Come proteggere l’interesse italiano in Europa

Lettera al Premier – di Francesco Giavazzi, Lucrezia Reichlin e Luigi Zingales
Testo della lettera pubblicato il 23.06.2018 sul Corriere della Sera 

Signor Presidente del Consiglio,

le dichiarazioni rilasciate a Meseberg dal presidente francese Emmanuel Macron e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel sono un segno importante della volontà dei due maggiori Paesi della eurozona di riformare l’Unione monetaria. Se ne discute da anni, proposte diverse sono pervenute da parte di esperti e di istituzioni federali, ma per la prima volta l’iniziativa è stata presa da capi di Stato eletti e questa la rende più credibile.
La trattativa che si svolgerà durante l’incontro dei capi di governo la prossima settimana è quindi un momento da non sottovalutare e a cui l’Italia deve partecipare con una strategia chiara.
Le inviamo questa lettera aperta per condividere con Lei il nostro pensiero su quali debbano essere le linee di fondo che dovrebbero ispirarLa. Scriviamo insieme pur avendo nel passato espresso posizioni diverse sui benefici dell’euro, ma proprio per sottolineare ciò su cui si può trovare una linea unitaria nell’interesse dell’Italia in un’occasione che può essere una opportunità, ma che comporta anche rischi.
Ci limitiamo a parlare della parte della proposta che riguarda i problemi economici perché è su questi che ci riteniamo più competenti.
Innanzitutto apprezziamo l’impegno del Suo governo sulla partecipazione dell’Italia all’Unione monetaria, ma — data la comunicazione a volte contraddittoria di alcuni membri della coalizione — La sollecitiamo a chiarire ogni dubbio onde evitare di minare la nostra efficacia nella trattativa.
A fronte di un impegno non ambiguo dell’Italia a re stare nell’euro deve esservi un analogo impegno del governo tedesco a opporsi a chi oggi in Germania solleva questioni sul saldo delle partite tra banche centrali, altrimenti noto come Target 2. Finché l’euro esiste, tale saldo non rappresenta in alcun modo un debito dell’Italia. Qualsiasi discussione su un possibile limite alla dimensione di questo saldo corrisponde a una richiesta di escludere l’Italia dall’Unione monetaria e in quanto tale è destabilizzante, sia dal punto di vista economico che politico.
Comprendiamo chi ha criticato elementi della proposta franco-tedesca ma La invitiamo a non esprimere un parere negativo e accogliere invece gli elementi di progresso, insistendo sui punti che per noi sono cruciali. Con questa premessa veniamo alla sostanza della proposta.

1. Bilancio dell’eurozona
È la prima volta che si propone un bilancio comune per gli investimenti, la convergenza e la stabilizzazione nell’area dell’euro. Per quanto riguarda gli investimenti si va oltre al piano Juncker. Si afferma per la prima volta la necessità di un meccanismo comune che serva a trasferire temporaneamente risorse a quei Paesi che hanno subito impatti ciclici più negativi di altri. Non è chiaro quale sarà la dimensione di questo bilancio, ma il principio è positivo e va sostenuto. I dettagli su come finanziare questo strumento sono da definire. L’Italia deve affermare il principio che nel disegnare questo bilancio comune sia necessario riconoscere che la stabilizzazione e la convergenza si devono ottenere non solo allocando la spesa, ma anche allocando in modo diverso i contributi. Per mantenere un livello di inflazione più omogeneo nell’area euro è necessario che le economie in espansione contribuiscano con maggiori fondi rispetto alle economie in recessione. Se nel 2005 la Spagna avesse contribuito in modo più che proporzionale a sostenere la disoccupazione tedesca, non ne avrebbe beneficiato solo la Germania, ma la Spagna stessa, perché avrebbe ridotto l’eccessivo aumento dei prezzi, che poi ha dovuto correggere con una pesante recessione. Su questo l’Italia deve insistere.

2. Assicurazione comune alla disoccupazione
Un’assicurazione comune alla disoccupazione è una novità che introduce il principio della condivisione del rischio ciclico e va sostenuta. Rimangono comunque da chiarire dettagli e dimensioni del programma.

3. Fondo di stabilità
Qui ci sono progressi ma anche insidie.
i. Un passo avanti importante è la proposta di cambiare le regole che governano il fondo, un passo che contempla un cambiamento del Trattato ad hoc che lo ha istituito. Si propone di abbandonare una gestione intergovernativa, soggetta alla regola dell’unanimità incorporando il fondo nei Trattati europei. La possibilità di un veto tedesco rimarrà — ma anche l’Italia ha un diritto di veto — ma non ci sarà più bisogno dell’unanimità, condizione essenziale per la sua credibilità;
ii. Si contempla la possibilità di linee di credito precauzionali instaurando quindi il principio che bisogna attrezzarsi per poter aiutare un Paese prima che una crisi sia esplosa quando è spesso troppo tardi. Il credito si erogherebbe previa valutazione della sostenibilità delle politiche del Paese in questione, ma senza richiedere un vero e proprio programma. Anche questa proposta va accolta positivamente;
iii. Si propone di introdurre maggiore trasparenza nell’analisi di sostenibilità del debito. Anche qui dobbiamo difendere il principio per evitare fenomeni, come quelli accaduti in Grecia del 2010, dove gli Stati membri pagano per gli errori delle banche. Tuttavia, è cruciale affermare il principio che i criteri di sostenibilità del debito devono basarsi su variabili storiche (per esempio il saldo di bilancio primario degli ultimi anni) e non prospettiche, per evitare che una paura del mercato si trasformi in una condanna, come successe all’Italia nel 2011. Questo è l’aspetto più insidioso dove l’Italia deve fare valere il suo punto di vista.

4. Unione bancaria e dei mercati dei capitali
Sulle banche la proposta è al di sotto delle aspettative. Si afferma la volontà di far sì che l’Esm (il Meccanismo europeo di stabilità) possa erogare una linea di credito che alimenti il fondo di ricapitalizzazione delle banche («backstop»), ma si condiziona l’introduzione di questo strumento ad una sostanziale riduzione del rischio delle banche in termini di crediti deteriorati ed altri criteri che non si specificano chiaramente. Si nega quindi il principio che riduzione e condivisione del rischio debbano procedere insieme e si propone invece di procedere in sequenza: riduzione del rischio prima, condivisione dopo. La proposta rimane inoltre molto vaga sui tempi dell’introduzione di un’assicurazione comune ai depositi bancari e sulle condizioni necessarie ad introdurre il fondo di ricapitalizzazione. Chiaramente l’accordo per completare l’Unione bancaria in tempi brevi non c’è e si rimanda l’analisi a tavoli tecnici. L’Italia deve esprimere un parere critico ma adoperarsi per migliorare la proposta sui tavoli in cui verrà discussa.

Queste le linee principali. Data la mancanza di dettagli su aspetti importanti della proposta, e l’invocazione di tavoli tecnici per metterli a punto, è importante che l’Italia partecipi al processo anche a livello tecnico per fare valere i suoi diritti e che non si deleghino discussione e trattativa alla Francia e alla Germania.
È un primo passo, certamente ancora incompleto, per migliorare il funzionamento dell’eurozona e dotarla degli strumenti necessari ad affrontare una crisi. Ma è un passo avanti dopo sei anni in cui i progressi sono stati pressoché inesistenti. Anche il fatto che di questa proposta si discuta non nel mezzo di una grave crisi, come è avvenuto in passato, è un segnale importante. E cruciale, quindi, per l’Italia entrare attivamente e in modo costruttivo nel negoziato politico e tecnico della prossima settimana, e in quelli che seguiranno.
Lo sguardo è oggi giustamente rivolto al grande tema delle migrazioni, ma il processo di costruzione europea sta segnando passi che per il nostro Paese sono altrettanto importanti.

La vicenda Fincantieri apre grosse incognite sul futuro dell’Europa

Intervista pubblicata il 30 luglio 2017 sul quotidiano “Il Piccolo”, a cura di Piercarlo Fiumanò.

Zingales: «Futuro dell’Europa cupo dopo l’altolà a Fincantieri»
L’economista: «L’Italia fa bene a indignarsi di fronte alla manovra protezionista di Macron su Stx: è una discriminazione verso il gruppo triestino»

Luigi Zingales è professore di Finanza all’University of Chicago Booth School of Business. Tra gli economisti più citati, nel 2012 è stato inserito dalla rivista Foreign Policy come uno dei 100 pensatori più influenti al mondo. A lui abbiamo rivolto qualche domanda in merito alla vicenda Fincantieri-Stx.

Francamente non ne vedo. Penso che mettendo il veto all’acquisizione abbia sicuramente ceduto a pressioni di tipo protezionistico. L’ingresso di Fincantieri è avvenuto nell’ambito della procedura fallimentare del gruppo coreano proprietario di Stx.

Mi chiedo quale sia la logica di Macron nel non permettere agli italiani quello che era permesso ai coreani, soprattutto in uno scenario europeo dove si sta lavorando al progetto di creazione di una Difesa comune europea. L’Italia fa bene a indignarsi.

L’Europa dominata da un asse franco-tedesco che vuole orientare le decisioni di politica industriale a scapito dell’Italia?
Non credo a una sorta di cospirazione internazionale contro l’Italia. Piuttosto si ripropone un esempio della migliore tradizione francese nella difesa dei campioni nazionali.

Leggi anche: “Come vanno difese le imprese Italiane”

Ci troviamo di fronte a un deciso cambio di rotta da parte di Macron che in campagna elettorale per le presidenziali si era presentato come fautore di una piattaforma europeista e liberista. Stupisce di conseguenza questa sterzata in senso protezionistico che ha avuto come conseguenza la rottura dei patti con Fincantieri.

Nel suo ultimo libro lei descrive un’Europa che mostra tutte le sue fragilità: sogno da realizzare o incubo da cui uscire. Il ritorno alla difesa degli interessi nazionali è un sintomo di questa debolezza?
Il protezionismo è una costante della storia della Francia che diventa europeista innanzitutto per proteggere l’interesse nazionale minacciato dalla Germania.

Macron in campagna elettorale sembrava suggerire una svolta in senso europeista. La vicenda Fincantieri lascia pensare che in realtà sia stata solo una messa in scena a fini elettorali.

Il sogno europeo inizia con la nascita della moneta unica. Questo sogno rischia di andare in frantumi?
La casa comune europea ha fondamenta fragili se costruita da politici eletti su base nazionale. L’Europa in questo modo diventa l’ideologia dominante di una ristretta élite perché tutti cercheranno di proteggere gli interessi del proprio Paese.

È una costruzione fragile perché manca un vero presidente eletto dall’Europa. L’unica istituzione che ha poteri reali è la Commissione europea per la concorrenza che cerca di imporre le stesse regole a tutti. Ci lamentiamo dei francesi, ma anche il salvataggio delle banche venete è stato compiuto approfittando delle debolezze dell’Europa.

Fincantieri è una delle poche grandi industrie multinazionali in Italia che in questo caso ambisce a diventare protagonista di un progetto europeo, l’Airbus dei mari. L’interdizione dei francesi, secondo la Commissione Ue, non comporta aiuti di Stato. Che ne pensa?
Sono d’accordo sul fatto che non siamo di fronte a un caso di aiuto di Stato da parte della Francia ma piuttosto di una manovra protezionista. È una forma di discriminazione nei confronti di Fincantieri, in quanto gruppo non francese, che vìola gli stessi principi e regole sui quali dovrebbe fondarsi un mercato comune europeo.


“L’Italia soffre da sempre di una scarsa capacità di proposta e di difesa dei propri interessi a Bruxelles e a Francoforte.”


Nel frattempo i francesi hanno lanciato una campagna di investimenti in Italia: non dovrebbe esserci reciprocità?
In realtà sbaglieremmo a porre veti sugli investimenti dei transalpini nel nostro Paese. Dovremmo invece farci sentire a livello europeo spiegando che non è su basi protezionistiche che si costruisce l’Europa.

Inutile allora lamentarci per il ritorno dei populismi quando un leader che si presenta come un campione di europeismo si comporta esattamente come Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon, suoi avversari alle presidenziali.

Padoan lamenta una sfiducia nei confronti dell’Italia. Ma quale forza negoziale possiamo esercitare anche a livello europeo?
L’Italia soffre da sempre di una scarsa capacità di proposta e di difesa dei propri interessi a Bruxelles e a Francoforte.

La Germania è abile a scegliere principi logici e nell’interesse del Paese che si traducono in leggi europee. Noi italiani dobbiamo essere capaci di difendere i nostri interessi in Europa nello stesso modo. Invece ci affidiamo a inutili tatticismi che non portano a risultati concreti.

Italia debole e Europa incompiuta. É la famosa frase di Kissinger “chi devo chiamare quando voglio chiamare l’Europa”.
Germania e Francia sono molto più forti economicamente e possono fare valere i propri interessi. L’Italia però ha meno influenza e peso politico di quanto potrebbe esercitare con i suoi rappresentanti in Europa.


“Non dobbiamo difendere una singola grande impresa ma l’intero sistema industriale.”


Ma c’è un problema di forza del nostro sistema industriale? Secondo una recente indagine di Mediobanca le nostre grandi imprese (compresa Fincantieri) sono ormai molto poche.
Non dobbiamo difendere una singola grande impresa ma l’intero sistema industriale. Quando la politica interviene per difendere Fincantieri nella vicenda Stx deve agire come se difendesse gli interessi dell’Italia in Europa.

La partita italo-francese è anche una conseguenza della Brexit? Questo è il terzo schiaffo dato all’Italia, dopo quelli sulla gestione dei migranti e sulla questione libica…
Distinguerei fra la vicenda Fincantieri e la questione libica.

Macron sta modellando la sua politica nella migliore tradizione gollista e dell’ex presidente Sarkozy che è stato uno dei principali responsabili dell’intervento in Libia che ha prodotto grande instabilità ed è stato un vero disastro.

L’Europa continua a essere assente e Macron continua a fare gli interessi francesi. L’Italia, ancora una volta, sta facendo la parte del vaso di coccio perchè nel nuovo scenario internazionale e in particolare sul fronte migranti sta soffrendo più di tutti.

Come finirà la vicenda Stx Fincantieri?
É possibile che dietro le quinte dello scontro in realtà si stia lavorando a una mediazione con un bilanciamento di concessioni reciproche. Certo, da questa vicenda l’immagine europeista di Macron esce molto ridimensionata. La vicenda Fincantieri apre grosse incognite sul futuro dell’Europa che oggi mi sembra molto più cupo.

La peggiocrazia che rischia di uccidere Generali e il Paese

Testo dell’articolo pubblicato il 29.01.2017 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole”. 

Da anni ci dicono che dobbiamo fare “le riforme”, perché il nostro Paese non è competitivo. Ed effettivamente la classifica del World Economic Forum (Wef) mette l’Italia al 44° posto per competitività, sotto all’India e all’Azerbaijan.  Una delle debolezze storiche dell’Italia, su cui si è lungamente dibattuto e legiferato, è la mancanza di flessibilità nell’assumere e licenziare, un criterio che vede il nostro Paese ancora al 124° posto (ma comunque sopra la Francia ed appena sotto l’Austria), probabilmente perché gli effetti del “Jobs Act” non sono stati ancora pienamente recepiti. Meno riconosciuta, ma altrettanto importante, è la mancanza di meritocrazia in azienda. Il World Economic Forum classifica i paesi anche in base a come vengono selezionate le posizioni di alta dirigenza.

Un paese riceve un punteggio basso se nelle posizioni apicali vengono scelti “di solito parenti o amici senza riguardo al merito”, mentre riceve un punteggio alto se al vertice sono selezionati “manager per lo più professionisti scelti per merito e per le loro qualifiche.”  Ebbene in questo criterio l’Italia è al 102° posto, ultima tra i Paesi europei, sotto la Grecia e la Bulgaria.

Tutte le classificazioni internazionali hanno limiti, e questa non è un’eccezione. Purtuttavia colpisce perché la classifica del Wef è basata sull’opinione di un panel di manager internazionali. Ovvero sono i propri pari stranieri a considerare come poco qualificati i nostri manager o meglio i nostri processi di selezione dei manager. Perché di manager italiani di talento nel mondo ce ne sono molti, da Vittorio Colao a Mario Greco, da Diego Piacentini a Luca Maestri. Il problema è che non solo non vengono apprezzati in Italia, ma sono spesso cacciati dall’Italia, proprio perché la loro bravura li rende poco controllabili.

Prendiamo ad esempio Generali, uno delle poche grandi imprese italiane rimaste. Nel 2012, sotto pressione della crisi dello spread, Mediobanca sceglie come manager proprio Mario Greco, che porta in Generali una cultura meritocratica.   I manager non vengono più scelti in base al loro coefficiente di “triestinità’ o alle loro amicizie personali con i principali azionisti, ma in base alla competenza. Arrivano il tedesco Carsten Schildknecht come Chief Operating Office e l’indiano Nikhil Srinivasan, come capo degli investimenti.  I risultati non si fanno attendere. Il titolo cresce del 57%, sette punti percentuali più del dell’indice azionario della Borsa di Milano (MIB-FTSE) nello stesso periodo, e il rendimento del portafoglio titoli di Generali supera la media dei competitori per tre anni consecutivi.

Questi risultati, però, non bastano a garantire a Mario Greco un automatico rinnovo del contratto. Invece di ringraziarlo per i risultati ottenuti, i principali azionisti fanno di tutto per limitarne i poteri, proponendo perfino un limite di età, nonostante Greco abbia solo 57 anni. Greco se ne va a Zurich perché, come tutti i manager capaci, ha alternative. Proprio per questo non veniva considerato “leale”, ovvero disposto a fare qualsiasi cosa per tenere la poltrona. Come un lavoro di Bandiera et al. dimostra, in Italia alla competenza viene preferita la lealtà di chi manca di alternative: quella che ho più volte definito come la “peggiocrazia,” perché i manager peggiori sono quelli più leali, in quanto privi totalmente di alternative.

Uscito Greco, poco dopo se ne vanno anche i manager portati da lui: proprio perché, essendo bravi, hanno alternative più allettanti. I principali azionisti, tranquillizzati dalla protezione che lo scudo di Draghi fornisce alle imprese finanziarie, non cercano di sostituirlo con un’alternativa forte. Seguendo il vecchio principio del divide et impera, scelgono una diarchia tra due manager interni: Donnet e Minali. Come era facilmente prevedibile, la diarchia non funziona e Generali perde anche Minali. A farne le spese è il prezzo di Borsa che fino a settembre scende del 25% (contro il -18% dell’indice) quando cominciano i rumor su un possibile takeover, perché Generali è diventata una possibile preda. E questo non è un male, ma un salutare meccanismo di un sistema di mercato. Se una società non è gestita bene, viene acquisita da chi può gestirla meglio, a beneficio non solo degli azionisti, ma di tutto il Paese.

L’Italia ha un disperato bisogno di meritocrazia al vertice, non di un capitalismo di relazioni.

Purtroppo in Italia il mercato non funziona, soprattutto per quanto riguarda il controllo societario. Invece di guardare a chi potrebbe gestire meglio la società, si guarda ai quarti di italianità del management e della società acquirente, come questi fossero una garanzia di qualità. Quando Del Vecchio ha voluto vendere Luxottica, non ha guardato al passaporto dell’acquirente, ma alla combinazione ottimale degli attivi e del management. Perché Generali non dovrebbe fare altrettanto? Se BancaIntesa ha un programma strategico, ben venga. Ma se decide di acquisire Generali per difendere l’italianità, rischia di affossare non solo se stessa e la terza compagnia d’assicurazioni europea, ma il Paese stesso. L’Italia ha un disperato bisogno di meritocrazia al vertice, non di un capitalismo di relazioni. Di fronte ad una governance incapace di selezionare manager di qualità, il takeover ostile è il penultimo baluardo del mercato per promuovere la meritocrazia ai vertici delle imprese. Dopo di questo viene solo il fallimento, con i tutti i disastri che ne conseguono. Meglio un’Assicurazioni Generali francese o tedesca che un’Assicurazioni Generali fallita. Ricordiamoci di Alitalia.


Qui gli altri articoli della rubrica “Alla Luce del Sole”

Come vanno difese le imprese Italiane

Testo dell’articolo pubblicato il 15.01.2017 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole”. English translation below.

Dopo la reazione francese all’acquisizione da parte dell’italiana Fincantieri dei cantieri navali di Saint-Nazaire, alcuni lettori mi hanno scritto adirati: perché noi dovremmo accettare gli investimenti francesi in Italia, quando i francesi ostacolano in tutti i modi gli investimenti delle nostre imprese nel loro Paese? La domanda è più che legittima e merita una risposta adeguata.

Ci sono due modi di difendere le imprese italiane. Il primo è quello di utilizzare la nostra diplomazia per assicurarci che, sia a livello europeo che a quello internazionale, le nostre imprese non siano ingiustamente discriminate. Questo non vale solo nel caso di acquisizioni, come quella di Fincantieri.  Ma vale ancora di più per le direttive europee decise a Bruxelles, che spesso colpiscono ingiustamente le nostre imprese. Sarebbe compito dei nostri funzionari e dei nostri politici assicurarsi che le decisioni prese in sede comunitaria se non favoriscono, almeno non creino danno alle nostre imprese.

Il secondo modo di difendere le imprese italiane è quello di creare difficoltà politiche contro le acquisizioni delle nostre imprese da parte di stranieri, come ventilato dal Ministro Calenda e dal Governo Gentiloni nel caso degli acquisti di azioni Mediaset da parte della francese Vivendi.

È ovvio che per l’interesse generale il primo modo di difendere l’italianità è di gran lunga superiore al secondo. Invece di contribuire all’escalation di una guerra commerciale, si contribuisce a rendere effettivo un principio di imparzialità che, alla lunga, beneficia tutti.

Meno ovvio, ma proprio per questo più importante, è che il primo metodo domina il secondo anche dal punto di vista dell’efficacia. L’Italia non è né la Cina, né gli Stati Uniti, e neppure la Germania. Queste nazioni hanno un grande mercato interno da difendere. Per questi Paesi vale la pena di rischiare delle ritorsioni sui mercati esteri, pur di proteggere il grande mercato domestico dalle incursioni straniere. Per l’Italia non è così. Perdere accesso ai mercati esteri è di gran lunga più costoso. Da qui la miopia di una politica protezionistica.

Se non bastasse, il primo modo di difendere le imprese italiane è superiore al secondo anche da un punto di vista strategico. L’Italia non ha la forza politica di Cina, Stati Uniti, e Germania. Quindi non può vincere le dispute internazionali con la forza. Lo può fare solo con il supporto delle norme internazionali e della ragione. Da qui l’importanza che l’Italia applichi queste norme in modo rigoroso nel nostro Paese. In caso contrario non avrebbe alcuna legittimità per chiedere una loro applicazione a livello internazionale.

Perché allora i nostri governi sembrano sempre adottare la strategia perdente? Innanzitutto, perché è una strategia con un immediato ritorno d’immagine. È facile ergersi a parole a difesa dell’italianità delle imprese, più difficile difendere le ragioni delle imprese italiane nel segreto di una commissione europea o nei colloqui bilaterali riservati con i principali esponenti politici degli altri Paesi.

Temo che il secondo motivo sia perché la nostra burocrazia e i nostri governi non hanno le risorse umane e le capacità tecniche per elaborare delle tesi e sostenerle con le appropriate motivazioni a livello europeo e mondiale. Non siamo riusciti neppure a opporci a livello europeo a un’accelerazione dell’introduzione della regola del bail in (inizialmente programmata per il 2018) quando sapevamo i danni che questa nuova regola avrebbe prodotto sul nostro debole sistema bancario. Come possiamo sperare che i nostri governi contestino con successo a Francia e Germania i loro abusi?

Ma c’è un altro motivo per cui i governi italiani tendono ad adottare la strategia perdente per difendere gli interessi nazionali. Anche se non beneficia la nostra economia nel suo complesso, la difesa ad personam (o ad aziendam) produce grandi benefici immediati a qualche imprenditore nostrano.  La difesa dell’italianità di Alitalia fatta da Berlusconi e dai “patrioti” non ha beneficiato nel lungo periodo la nostra compagnia di bandiera, ma ha permesso a Carlo Toto di uscire brillantemente dal suo investimento in AirOne.  Lo stesso vale per la difesa di Mediaset: non è nell’interesse dell’Italia, ma solo della famiglia Berlusconi.

Insomma un misto di incapacità e miopia politica ci impedisce una difesa dei nostri diritti economici in Italia e nel mondo, condannandoci ad un patriottismo straccione che finisce per danneggiare il nostro Paese. E poi ci stupiamo se gli Italiani stanno diventando anti-Europa? Con questa classe politica in Europa non riusciamo a sopravvivere. O la cambiamo o finiremo per uscire dall’Europa per disperazione.

Sul tema dell’Italianità delle imprese leggi anche:
– Magari con uno “straniero” a Mediaset l’Italia diventa un Paese normale
– Interesse nazionale o pretesto per distorcere le regole a favore di qualche giocatore (nostrano)?
– Per attrarre gli investitori stranieri occorre una corporate governance trasparente, non orwelliana
– Telecom, ora il rischio è che diventi pedina del gioco straniero

Qui gli altri articoli della rubrica “Alla Luce del Sole”


The right way to defend the italian firms

After the France’s cautious reaction to the acquisition by Italy’s state controlled shipbuilder Fincantieri of the naval yard in Saint-Nazaire, several readers wrote me angry letters: why must we accept French investment in Italy, when France blocks our companies from investing in their country at every turn? The question is more than fair and deserves a suitable response.

There are two ways to defend Italian companies. The first is using our diplomacy to ensure that our businesses are not unfairly discriminated against on the European or the international level. This doesn’t just mean in the case of acquisitions, like that of Fincantieri. But even more in the case of European directives handed down from Brussels, which often unfairly penalize our companies. It should be the role of our officials and politicians to ensure that decisions made at the Community level, even if they don’t favor us directly, at least do not harm our businesses.

The second way to defend Italian companies is to create political obstacles defending the acquisition of our companies by foreigners, the path suggested by Economic Development Minister Carlo Calenda in the case of a possible acquisitions of broadcaster Mediaset by France’s Vivendi.

It’s obvious that in terms of the general interest, the first path of defending the Italian-ness of Italian business is much superior to the second. Instead of leading to an escalating trade war, it contributes to strengthening a principal of impartiality that benefits everyone in the long run.

The first method is also clearly more efficient than the second in the sense that Italy is not like China, or the U.S., or even Germany, which all have a massive domestic market to defend.

For these nations, it’s worth risking retaliation in foreign markets in order to protect their massive internal market from foreign incursions. That’s not the case in Italy. Losing access to the foreign market is much more costly. That’s why a protectionist policy is myopic.

The first method of defending Italian companies is also more strategic. Italy does not have the political clout of China, the U.S. or Germany. So it cannot win international disputes with force. It can only do so with the backing of international norms and with reasoning.
So it is important for Italy to apply these norms rigorously in our country. If not, Italy wouldn’t have much legitimacy in requesting they be applied on an international level.
Why, then, does our government always seem to adopt a losing strategy?

First of all, because it’s often a strategy with an immediate, short-term payoff in terms of image.

It’s easy to stand up and shout about keeping Italian companies Italian. But it’s harder to defend the logic of Italian companies, behind the scenes in closed European Commission meeting or secret bilateral discussions with the major political representatives of other nations.

I’m afraid our bureaucracy and our governments don’t have the resources or the technical skill to elaborate and defend their ideas up at a European or global level.

On a European level, for instance, we have not been able to oppose the acceleration of the bail-in rule (initially planned for 2018) when we knew the damage it would cause our weak banking system. Why should we think that our governments can successfully contest the abuses of France and Germany?

The other reason for our losing strategy in defending national interests is that heated rhetoric by one individual or one company, while it provides no benefit for the country’s overall economic health, produces significant, immediate benefits to one or another of our businessmen.

The defense of the Italian-ness of flagship air carrier Alitalia by former Prime Minister Silvio Berlusconi and the “patriots” had no beneficial long-term effects for the nation’s flagship carrier, but it allowed Carlo Toto to come out brilliantly from his investment in AirOne.

The same goes for the defense of Mediaset: scuttling that idea is not in the interest of Italy but of the controlling shareholders, the Berlusconi family. So a combination of incompetence and political short-sightedness are preventing us from successfully defending our economic rights in Italy and in the world, condemning us to a beggarly patriotism that ends up damaging our nation.

And then we’re surprised if Italians are becoming anti-Europe? We won’t be able to survive in this European political class. Either we show we can change or we will end up leaving Europe in desperation.

Are Two Euros Better than One? (Published May 9, 2010)

Article published in the Italian Newspaper “Il Sole 24 Ore” May 9, 2010
Qui l’articolo in Italiano

The difficulties of life often push apart even the most loving couples. When differences of opinion become incurable, it serves no purpose to remember the love that was. Trying to attribute responsibility for the failure of the relationship is counterproductive. It only makes things worse. It’s better to come to an amicable separation and, as the English say, move on.

This same concept applies to the euro. It was a love marriage. Against the pessimism of the intellect, the founding fathers advanced the optimism of the will: the hope (delusion?) that the obvious incompatibilities would be overcome in the process of integration. To those (American economists) who said that the euro are was not made to have a single currency, they retorted that they were speaking out of envy, or worse, for fear that the euro would one day supplant the dollar.

As with many couples, the fatal attraction was born of differences. Southern Europe was looking for an external engagement that would give them the monetary and fiscal discipline that they had not been able to achieve alone.

Northern Europe hoped that in marriage the South would put its head on straight and abstain from the continuous devaluations that created tensions on the foreign exchange and export markets. As with many couples, these differences, so attractive initially, have become unsustainable over time.

Economic theory suggests that to share the same currency a geographical area must satisfy two conditions. The first is that it has a relatively homogenous economy, subjected to the same shocks. If part of the economy relies on oil and part on high tech, shocks will be very different, and monetary policy that fits one area will not work in the other.

The second condition, even more important, is internal mobility. If Texas (traditionally an oil-driven economy) can coexist with California (mostly relying on high tech), it is because Californians can easily move to Texas and vice versa. So much so that Austin, Texas has become one of the capitals of personal computers.

This is not true for Europe. It’s not just that the economy of the North of Europe, mainly based on the advanced manufacturing industry, is very different from that of the South, which is based on tourism, but mobility is very limited. What little mobility that exists is from the South to the North, not vice versa.

Since the introduction of the euro, the South has seen prices increasing at a faster rate than the North. Paradoxically, this growth was the euro’s “fault.” The introduction of a single currency resulted in a reduction in interest rates for the countries of southern Europe that favored a real estate boom. If this had been in the United States, residents of Michigan and Minnesota would be moving to Florida and Louisiana. This was not the case in Europe. The Germans and the Dutch in Greece and Spain are there to vacation, not to work.

The result of this segmentation is that for many years, prices in southern Europe have grown more than in the North, without the domestic markets forcing realignment. Now that the real estate boom has ended, the South is much less competitive than the North.

Without the option of devaluation, there are only three possible forms of adjustment. The first is to make prices in the South grow less than prices in the North. The problem with this is that with low global growth and the ECB’s monetary policy, prices in the North hardly grow more than two percent.

To recoup differentials of 20-30% (as they have in the southern markets), the South must undergo many years of zero inflation, or worse, deflation. The high levels of private debt in countries such as Greece and Spain, however, makes deflation extremely costly. If prices fall and debt remains fixed in nominal terms, there will be a chain of failures. The Greek government crisis “ce n’est qu’un début”: the problem will quickly move to the private sector.

An alternative is for the countries of the North to accept a higher inflation level, making it possible for the southern countries to regain competitiveness without having to accept a dangerous deflation. But this is the equivalent of asking a spouse to no longer be themselves in order to save the marriage. The Germans will not accept this. Their condition for joining was that the ECB would follow the strict monetary policy of the Bundesbank. This agreement has been incorporated into the treaties and is unlikely to be changed, especially without Germany’s consent. And the Germans do not see why they should have to accept much-despised inflation to correct the mistakes of others.

The only painless way out would for southern Europe to gain competitiveness with respect to the North and increase productivity. But this would require reforms, time, and investment. While the impact of the Greek crisis may have increased the pressure for reform, it has dramatically reduced the time available and the incentives to invest. How many years of double-digit unemployment are the Greeks and Spanish willing to bear?

Most economists accept this analysis, even Nobel Laureate Stiglitz, who certainly cannot be accused of being a right-wing economist. Where they disagree is in the remedy. Many, including Stiglitz, argue that the solution to the present crisis is further political and fiscal integration. Of course if the European government itself could borrow and allocate resources to the South, the current crisis could be alleviated.

This reasoning is correct, but it raises two major problems. The first is political. Politically it is not easy to explain to the Germans that they need to take on more debt (and therefore pay higher taxes in the future) to solve their Greek and Spanish cousins’ problems. It cannot be done in an electorally weak and divided government like Merkel’s. And it probably would not be possible even in the government of the best German leader.

We Italians live in a country that speaks the same language and that, for better or worse, united more than 150 years ago and is moving towards fiscal federalism, which will contribute to a reduction in transfers from the North to the South. How can we expect the European nations to go in a completely opposite direction, even while lacking a unified history?

The second problem is economic. Transfers alleviate economic problems in the short term, but do not solve them. Indeed, they will become chronic. Thanks to subsidies, areas not in line with the market can afford to remain so, without adjusting prices. The South of Italy has a price level higher than its average productivity. Sixty years of transfers have not alleviated this problem, but have turned it into gangrene. Do we want to transform the South of Europe into southern Italy?

The only solution left is to accept that the differences are irreconcilable and amicably break up the euro area. In economics, the greatest evil is uncertainty. The Greek crisis has sown the seed of doubt that one or more countries could leave the euro. Such doubt can hardly be dispelled. But the market has no idea how this exit will occur. Overwhelmed by passionate love, the euro’s founders refused to contemplate a way out. The euro, they said, is irreversible. But even the Catholic Church, which does not recognize divorce, has a procedure for separation in extreme situations. Why not for the euro?

This lack of rules is casting panic into the financial markets and paralyzing investment. Who will leave first? What will happen to contracts processed in euros in that country? What consequences will it have on other countries and their banks? A driven and rapid separation would be the lesser evil.

Creating two blocks would reduce the stigma on each country and allow the South to continue to hold a liquid currency. The euro-south’s depreciation against the euro-north would reduce the weight of public and private debt and allow a recovery of competitiveness that would relaunch the economy.

Is this inconceivable? Even the United States did this in the 30s, in the face of economic and social costs arising from the Great Depression, the United States abandoned the gold standard and turned all contracts written in dollar-gold to contracts in devaluated paper dollars. Why shouldn’t the southern European states abandon parity with the euro and transform contracts written in euros into contracts in a devalued euro-south?

A legitimate passion for European unity blinded the founding fathers of the euro. Like two lovers who hope that marriage will eliminate all their faults, the founding fathers were under the delusion that the European Union would create the European spirit. Indeed, the free movement of people, the Erasmus scholarships, and the increasingly widespread use of English are slowly forming a European spirit.

But it will take many decades, even centuries, before a Finnish citizen views a Greek citizen in the same way as their neighbor. More than a millennium of division is not erased in the space of a decade. A compulsory union does not help the economy or even the possibility of a future union. To save the European spirit it’s better to divorce amicably, which would preserve the economic union without forcing the monetary union. The alternative, an endless stream of bickering and recriminations, could be devastating.

Luigi Zingales: “Ventotene, occasione persa per chiedere l’unione bancaria” (intervista)

Intervista a cura di Eugenio Occorsio pubblicata su La Repubblica il 24 Agosto 2016. 

“Se è vero che il vertice di Ventotene ha segnato l’inizio di una nuova epoca di cooperazione fra i tre principali Paesi rimasti nella Ue, allora l’Italia poteva mettere sul piatto i temi di fondo che la dividono dalla Germania, quelli dell’economia. Se non ora quando?”.

Luigi Zingales, economista della University of Chicago, ritiene che quella di Ventotene sia stata per molti versi un’occasione perduta per fare passi avanti davvero strutturali. Però proprio sull’economia c’è la novità più importante: la sofferta flessibilità per chiudere i conti, ora che la crescita è crollata a zero, sembra che ci verrà data.

“Allargare il deficit dà più margini di spesa al Governo, ma aggrava il problema del debito”

Cos’altro dovevamo chiedere? 
“L’allargamento del deficit è un fatto politicamente importante perché garantisce più soldi da spendere al governo Renzi, ma non risolve i nodi di fondo della nostra economia. Anzi, da un altro punto di vista è anche un aggravamento di questi problemi perché porterà a un aumento ulteriore del debito, il nodo insopportabile che ci soffoca ed è del tutto irrisolto. Invece andavano affrontati i nodi strutturali: fossi stato Renzi avrei rinfacciato alla Merkel l’intollerabile voltafaccia sull’unione bancaria, dove la Germania non vuole più creare un fondo comune di assicurazione dei depositanti che darebbe fiato alle banche italiane creando un clima meno teso”.

L’errore è lasciare alla Germania la determinazione dell’agenda europea.

La Merkel avrebbe risposto che prima va diminuito il peso del debito pubblico sui portafogli. 
“Certo, ma gli accordi erano diversi. L’assicurazione si deve fare, punto e basta. La questione dei buoni del Tesoro e del loro coefficiente di rischio sarà affrontata in altre sedi tecniche, da Basilea alla Bce, dove si cercherà di correggere la leggerezza fatta alla nascita dell’euro di considerare privo di rischio qualsiasi debito sovrano. L’errore di Renzi e dei leader europei è lasciare alla Germania la determinazione dell’agenda europea. Se si parla solo di flessibilità, le ragioni della Germania appaiono inoppugnabili: perché però non parlare del sussidio europeo di disoccupazione? Sarebbe difficile trovare motivi per opporsi, eppure quando c’è la Merkel di quest’ipotesi non bisogna neanche far cenno. Tra l’altro, il sussidio non è detto che beneficerebbe solo certi Paesi: nel 2005 c’erano più disoccupati in Germania che in Francia e Spagna. Il fatto è che Berlino ha imposto un’egemonia culturale, per cui certi temi non sono entrati nel trattato di Maastricht, né in nessuna agenda comune. L’Italia invece dovrebbe farsi coraggio e proporli. Altrettanto vale per tutte le altre voci di una politica di bilancio comune”.

Tipo gli eurobond? 
“Capisco la riluttanza tedesca: perché condividere i nostri debiti? Ma se Berlino non li vuole, faccia proposte alternative. È ora di farsi coraggio su questi punti altrimenti dove sta l’Europa, a cosa serve? Solo a farsi gite senza passaporto?”

Serve a iniziative come il piano Juncker, che infatti a Ventotene si è deciso di ampliare. 
“Qui c’è un altro problema tutto italiano: l’incapacità progettuale di tante opere cofinanziate, per non dire della corruzione che vi si annida, è ancora un ostacolo verso la piena utilizzazione di questi strumenti comunitari”.


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Due euro sono meglio di uno? (pubblicato il 9 Maggio 2010)

Articolo pubblicato su “Il Sole 24 Ore” il 9 Maggio 2010.
English translation here

Spesso le difficoltà della vita allontanano anche le coppie più innamorate. Quando le differenze di vedute diventano insanabili, a nulla serve ricordare l’amore che fu. Cercare di attribuire la responsabilità del fallimento è controproducente. Non fa che peggiorare le cose. Meglio una separazione consensuale e, come dicono gli inglesi, move on.

Lo stesso vale per l’euro. Fu un matrimonio d’amore. Contro il pessimismo della ragione, i padri fondatori addussero l’ottimismo della volontà: la speranza (illusione?) che le ovvie incompatibilità sarebbero state superate in corso d’opera. A chi (gli economisti americani) diceva che l’area dell’euro non era fatta per avere una sola valuta, si ribattè che parlavano per invidia o, peggio, per paura che l’euro avrebbe un giorno soppiantato il dollaro.

Come in molte coppie, l’attrazione fatale nasceva dalla diversità. L’Europa del Sud cercava un impegno esterno che le desse la disciplina monetaria e fiscale che non era stata in grado di darsi da sola.

Il Nord dell’Europa sperava che il Sud con il matrimonio mettesse la testa a posto ed evitasse, con le sue continue svalutazioni, di creare tensioni sul mercato dei cambi e delle esportazioni. Come in molte coppie, quella diversità, inizialmente così attraente, è divenuta insostenibile con gli anni.

La teoria economica suggerisce che per condividere la stessa moneta un’area geografica deve soddisfare due condizioni. La prima è che abbia un’economia relativamente omogenea, sottoposta agli stessi shock. Se parte dell’economia si basa sul petrolio e parte su high tech, gli shock saranno molto diversi e la politica monetaria che si addice a un’area non funzionerà nell’altra.

La seconda condizione, ancora più importante, è la mobilità interna. Se il Texas (economia tradizionalmente basata sul petrolio) riesce a convivere con la California (più basata sull’high tech) è perché i californiani si muovono facilmente in Texas e viceversa, tanto che Austin (Texas) è diventata una delle capitali dei personal computer.

Lo stesso non vale per l’Europa. Non solo il Nord dell’Europa, basato principalmente sull’industria manifatturiera avanzata, è molto diverso economicamente dal Sud, basato sul turismo. Ma la mobilità è molto limitata. Quella poca che esiste è dal Sud verso il Nord, non viceversa.

Dall’introduzione dell’euro il Sud ha avuto una crescita dei prezzi più elevata del Nord. Paradossalmente questa crescita è stata “colpa” dell’euro. L’introduzione di una moneta unica ha prodotto una riduzione dei tassi d’interesse per i paesi del Sud Europa che ha favorito un boom immobiliare. Fossimo stati negli Stati Uniti, gli abitanti del Michigan e del Minnesota si sarebbero trasferiti in Florida e Louisiana. Così non è in Europa. I tedeschi e gli olandesi in Grecia e Spagna ci vanno in vacanza, non a lavorare.

Il risultato di questa segmentazione è che i prezzi nel Sud Europa sono cresciuti per molti anni più che nel Nord, senza che il mercato interno costringesse a un reallineamento. Ora, finito il boom immobiliare, il Sud si trova ad essere molto meno competitivo del Nord.

Senza l’opzione di svalutare, ci sono solo tre possibili forme di aggiustamento. La prima è che i prezzi al Sud crescano meno dei prezzi al Nord. Il problema è che, con la bassa crescita mondiale e la politica monetaria della Bce, i prezzi al Nord difficilmente cresceranno più del 2 per cento.

Per recuperare differenziali del 20-30% (tali sono quelli dei paesi meridionali) il Sud deve subire molti anni d’inflazione a tasso zero o peggio di deflazione. L’elevato livello d’indebitamento privato di paesi come la Grecia e la Spagna, però, rende questa deflazione estremamente costosa. Se i prezzi scendono e il debito rimane fisso in termini nominali, ci saranno fallimenti a catena. La crisi del governo greco “ce n’est qu’un début”: il problema si trasferirà presto al settore privato.

Un’alternativa è che i paesi del Nord accettino un livello d’inflazione più elevato, rendendo possibile ai paesi del Sud di recuperare competitività senza dover accettare una pericolosa deflazione. Ma questo equivale a chiedere al proprio coniuge di non essere più se stesso per salvare il matrimonio. I tedeschi non accetteranno. La loro condizione per l’unione era che la Bce avrebbe seguito la stessa rigida politica monetaria della Bundesbank. Quest’accordo è stato incorporato nei trattati e difficilmente potrà essere modificato, soprattutto senza il consenso tedesco. E i tedeschi non vedono perché debbano accettare l’odiata inflazione per rimediare agli errori altrui.

L’unica via d’uscita indolore sarebbe che il Sud Europa guadagnasse di competitività rispetto al Nord aumentando la produttività. Ma questo richiede riforme, tempo e investimenti. Se le ripercussioni della crisi greca possono aver aumentato la pressione per le riforme, hanno ridotto drammaticamente il tempo a disposizione e gli incentivi a investire. Quanti anni di disoccupazione a due cifre sono disposti a sopportare greci e spagnoli?

La maggior parte degli economisti accetta quest’analisi: perfino il premio Nobel Stiglitz, che non può certo essere accusato di essere un economista di destra. Dove nasce il disaccordo è sul rimedio. Molti, tra cui Stiglitz, sostengono che la soluzione alla crisi attuale è un’ulteriore integrazione politica e fiscale. Certo che se il governo europeo potesse prendere a prestito come tale e destinare le risorse raccolte al Sud, la crisi attuale potrebbe essere alleviata.

Il ragionamento è corretto, ma solleva due grossi problemi. Il primo politico. Politicamente non è facile spiegare ai tedeschi che devono indebitarsi maggiormente (e quindi pagare maggiori tasse in futuro) per risolvere i problemi dei loro cugini greci e spagnoli. Non lo può fare un governo elettoralmente debole e diviso come quello della Merkel. Ma probabilmente non potrebbe farlo neppure il governo del miglior leader tedesco.

Noi italiani, che viviamo in un paese che parla la stessa lingua e che, nel bene e nel male, è unito da 150 anni, stiamo muovendoci verso il federalismo fiscale, che contribuirà a ridurre i trasferimenti dal Nord al Sud. Come possiamo aspettarci che le nazioni europee vadano in direzione assolutamente opposta, nonostante la mancanza di una storia unitaria?

Il secondo problema è economico. I trasferimenti alleviano i problemi economici nel breve periodo, ma non li risolvono. Anzi li cronicizzano. Grazie ai sussidi le aree fuori mercato possono permettersi di rimanere tali, senza aggiustare i prezzi. Il nostro Mezzogiorno ha un livello di prezzi superiore alla sua produttività media. Sessant’anni di trasferimenti non hanno alleviato questo problema, lo hanno trasformato in gangrena. Vogliamo forse meridionalizzare il Sud d’Europa?

L’unica soluzione rimasta è riconoscere le differenze insanabili e spezzare consensualmente l’area euro. In economia il male maggiore è l’incertezza. La crisi greca ha seminato il dubbio che uno o più paesi possano uscire dall’euro. Difficilmente tale dubbio potrà essere fugato. Ma il mercato non ha idea di come tale uscita possa avvenire. Travolti dalla passione amorosa, i fondatori dell’euro si rifiutarono di considerare una via d’uscita. L’euro, si diceva, è irreversibile. Ma perfino la Chiesa, che non riconosce il divorzio, in situazioni estreme ha una procedura per la separazione. Perché l’euro no?

Questa mancanza di regole sta gettando il panico nei mercati finanziari e paralizzando gli investimenti. Chi uscirà per primo? Come verranno trattati i contratti in euro di questo paese? Quali conseguenze avrà sugli altri paesi e sulle loro banche? Una separazione pilotata e rapida sarebbe il male minore.

Creando due blocchi, ridurrebbe lo stigma su ogni singolo paese e consentirebbe al Sud di continuare a detenere una valuta liquida. La svalutazione dell’euro-sud rispetto all’euro-nord ridurrebbe il peso del debito pubblico e privato e permetterebbe un recupero di competitività che rilancerebbe l’economia. Eliminata l’incertezza gli investimenti riprenderebbero.

Inconcepibile? Perfino gli Stati Uniti lo fecero negli anni 30. Di fronte ai costi economici e sociali prodotti dalla Grande Depressione, gli Stati Uniti abbandonarono la parità aurea e trasformarono tutti i contratti scritti in dollari-oro in contratti in dollari carta svalutati. Perché gli stati del Sud Europa non dovrebbero abbandonare la parità con l’euro e trasformare i contratti scritti in euro in contratti in uno svalutato euro-sud?

Una legittima passione per l’unità europea ha accecato i padri fondatori dell’euro. Come due innamorati che sperano che il loro matrimonio eliminerà i rispettivi difetti, i padri fondatori si sono illusi che l’Unione Europea avrebbe creato lo spirito europeo. In verità, la libera circolazione delle persone, le borse di studio Erasmus e l’uso sempre più diffuso dell’inglese stanno lentamente formando uno spirito europeo.

Ma ci vorranno molti decenni, forse secoli, prima che un cittadino finlandese consideri un greco alla stregua del suo vicino di casa. Più di un millennio di divisioni non si cancella nello spazio di un decennio. Un’unione coatta non aiuta l’economia, ma neppure le possibilità di un’unione futura. Per salvare lo spirito europeo è meglio un divorzio consensuale, che preservi l’unione economica senza forzare quella monetaria. L’alternativa, uno stillicidio di litigi e recriminazioni, potrebbe essere devastante.

L’ amara Lezione Italiana degli Stress Test (pubblicato il 30 Ottobre 2014)

Qui di seguito l’articolo scritto il 30 Ottobre 2014 per Il Sole 24 ore a commento degli “Stress Test” diffusi dalla BCE quattro giorni prima.  

Un mio collega ha scritto un importante lavoro sulle carenze nella supervisione bancaria americana. La sua idea innovativa è stata quella di misurare la credibilità dei diversi supervisori paragonando i giudizi che questi supervisori davano alle stesse banche, quando queste passavano da un supervisore all’altro. I supervisori statali risultano sempre più generosi nei loro giudizi rispetto alla Federal Reserve: tanto più generosi, quanto più una banca è importante rispetto all’economia di un singolo Stato.

In altri termini, la differenza dei giudizi è una misura relativa di quanto più catturati siano i regolatori locali.
La stessa idea può essere applicata ai Comprehensive Assessment (valutazioni complessive) emesse dalla Banca centrale europea domenica scorsa, meglio noti come «stress test». I Comprehensive Assessment sono divisi in due parti. La prima, chiamata Asset Quality Review, valuta la coerenza tra i valori contabili degli attivi delle principali banche europee. Soltanto la seconda parte riguarda propriamente gli stress test, ovvero le simulazioni sulle possibili perdite che gli istituti di credito subirebbero in scenari più o meno catastrofici.
Negli ultimi giorni le pagine dei giornali sono state piene delle lamentele circa ipotetiche discriminazioni ai nostri danni nelle ipotesi sottostanti a questi scenari. Pur non capendo perché queste obbiezioni siano state sollevate soltanto dopo aver visto i risultati, preferisco ignorare questa parte del Comprehensive Assessment, e focalizzarmi sull’Asset Quality Review (AQR).

L’AQR compara i valori iscritti a bilancio a fine 2013 con i valori stimati secondo criteri condivisi a livello europeo. Siccome i valori iscritti a bilancio nel 2013 erano stati controllati dalle locali autorità di vigilanza, la differenza tra i valori contabili e quelli risultanti dall’analisi della Bce può essere usata come indicatore della qualità dei supervisori nazionali.
La Banca centrale greca vince il premio di peggiore supervisore. Il capitale di rischio (tier one common equity) di Piraeus Bank scende dal 13,7% al 10% soltanto con l’Asset Quality Review. Questo significa che l’attivo nel suo complesso era sopravvalutato del 3,7%. In media le banche greche hanno un attivo sopravvalutato del 2,9%, contro uno 0,2% di Francia e Germania e uno 0,3% della Spagna.
Estonia, Slovenia e Cipro seguono a ruota la Grecia, con una sopravvalutazione degli attivi tra il 2,4% e l’1,4%. Subito dopo arriva l’Italia con un 1,1%, di sopravvalutazione, quasi sei volte quella della Francia e della Germania.
Il fenomeno non è ugualmente diffuso tra tutte le banche italiane analizzate. A fronte di una Unicredit in cui le attività sono sopravvalutate solo dello 0,2% e di una Banca Intesa con lo 0,3%, abbiamo un Monte Paschi con una sopravvalutazione del 3,2% (simile a quella della peggior banca greca) e una serie di Banche Popolari, con sopravvalutazioni tra l’1,3% e il 2,2%. Si noti che tutte queste banche con gli attivi sopravvalutati hanno raccolto capitale durante il 2014, presentandosi quindi al mercato con valutazioni inflazionate. Se fossi uno dei risparmiatori che hanno sottoscritto questi aumenti di capitale cercherei il modo di far causa a Banca d’Italia per aver chiuso non soltanto un occhio, ma tutti e due, di fronte a queste sopravvalutazioni.

Mi si dirà che non è colpa della Banca centrale, ma della pesante recessione che ha colpito il nostro Paese. Quando l’economia è in crisi, i crediti diventano inesigibili e anche le banche migliori finiscono per accumulare pesanti perdite. Questo è vero, ma qui non si tratta di perdite, ma soltanto di perdite occultate. Perché la Banca d’Italia ha permesso questo occultamento al mercato? Altro che tutela costituzionale del risparmio, in Italia sono costituzionalmente protetti solo i banchieri, specie se politicamente affiliati. Gli stress test europei ci dicono che è ora di cambiare. Di questo siamo loro grati.

Brexit o Remain, per salvare l’Europa dobbiamo cambiare l’Unione Europea

Testo dell’articolo pubblicato il 18.06.2016 su “Il Sole 24 Ore”,

Più che qualsiasi calcolo economico, l’essenza del dibattito nel Regno Unito sull’uscita dall’Unione Europea (la famigerata Brexit) è contenuta nei versi di “Hotel California” degli Eagles : “Correvo verso l’uscita, dovevo trovare il passaggio per tornare indietro, dove ero prima. ‘Rilassati’ – mi disse il guardiano notturno – ‘Siamo programmati solo per ricevere. Puoi fare il check-out in qualsiasi momento, ma non puoi mai andartene’.”

I britannici stanno correndo verso l’uscita cercando un ritorno ad un passato che non esiste più. Anche se dovessero votare il check out dall’Unione, sarebbero costretti, da ragioni commerciali e geografiche, a convivere con molte regole dell’Unione Europea, se non addirittura ad adottarne di meno vantaggiose in negoziazioni bilaterali in cui l’Unione avrebbe il coltello dalla parte del manico. Perché allora circa la metà degli elettori del Regno Unito (almeno prima della tragica uccisione della deputata laburista Jo Cox) voleva andarsene?

Il motivo principale è la mancanza di qualsiasi ideale nella campagna a favore dell’Europa. La colpa non è solo del primo ministro Cameron, mai un euroentusiasta, ma dell’Europa stessa.  Cosa rappresenta oggi l’Europa? Non semplicemente un mercato, altrimenti non ci sarebbe alcun motivo per tener furori la Turchia. Non un idem sentire: non facciamo che insultarci a vicenda utilizzando i peggiori stereotipi nazionalistici. Non un meccanismo di difesa comune contro i grandi pericoli che ci minacciano a livello globale: i francesi sono i primi a voler un esercito separato. Neppure una comunità in divenire: non solo i britannici, ma neppure i francesi o i tedeschi vogliono oggi un’unione politica. L’Europa è un grande progetto in mezzo al guado: incapace di andare avanti, timoroso di andare indietro, difeso a spada tratta solo dall’apparato cui questo progetto fornisce di che vivere. È uno status quo, poco amato, ma troppo difficile da cambiare. Come si fa a creare una campagna per sostenere un’istituzione senza più una carica ideale?

L’unico mezzo è la paura dell’alternativa. E proprio sulla paura si è concentrata la campagna degli europeisti. Più i sondaggi sollevavano la possibilità di una Brexit, più venivano diffusi scenari apocalittici in caso questa opzione dovesse avere il sopravvento. L’ultimo (del ministro delle Finanze britannico) è che in caso di Brexit le imposte aumenteranno subito di 30 miliardi di sterline per coprire il buco provocato dall’uscita. In un’analisi dei costi e benefici economici, il Regno Unito ha più da perderci che da guadagnarci se esce dall’Unione Europea. Ma non si tratta di effetti catastrofici. Certo se la City finanziaria dovesse spostarsi a Parigi, Francoforte o Milano, Londra perderebbe molto. Ma già lo si era detto se il Regno Unito non fosse entrato nell’euro, e poi non è successo. Gli scenari prospettati dagli europeisti sono talmente apocalittici da destare nei britannici – che hanno sempre avuto un salutare spirito bastian contrario – un rigetto per l’Europa, ed un’attrazione fatale per la Brexit.

Ma c’è un altro aspetto della battaglia per la Brexit che ci deve far pensare. I britannici sono sempre stati diffidenti di un’Europa unita, perché hanno paura che sia unita con i principi sbagliati. Come nel 1988 ricordò in un famoso discorso a Bruges l’allora primo ministro britannico Margaret Thatcher, senza il sacrificio dei soldati del Regno Unito “l’Europa si sarebbe unificata molto prima, ma non nella libertà e non nella giustizia.”

Un’Europa più alcuna senza spinta ideale è condannata al fallimento, ma un’Europa senza Regno Unito è destinata a rafforzare l’egemonia tedesca.

La diffidenza della Thatcher non era certo contro il libero mercato europeo: era sospettosa di un’Europa che voleva essere molto più di un mercato, senza avere le istituzioni democratiche per farlo. La Thatcher perse il posto per il suo antieuropeismo e la sua opposizione alla moneta unica. Ma oggi è vendicata. Quasi nessun britannico oggi vorrebbe essere nell’euro e circa la metà non vuole fare più parte di un Unione dove a decidere è sempre più un Consiglio di Ministri intergovernativo a trazione tedesca. Negli Stati Uniti d’America esistono regole costituzionali molto precise per evitare che lo stato di New York decida per tutti. In Europa no. Questa egemonia tedesca, sempre meno bilanciata dalla Francia, giustamente preoccupa i britannici. Ma dovrebbe preoccupare maggiormente noi. Senza il contrappeso del Regno Unito, l’egemonia tedesca sull’Europa diventerebbe sempre più totale. E i primi a perderci saremmo noi.

Che vinca la Brexit o no, speriamo questa serva da campanello d’allarme. Per salvare l’Europa dobbiamo cambiare l’Unione Europea. Questa Europa, senza più alcuna spinta ideale, è condannata al fallimento.

Il sonno del regolatore genera mostri

Articolo pubblicato l’1.05.2016 su “Il Sole 24 Ore” con il titolo “Ciclone Lehman e il mercato scopre il valore delle regole”

Il sonno del regolatore genera mostri. Questo titolo descrive gli anni zero del XXI secolo, il decennio che ci ha mostrato quanto gravi possano essere i danni della finanza deviata. Il XX secolo si era chiuso nell’entusiasmo generale. Alla rivoluzione digitale si era accompagnata quella finanziaria. I flussi di capitale verso i Paesi emergenti sostenevano la crescita in Cina e India. L’euforia di Borsa aveva scatenato la creazione di nuove imprese, non solo in America, ma anche nella vecchia Europa. I banchieri centrali ci illudevano di aver il mondo sotto controllo. Non a caso quel periodo fu chiamato la grande moderazione.

Era la calma prima della tempesta. Nel decennio successivo gli scandali contabili di Enron e WorldCom, quelli finanziari di Bear Stearns e Lehman, le tensioni nell’eurozona ci hanno lasciato un mondo in crisi economica, ma ancora più in crisi di fiducia. Si guarda ancora ai banchieri centrali, sperando che possano condurci fuori da questa tempesta, ma non c’è più fiducia che lo sappiano (o lo possano) fare. A cosa si deve cotanto disastro?

La risposta ci viene dalla firma più prestigiosa che il Sole abbia mai avuto: Luigi Einaudi. Nelle sue «Lezioni di Politica Sociale» il nostro rimpianto Presidente ci spiega che il mercato ha bisogno del carabiniere. Senza un’autorità che faccia rispettare le regole, il mercato non funziona. Tantomeno la finanza. Nel primo decennio del XXI secolo i carabinieri della finanza si sono assopiti (per non dire che sono stati messi a dormire dagli stessi finanzieri).

La crisi americana del 2008 non può essere spiegata in altro modo. Centinaia di migliaia di mutui falsi, fatti a persone inesistenti o che non avrebbero mai potuto rimborsarli, sono stati venduti come oro agli investitori di tutto il mondo, sotto gli occhi compiacenti di tutti i regolatori, pubblici e privati. Per moltiplicare i guadagni, si è fatto un uso smodato della leva finanziaria, lasciando alle banche stesse il compito di monitorare il proprio rischio. Quando poi la frode è cominciata a venire a galla, il sistema finanziario americano è entrato in crisi, con ripercussioni a livello mondiale.

Per l’Europa, però, la crisi di Lehman è stata solo la scintilla che ha fatto esplodere una bomba di produzione nostrana. Invece dei mutui falsi, le banche europee si erano specializzate nel rifilare derivati e titoli strutturati nel portafoglio dei Comuni e dei pensionati, sotto l’occhio compiacente dei regolatori. Non solo in Italia. Basta leggere su promarket.org le cronache di un ex-banchiere londinese. Ammette che una delle strategie della sua banca era «approfittare delle debolezze dei nostri clienti». Ma le banche europee si sono dedicate anche ad un’altra attività pericolosa: prestiti ai Paesi del Sud Europa. Questa attività non è solo stata tollerata dai regolatori: è stata incoraggiata. Le regole di Basilea, come applicate dall’Unione europea, prevedevano che tutti i debiti sovrani dell’Ue dovessero essere considerati come attività prive di rischio. Perché dunque preoccuparsi della solvibilità dei Paesi?

Come per l’America, così anche per l’Europa, la realtà a lungo occultata è poi esplosa in tutta la sua violenza. Il decennio si chiude con la crisi greca e il peggior intervento di salvataggio mai effettuato dal Fondo monetario internazionale. Insieme alla Banca Centrale Europea e all’Ue, che volevano coprire i loro errori passati (e salvare le banche francesi e tedesche), il Fmi presta alla Grecia i soldi per ripagare le banche europee, pur sapendo che quei prestiti non potranno essere mai restituiti. Questo innesca non solo una crisi economica in Grecia, ma una crisi di fiducia nell’euro, che si ripercuote sull’economia di tutto il continente e si trasforma poi in crisi politica.

Cinque anni dopo è difficile prevedere quali saranno le conseguenze ultime di questa crisi. Ma non ci devono essere dubbi su dove questa crisi è cominciata: non nelle stanze di Lehman o in quelle del governo greco, ma nelle stanze di chi, dovendo controllare, non lo ha fatto.

Why Zingales is so “soft” on Greece

English translation of my blog post “Perché Zingales è così “morbido” nei confronti della Grecia” (published last July 5)

A dear friend asked me a question that I think has come up in many places: why am I so “soft” on Greece? I’m tempted to answer that others are just too rigid, but that would not be a real answer. Positions are always relative, and for better or for worse my position on Greece has been much softer than most Italian economists, even those on the left. Seeing as how I now have more time on my hands (☺), it seems fair to answer this question seriously. And it seems fair to do so now, with the polls open, and with the media having given the “yes” side in the referendum the advantage.

I’d like to begin with an introduction. As much as I have my own ideas, I try to look at the facts and issues in a non-ideological way. This does not mean that my ideas don’t help me to interpret the facts, but I make an effort to not interpret them in line with ideological categories. Ideologically, Syriza and I are about as far apart as I can possibly imagine. Nevertheless, I don’t assume that because of this everything Syriza does and says is wrong. On the other hand, I think that the future of Italy is in Europe, but this doesn’t mean that I don’t see huge problems in this Europe. This is the approach I have tried to follow in my book Europa o no*, and that I try to follow on this site and in everything that I write. Obviously I am not exempt from making errors, but I hope to be free from Manichaeism.

With that being said, I will now try to summarize my reasons

  1. The Greeks’ faults

The Greeks’ main fault is that of having for decades elected governments that are spendthrifts and corrupt. It is not a small crime, but as an Italian I don’t feel quite able to judge them so harshly. Their second fault is to have a corporate society that is not open to change. The English say that those who live in glass houses shouldn’t throw stones. So, as an Italian, I can’t allow myself to throw stones at corporatism: we invented it ourselves. The third fault is that of wasting the large dividend they received from entry into the euro area, which brought them a very low interest rate. On this point also, I feel that as an Italian I can’t criticize them. As I explain in Europa o no*, Italy also badly wasted this enormous benefit. The ultimate fault is in having too much debt. In debt as in marriage it takes two, and fault never lies with just one side. For every debtor that borrows excessively, there is a lender that allows him to do so. Why should the debtor be the only one that has to pay?

  1. Original sin

The original sin of the Greek crisis is the way in which the adjustment costs were distributed. When a debtor becomes insolvent, creditors must assume part of the cost of restructuring. In 2010 Greece was insolvent. Today, I am not the only one saying this (the IMF has admitted to the same), and I am not only saying this now, I also said it in 2010. Why then was the full cost of the crisis imposed only on Greece? Because Greece had no alternative, and Europe took advantage of this, doing a favor for the French and German banks. Again, I am not the only one saying this, it has been said by the former president of the Bundesbank, Karl Otto Pohl, who can’t be accused of being either communist or anti-German. Why is it that this fact is constantly ignored in all discussions on Greece?

  1. The faults of Varoufakis & co.

Many organizations suffer from a problem well-known in Social Psychology called groupthink. I talk about it in my book Manifesto Capitalista. It is the tendency of very cohesive organizations to radicalize and reject any outside person, who thinks in a different way, as a foreign entity. I fear that this is the problem with Europe and Varoufakis & co. For what it’s worth, as an academic economist Varoufakis is not inferior to his current European counterparts. He can be found unpleasant, but for example, even Tremonti has said the same thing. Why then was he treated in a manner in which no other finance minister of a European country has ever been treated? I think the reason is because he spoke an unpleasant truth: that Europe had made a mistake and should take responsibility to fix it. We have a saying, “don’t shoot the messenger.” The reason is that there’s a temptation to blame the messenger for the message they bring. That’s what happened in Europe. Did Varoufakis then facilitate his lynching with his arrogant behavior and unusual style (he was even reprimanded for wearing excessive fragrance!), certainly, yes. But if all arrogant people were lynched by the media, there would be very few politicians still alive.
Despite the ideological differences, in my eyes Syriza had a great advantage: it had not been part of the previous system. If the first fault of the Greeks was to have voted for too long for the same corrupt governments, should we not look sympathetically at their attempt to change?

  1. The Germans’ reasons

In my book Europa o no*, I have already denounced bad stereotypes: Germans call Greeks lazy (when data in hand the Greeks work longer hours per week than the Germans) and the Greeks call the Germans Nazis (when data in hand neo-Nazi movements have more followers in Greece than in Germany).
Another stereotype is that in Europe the Germans follow the rules and all the rest (Greeks in particular) do not. Although it is true that the Germans are more ideologically inclined to follow rules, in Europe the Germans have used the rules mainly to promote their own interests. As I wrote in Europa o no*, the ECB’s monetary policy (at least until Draghi) was deflationary, with great benefit to German industry that has more downward wage flexibility.
However, when rules damage German interests, they are not enforced or changed. Remember when Germany violated the 3% deficit limit? Was it sanctioned? No, an exception was made.
And the rule against state aid to businesses and the banks? When, in 2008, Chancellor Merkel wanted to help her banks, an exception was made.
And what about the rule that no country should accumulate too high of a trade surplus? Germany has been violating that for years. But no one says anything. Is this a love for rules or simply the pursuit of national interest at any cost?

  1. Europe’s problems

The reason why I wrote Europa o no* and why I created this blog is simply to spread a critical message about Europe’s problems, without, however, making it an anti-European message. When Syriza won the January elections it was because the other parties were too blindly pro-European. All except for Golden Dawn. If Syriza fails, there’s a risk that leadership will pass to Golden Dawn. While rejecting the political ideas of both, I would say that Golden Dawn is worse than Syriza.
My hope is that a serious debate on the vices of Europe at the center of the political spectrum will reduce approval for the opposite extremes. Today, the best spokesperson for Syriza in Greece is European commissioner Junker. Every time he opens his mouth, Tsipras gains more support.

It’s necessary to change the European institutions, which are too little democratic. If we leave the monopoly of criticism to the anti-Europeans, Europe will not change, it will be destroyed.

  1. Are we next?

In my elementary school there was a story of two parents who badly treated the elderly grandmother in front of their son. He, picking up the pieces of a cup, admonished them, saying: “I’ll keep them for when you are old.” It’s the old saying, “what goes around comes around.”
The last reason why I am so soft on Greece is that I fear we will be next.
There are two main differences between Greece and Italy. Greece had lied shamelessly on its balance sheets and had squandered billions for the Olympics. As I understand it, on its balance sheets, Italy has only lied (not shamelessly), but there’s still a risk that we will find out otherwise. And since we don’t want to miss out on anything, we are also in contention to host the Olympics in Rome. In case we don’t sink ourselves, the Olympics will take care of it. Then Northern Europe will begin to say that Italy and Greece are “one face-one race” and that the Italians also have to pay the consequences that they deserve.

At that point, everyone will regret not having been a little softer.

*I know that it’s not tasteful to self-cite, but I’m doing so to emphasize that I’m not saying anything that I haven’t already written, a year ago, in my book.

Clarity on Numbers: where the money provided to Greece in the two bailouts in 2010 and 2012 ended up / Chiarezza sui numeri dei salvataggi greci

Article written for lavoce.info

The political debate has been more about slogans than numbers. Therefore the analysis by Borri and Reichlin on LaVoce.info on where the money from the Greek bailout ended up is welcomed. As they rightly say “the consequences of a wrong message can be very serious.”
The stated aim of their paper is to counter Tsipras’ position that “your money served to save the banks, it never went to the people.” Indeed Tsipras has exaggerated. About 27 of the 237 billion provided to Greece in the two bailouts in 2010 and 2012 (11%) went to finance the Greek government. Whether the government gave this money to the people or not I will leave to the Greeks to decide. However it’s only 11%. Where is the rest?

Yiannis Mouzakis has made a detailed analysis, 48% went to pay interest and principal on existing debt and 19% to recapitalize Greek banks. Including the money used to repay the IMF and to facilitate restructuring the debt, 89% of funds disbursed in the two bailouts were used to repay/help banks and 11% went to the Greek government. So to be precise, Tsipras’ statement was exaggerated, but not completely unfounded.
This opinion is also supported by Olivier Blanchard, director of the Research Department of the International Monetary Fund, who wrote on his blog “an important fraction of the funds in the first program were used to pay short term creditors, and to replace private debt by official debt”.
Unfortunately Borri and Reichlin are approximate when the say that “At the end of 2011… about 35 percent of a total of 110 billion from the first bailout was used to repay foreign creditors. And the remaining 65 percent? About 15 billion ended up in the coffers of Greek banks and the remaining 57, just under 30 percent of GDP, went to the Greek government.” At the end of 2011 the amount actually paid out of the 110 billion promised in the first bailout was only 72.8 billion (https://en.wikipedia.org/wiki/First_Economic_Adjustment_Programme_for_Greece). Therefore, using their own numbers, foreign creditors had taken 52% of the funds disbursed. Certainly not all of it, but most.
The difference between this 52% and the 89% mentioned above are internal creditors, in particular the Greek banks. Why they have not been nationalized, as Sweden did in the crisis in the early 90s, or “Europeanized,” as I proposed in 2010, is not clear. Most of these funds served to finance capital flight from Greece.

Did this help the Greek people?

To prove that the French banks were not helped that much, Borri and Reichlin mention the fact that in 2012 they had to undergo a haircut on their loans. This is true, but remember that both Sarkozy and Trichet did everything they could to avoid the haircut, required instead by the Germans. The 2012 restructuring therefore was not part of the 2010 agreement, but a late intervention. By then most of the debt was in private hands and therefore exempt from the haircut. The result is that the haircut did not really have an impact on the level of Greek debt, as it would have if restructuring was done in 2010.
I completely agree with Borri and Reichlin that the transfer of Greek loans held by banks to the public sector was not a bargain for taxpayers. But they use this argument in proving that the first bailout was not in favor of the French and German banks, while for me it’s just one indication of how the political power of banks exceeds that of taxpayers, for nations make political decisions that are in the interest of their banks but not necessarily in the interest of their community.
Borri and Reichlin are so committed to denying the fact that foreign banks have been significantly helped by the bailout programs, that they do not present the argument–very widespread at the time–that saving European banks was a necessary evil in order to save the stability of the eurozone. It’s an argument that I don’t much agree with but that has its reasons and can’t be rejected based on the data. But even if this argument were valid, it doesn’t explain why the rescue of the Franco-German banks had to be done at the expense of Greece. When the United States intervened to save some banks, the cost of the rescue was imposed not on the population of their creditors but on the federal budget. In Europe they didn’t want to do this, and that’s the real problem.

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Il dibattito politico è fatto più di slogan che di numeri. Quindi ben venga l’analisi di Nicola Borri e Pietro Reichlin su dove sono finiti i soldi dei bail-out greci. Come dicono giustamente i due autori “le conseguenze di un messaggio sbagliato possono essere molto gravi.”
L’obiettivo dichiarato del loro articolo è contrastare la posizione di Alexis Tsipras secondo la quale “i vostri soldi sono serviti a salvare le banche, non sono mai arrivati al popolo”. Effettivamente Tsipras ha esagerato. Circa 27 dei 237 miliardi prestati alla Grecia nei due bail-out del 2010 e 2012 (l’11 per cento) sono andati a finanziare il governo greco. Se poi il governo li ha dati o meno al popolo, lascio ai greci decidere. Comunque, si tratta solo dell’11 per cento. Dove è finito il resto?

Yiannis Mouzakis fa un’analisi puntuale, il 48 per cento è servito per pagare interessi e capitale sul debito esistente e il 19 per cento per ricapitalizzare le banche greche. Sommando anche i soldi utilizzati per ripagare il Fondo monetario e per facilitare la ristrutturazione del debito, l’89 per cento dei fondi sborsati nei due bail-out è stato utilizzato per ripagare o aiutare le banche e l’11 per cento è andato al governo greco. Quindi, per essere precisi, la dichiarazione di Tsipras era eccessiva, ma non completamente infondata.
È una tesi suffragata anche da Olivier Blanchard, capo del centro studi del Fondo monetario internazionale, che ha scritto nel suo blog “una parte importante delle risorse del primo piano (di salvataggio) è stata usata per ripagare creditori a breve termine e per sostituire debito privato con debito pubblico”. 

Borri e Reichlin sono purtroppo approssimativi quando dicono che “Alla fine del 2011 (…) circa il 35 per cento dei complessivi 110 miliardi del primo bail-out è stato utilizzato per ripagare i creditori esteri. E il rimanente 65 per cento? Circa 15 miliardi sono finiti nelle casse delle banche greche e i restanti 57, poco meno del 30 per cento del Pil, in quelle del governo greco”. A fine 2011, la somma effettivamente sborsata dei 110 miliardi promessi dal primo bail-out ammontava a solo 72,8 miliardi. Quindi, usando i loro stessi numeri, i creditori esteri si erano presi il 52 per cento dei fondi erogati. Certamente non tutti, ma la maggior parte.
La differenza tra il 52 per cento e l’89 per cento menzionato in precedenza sono i creditori interni, in particolare le banche greche. Perché non siano state nazionalizzate, come è stato fatto in Svezia nella crisi dei primi anni Novanta, o “europeizzate”, come da me proposto nel 2010, non si capisce. La maggior parte dei fondi è servita a finanziare la fuga di capitali dalla Grecia: è forse un aiuto al popolo greco?

Chi ha subito l’haircut

A dimostrazione che le banche francesi non sono state aiutate poi tanto, Borri e Reichlin menzionano il fatto che nel 2012 hanno dovuto subire un haircut sui loro crediti:è vero, ma va anche ricordato che sia Nicolas Sarkozy sia Jean-Claude Trichet hanno fatto di tutto per evitare l’haircut, richiesto invece dai tedeschi. La ristrutturazione del 2012 non era quindi parte dell’accordo del 2010, ma un intervento tardivo. A quella data, la maggior parte del debito era in mani private e quindi esente dall’haircut. Il risultato è che l’haircut non ha veramente inciso sul livello del debito greco, come avrebbe potuto fare una ristrutturazione nel 2010.
Sono completamente d’accordo con Borri e Reichlin che il trasferimento dei crediti verso la Grecia detenuti dalle banche al settore pubblico non è stata un affare per i contribuenti. Ma loro usano questo argomento a riprova del fatto che il primo bail-out non sia stato a favore delle banche francesi e tedesche, mentre per me è solo una riprova di come il potere politico delle banche ecceda quello dei contribuenti, per cui le nazioni fanno scelte politiche nell’interesse delle loro banche e non necessariamente della loro collettività.
Borri e Reichlin sono talmente impegnati a negare il fatto che le banche estere siano state aiutate in modo significativo dai programmi di bail-out, che non presentano nemmeno l’argomento – molto diffuso all’epoca—che salvare le banche europee era un male necessario, per salvare la stabilità dell’area euro. È un argomento che non mi trova molto d’accordo, ma che ha sue ragioni e non può essere rigettato sulla base dei dati.
Ma se anche fosse un argomento valido, non si spiega perché il salvataggio delle banche franco-tedesche dovesse essere fatto a spese della Grecia. Quando gli Stati Uniti sono intervenuti per salvare alcune banche non hanno imposto il costo del salvataggio sul pubblico dei loro creditori, ma sul bilancio federale. In Europa non lo si è voluto fare e questo è il vero problema.