suo favore. Più che vinta da Trump, questa elezione è stata persa da Hillary Clinton e dall’establishment democratico che l’ha sostenuta.

Il Partito Democratico ha sbagliato anche perché ha scelto un candidato sordo alla sofferenza dell’americano medio, un candidato che non “sentiva la bruciatura” (“feel the Bern”), come recitava lo slogan inventato con un gioco di parole da Sanders (Bern è il suo diminutivo e “burn” è la parola inglese per bruciatura).  Dall’alto dei $139 milioni guadagnati negli ultimi 7 anni, dall’alto del favoloso banchetto di nozze della figlia, pagato – sempre secondo Wikileaks – dalla Fondazione Clinton, dall’alto dei meeting con i sovrani più repressivi del mondo, che riversavano soldi nella Fondazione Clinton nella speranza di avere dei favori, Hillary Clinton non poteva identificarsi con la pena di quei colletti blu, che lei stessa aveva definito “deplorevoli”. E loro non potevano identificarsi con lei.  Hillary Clinton era il peggior candidato che il Partito Democratico potesse scegliere in un anno come questo. E questo era chiaro a chiunque non vivesse solo tra i salotti di New York e i golf di Palm Beach, leggendo il New York Times e ascoltando CNN, ribattezzata il Clinton News Network. Il partito Democratico è rimasto vittima della bolla mediatica che ha creato e in cui vive. Così facendo non solo si è autocandidato alla sconfitta, ma ha condannato il mondo intero ad almeno quattro anni di Presidenza Trump.

NON POSSIAMO RIDURRE TUTTO QUESTO A POPULISMO. sI CHIAMA democrazia

Il Partito Democratico americano deve fare una seria autocritica. Ma l’autocritica dobbiamo farla anche noi. Non possiamo ridurre tutto questo a populismo. Si chiama democrazia. Se in una democrazia la maggioranza dei cittadini non vede migliorare le proprie condizioni di vita per molti anni di seguito, finisce per votare contro chi governa, contro l’establishment, anche a costo di prendersi dei rischi. È il coraggio della disperazione. Non dimentichiamocelo.


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Chiunque vinca l’America non è più la stessa

Testo dell’editoriale pubblicato il 6.11.2016 su “Il Sole 24 Ore”.

A 36 ore dal voto, con 33 milioni di schede già consegnate, l’esito delle elezioni presidenziali americane sembra ancora molto incerto. Gli ultimi sondaggi danno i due candidati pressoché alla pari, mentre i siti di scommesse vedono Hillary Clinton in leggero vantaggio. Ma non sarebbe la prima volta che sbagliano. I sondaggisti sono molto più bravi a predire le preferenze politiche che la partecipazione al voto ed oggi le elezioni si vincono motivando i propri elettori a votare, non convertendo gli elettori altrui.  Come hanno sbagliato per la Brexit, c’è il serio rischio che i sondaggi sbaglino anche qui. La tensione è talmente alta che gli psicologi hanno notato un aumento degli attacchi di ansia tra i loro pazienti. Il mondo intero guarda con il fiato sospeso. Siamo veramente sull’orlo del baratro?

Penso proprio di no. Con tutta probabilità la Camera avrà una maggioranza Repubblicana e il Senato una Democratica. Quindi chiunque vincerà le elezioni presidenziali dovrà fare compromessi per governare. Uno svantaggio se si desidera un’azione di governo rapida ed incisiva, ma un grosso vantaggio se si teme che il Presidente possa prendere decisioni inconsulte (vantaggio da non dimenticare in tempi di riforme costituzionali). È proprio questa divisione dei poteri a rassicurarci che il danno potenzialmente prodotto da un presidente degli Stati Uniti sia limitato. Per questo, chiunque risulti eletto attuerà una politica fiscale più espansiva, una politica estera più isolazionista e avrà una maggiore riluttanza a firmare nuovi trattati di libero scambio.  Queste sono le indicazioni emerse durante le lunghe primarie e questa sarà la direzione di marcia del nuovo presidente chiunque esso sia. Giudici della Corte Suprema a parte, chi vincerà la corsa presidenziale non sarà così determinante per il futuro degli Stati Uniti e del mondo. Non per questo la campagna elettorale non lascerà un segno, anzi.

Il primo segno riguarda la massa di “deplorevoli”, come li ha chiamati Hillary Clinton, alla ricerca di una rappresentanza politica. Sono l’americano medio che non vede crescere il proprio reddito reale da quarant’anni, sono gli operai che vedono il loro lavoro eliminato e non hanno prospettive per riqualificarsi, sono i senzalavoro che si suicidano lentamente imbottendosi di medicine offerte dal servizio sanitario nazionale.  Quello stesso stato sociale che non li aiuta quando sono in difficoltà, distribuisce loro gratuitamente e copiosamente le medicine più pericolose, per la gioia dell’industria farmaceutica. Questi “deplorevoli” sono disposti a tutto pur di cambiare l’establishment di Washington, anche a votare per un candidato considerato deplorevole. Anzi più è considerato deplorevole dalla maggior parte dei media, e più lo sostengono, perché si identificano con lui. Che Trump vinca o no, questa massa ha assunto rilevanza politica e non la perderà facilmente.

Il secondo segno riguarda la fine dei partiti tradizionali come li abbiamo conosciuti. Il Partito Repubblicano si era basato su una coalizione tra una élite pronta a sacrificare la tolleranza sui diritti civili per la difesa dei suoi interessi economici ed una base pronta a sacrificare il suo naturale protezionismo ed isolazionismo, in nome della difesa dei tradizionali valori cristiani. Trump ha spezzato questa coalizione dimostrando che si può vincere le primarie rivolgendosi solo alla base.  Dopo questa rivelazione è difficile immaginare se e come il Partito Repubblicano possa sopravvivere senza rifondarsi completamente. Ma anche il Partito Democratico affronta una crisi esistenziale. Si era basato su una coalizione tra le minoranze etniche e una élite che aveva scoperto i benefici i benefici dell’interventismo statale per i grandi gruppi. Come lo scandalo delle email ha rivelato, questa élite non ha esitato a truccare le regole del gioco per far vincere il suo candidato a spese di Bernie Sanders. Se Hillary Clinton è così in difficoltà con un rivale come Trump vuol dire che i “deplorevoli” democratici e parte dei giovani l’hanno abbandonata.

Ma il cambiamento più rilevante riguarda l’atteggiamento degli Americani verso il proprio sistema politico. Nel 1960 Nixon riconobbe (senza alcun ricorso) la vittoria di Kennedy nonostante in Illinois avessero votato anche i morti. Dopo una battaglia giudiziaria, nel 2000 Gore riconobbe la vittoria di Bush in Florida per 154 voti, nonostante i dubbi sui voti espressi. Oggi da una parte Donald Trump mette in dubbio preventivamente i risultati delle elezioni se a vincere non sarà lui, sulla base di ipotetici brogli di cui non c’è alcuna evidenza. Dall’altra, Hillary Clinton mette in dubbio l’imparzialità ed indipendenza dell’FBI per coprire i propri errori. Se gli stessi leader accusano il sistema di essere truccato, come può l’americano medio fare diversamente?

Questa rischia di essere l’eredità più pesante di queste elezioni. Senza un’accettazione delle regole del gioco è impossibile per un presidente raccogliere il paese dietro di sé. E senza questa coesione è difficile governare. Noi italiani lo sappiamo fin troppo bene. Per questo le regole del gioco devono cambiare per riguadagnare credibilità, a partire dal modo in cui i finanziamenti elettorali sono raccolti. Difficile immaginare che, se eletti, questi candidati vadano in questa direzione. Ma se non lo faranno, a soffrire non sarà solo la democrazia americana, ma il mondo intero.


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