Luigi Zingales: “Ventotene, occasione persa per chiedere l’unione bancaria” (intervista)

Intervista a cura di Eugenio Occorsio pubblicata su La Repubblica il 24 Agosto 2016. 

“Se è vero che il vertice di Ventotene ha segnato l’inizio di una nuova epoca di cooperazione fra i tre principali Paesi rimasti nella Ue, allora l’Italia poteva mettere sul piatto i temi di fondo che la dividono dalla Germania, quelli dell’economia. Se non ora quando?”.

Luigi Zingales, economista della University of Chicago, ritiene che quella di Ventotene sia stata per molti versi un’occasione perduta per fare passi avanti davvero strutturali. Però proprio sull’economia c’è la novità più importante: la sofferta flessibilità per chiudere i conti, ora che la crescita è crollata a zero, sembra che ci verrà data.

“Allargare il deficit dà più margini di spesa al Governo, ma aggrava il problema del debito”

Cos’altro dovevamo chiedere? 
“L’allargamento del deficit è un fatto politicamente importante perché garantisce più soldi da spendere al governo Renzi, ma non risolve i nodi di fondo della nostra economia. Anzi, da un altro punto di vista è anche un aggravamento di questi problemi perché porterà a un aumento ulteriore del debito, il nodo insopportabile che ci soffoca ed è del tutto irrisolto. Invece andavano affrontati i nodi strutturali: fossi stato Renzi avrei rinfacciato alla Merkel l’intollerabile voltafaccia sull’unione bancaria, dove la Germania non vuole più creare un fondo comune di assicurazione dei depositanti che darebbe fiato alle banche italiane creando un clima meno teso”.

L’errore è lasciare alla Germania la determinazione dell’agenda europea.

La Merkel avrebbe risposto che prima va diminuito il peso del debito pubblico sui portafogli. 
“Certo, ma gli accordi erano diversi. L’assicurazione si deve fare, punto e basta. La questione dei buoni del Tesoro e del loro coefficiente di rischio sarà affrontata in altre sedi tecniche, da Basilea alla Bce, dove si cercherà di correggere la leggerezza fatta alla nascita dell’euro di considerare privo di rischio qualsiasi debito sovrano. L’errore di Renzi e dei leader europei è lasciare alla Germania la determinazione dell’agenda europea. Se si parla solo di flessibilità, le ragioni della Germania appaiono inoppugnabili: perché però non parlare del sussidio europeo di disoccupazione? Sarebbe difficile trovare motivi per opporsi, eppure quando c’è la Merkel di quest’ipotesi non bisogna neanche far cenno. Tra l’altro, il sussidio non è detto che beneficerebbe solo certi Paesi: nel 2005 c’erano più disoccupati in Germania che in Francia e Spagna. Il fatto è che Berlino ha imposto un’egemonia culturale, per cui certi temi non sono entrati nel trattato di Maastricht, né in nessuna agenda comune. L’Italia invece dovrebbe farsi coraggio e proporli. Altrettanto vale per tutte le altre voci di una politica di bilancio comune”.

Tipo gli eurobond? 
“Capisco la riluttanza tedesca: perché condividere i nostri debiti? Ma se Berlino non li vuole, faccia proposte alternative. È ora di farsi coraggio su questi punti altrimenti dove sta l’Europa, a cosa serve? Solo a farsi gite senza passaporto?”

Serve a iniziative come il piano Juncker, che infatti a Ventotene si è deciso di ampliare. 
“Qui c’è un altro problema tutto italiano: l’incapacità progettuale di tante opere cofinanziate, per non dire della corruzione che vi si annida, è ancora un ostacolo verso la piena utilizzazione di questi strumenti comunitari”.


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Atlante 2 non salverà le banche. Roma usi Cdp o chieda un intervento alla UE (intervista)

Intervista a cura di Claudia Cervini pubblicata su Quotidiano – Ed. Nazionale (Nazione Carlino Giorno) il 13 Agosto 2016

Con l’avvio di Atlante 2 le banche italiane possono stare più tranquille?
Risposta. Atlante 2 è una soluzione ingegnosa, ma utilizzabile in casi circoscritti (come Mps) e incorrendo in forti rischi.

Perché?
Il problema delle banche italiane sono le sofferenze (200 miliardi lordi): il nodo reale è capire quanto vengono valutati questi crediti. Di solito sono iscritti a bilancio al 45% del loro valore iniziale. Bene. Atlante 2 comprerà alcune sofferenze di Mps a un valore intorno al 28%. Il fatto è che non si sa quale sia adesso il loro valore di mercato. Il successo dell’operazione è quindi un’incognita.

L’esperienza della Sga impiegata per il recupero delle sofferenze del Banco di Napoli non fu così negativa.
Dopo 20 anni è stato recuperato il 90% circa del prezzo pagato per un valore pari al 55% del credito iniziale. Ma questo valore non tiene conto né delle spese sostenute per raggiungere l’obiettivo (da quelle di gestione alle spese legali) né del tempo trascorso. Quale tasso di interesse sconta questo ritardo? Un altro esempio. Banca d’Italia aveva attribuito alle sofferenze delle 4 banche fallite un valore del 22%. Se il valore reale delle sofferenze oggi è del 22% Atlante è una soluzione in perdita.

Posto che il valore reale di questi crediti ancora non si conosce, quale strada suggerisce?
Prendo a prestito l’esperienza statunitense del 2008: una situazione che ricorda quella dell’Europa di oggi. Nessuno conosceva il valore dei mutui subprime. Come primo tentativo si cercò di salvare il sistema bancario comprando questi mutui a un valore alto – stabilito a tavolino – per mantenere in vita il comparto. Ma fu impossibile creare un mercato omogeneo perché se il prezzo è alto si cerca di vendere le porcherie e di tenere i crediti migliori.

Quindi?
Si scelse di immettere capitali pubblici nel sistema bancario. L’operazione prevedeva l’emissione di azioni con un diritto per gli azionisti a ricomprare questi titoli a un prezzo predeterminato. I soldi pubblici fungevano come garanzia, ma se la banca non riusciva a ricomprarsi le azioni allora lo Stato, di diritto, ne diventava il padrone.

Le regole Ue non permettono all’Italia una simile mossa.
Ci sono due soluzioni. La prima: farlo attraverso la Cdp, che tecnicamente non rientra nel perimetro dello Stato. Si andrebbe incontro a probabili ricorsi Ue, ma intanto il problema verrebbe risolto. La seconda strada è a mio avviso la più efficace: bisogna rivolgersi all’Europa chiedendole un intervento diretto. Questa mossa comporta un costo politico, ma è l’unica efficace. In Spagna ricapitalizzarono così le banche, ricorrendo ai fondi europei.

Ma esiste davvero un rischio sistemico per l’Italia? Le banche (eccetto Mps) hanno superato gli stress test.
Gli stress test hanno riguardato solo gli istituti di maggiori dimensioni e hanno considerato in maniera marginale le sofferenze. Le banche più piccole sono in seria difficoltà.

L’Fmi ha raccomandato all’Italia una sorta di esame anche sulle piccole. Cosa ne pensa?
È un’ottima regola che però, in questo momento, farebbe emergere in modo ancora più chiaro i problemi dell’Italia. Serve prima una garanzia altrimenti si rischia di scatenare il panico.

Oggi un altro cruccio importante delle banche è la redditività.
Le banche italiane hanno un vantaggio: per tradizione fanno più prestiti all’economia reale. Prestiti che, coi tassi a zero, rendono ancora in termini di margini. Gli istituti solidi e capaci di fare credito selettivo cresceranno ancora e faranno profitti. Molte banche, invece, andranno chiuse e si assisterà a una forte riduzione del personale.

Pil e Debito, i mali dell’economia Italiana. Renzi cambi la sua politica in Europa (intervista)

Intervista a cura di Giuseppe Colombo, pubblicata su L’Huffington Post il 12.08.2016 

Pil fermo al palo e debito pubblico al nuovo massimo storico, ma i problemi che attanagliano l’economia italiana travalicano la dimensione nazionale: la partita si gioca in Europa. È lì che “il governo Renzi ha sbagliato perché avrebbe dovuto ridiscutere la nostra posizione piuttosto che preoccuparsi di ottenere margini di flessibilità”. L’economista Luigi Zingales, professore alla University of Chicago Booth School of Business, legge così, in un’intervista all’Huffington Post, i dati resi noti oggi dall’Istat e dalla Banca d’Italia.

L’economia italiana piange: crescita nulla e un debito pubblico che aumenta invece di calare. Come lo spiega?
“I dati sono chiaramente preoccupanti: quello più preoccupante è il calo dell’export. L’export negli anni della crisi è stata la componente della domanda che ha sostenuto la nostra economia. In una fase in cui l’euro era più debole del dollaro, ci saremmo aspetti un aumento dell’export, non una riduzione”.

Cosa manca?
“C’è una carenza di domanda a livello europeo. Assistiamo a una deflazione, a livello europeo, che non sembra essere stata risolta dal quantitative easing e dalla Bce. Mi sembra che la Bce abbia sparato tutte le cartucce e a questo punto siamo di fronte alla necessità di avere una politica fiscale europea. Qui casca l’asino però perché la politica fiscale non c’è perché non c’è un governo europeo”.

Leggendo i dati dell’Eurostat, l’Italia sta peggio rispetto a molti Paesi europei: Germania, ma anche Spagna.
“Il problema di fondo è che l’Italia è in crisi da vent’anni. La Spagna ha avuto una grande crescita negli anni 2000 e poi una grande crisi. L’Irlanda ha ripreso a crescere a ritmi straordinari. Il nostro problema non dipende dal fatto che al governo ci sia Berlusconi, piuttosto che Letta o Renzi. C’è un problema di fondo. Per esempio molti si sono appigliati al fatto che bastava aumentare la flessibilità del lavoro, ma si è fatto e la situazione non è cambiata”.

Cosa servirebbe all’economia italiana?
“Serve quella che io chiamo la flessibilità del capitale, cioè la flessibilità della capacità di spostare gli investimenti e i capitali da imprese che oggi sono marginali a imprese che sono più dinamiche. Serve una maggiore capacità di crescere, che significa anche tagliare i rami secchi. Questa dinamicità in Italia si è persa ed è un grande ostacolo per la crescita”.

Cosa aggiungerebbe alla ricetta per guarire il malato Italia?
“Una riduzione generalizzata del costo di fare impresa. Uno va in Austria e costa molto meno, costa molto meno anche in Slovenia. Perché i nostri imprenditori devono stare in Veneto quando possono andare in Slovenia e stare molto meglio?”.

Qual è la freccia che è mancata nell’arco di Renzi?
“Il governo Renzi avrebbe dovuto cercare di ridiscutere la nostra posizione in Europa. Noi siamo in una situazione insostenibile. Un’Unione monetaria non è sostenibile senza una qualche forma di ridistribuzione fiscale”.

Il governo italiano in cosa ha sbagliato?
“Fino ad ora il governo italiano si è più preoccupato di ottenere margini di flessibilità piuttosto che ridiscutere la situazione dall’inizio. La Germania non ci sente: non solo ha negato la promessa di fare una garanzia unica sui depositi, ma ha imposto nuove condizioni e quando si vogliono imporre nuove condizioni significa che le cose non si vogliono fare. A questo punto ci dicano loro cosa sono disponibili a fare: se la risposta è niente, allora la sopravvivenza dell’area euro è in bilico”.

Basta aspettare: il governo segua l’esempio USA e intervenga

Intervista a Eugenio Occorsio, pubblicata su “La Repubblica” il 4.08.2016

«La situazione è così drammatica che non è più possibile perder tempo con soluzioni tampone caso per caso. Si rischia di andare all’infinito, ogni mese si apre una crisi. Servono decisioni forti, rapide e decisive. È il momento di un intervento statale per salvare le banche».
Per Luigi Zingales, economista della University of Chicago, non bastano momentanei picchi di mercato: «Il problema è così vasto e profondo che va risolto in modo definitivo. A mali estremi, estremi rimedi».

Prima obiezione: Bruxelles?
«L’Europa blocca gli interventi selettivi, mirati, anticoncorrenziali. Qui va fatto un intervento di sistema, un’iniezione di capitale diffusa e massiccia in tutte le banche, anche quelle sane, che permetta di seppellire la questione delle sofferenze e riattivare il credito. I soldi potrebbero venire dal Fondo salva-Stati che intervenne in Spagna».

Con pesanti cessioni di sovranità, però.
«La sovranità l’abbiamo già persa visto che dobbiamo contrattare ogni minima misura. Ma l’Europa nasce dall’idea di cedere sovranità: ci diciamo europeisti o no?».


Ci vuole un aiuto pubblico per gli istituti in difficoltà.
Sarebbero necessari 40-50 miliardi. 


Di quali cifre parliamo?
«Di 40-50 miliardi. Se non possiamo contabilizzarli come debito, intervenga la Cdp che da tale perimetro è fuori. L’esperienza americana è di guida. Il fondo Tarp da 800 miliardi creato dal ministro Paulson nel 2008, dapprima cercò di intervenire sui mutui subprime, l’equivalente delle nostre sofferenze, ma presto capì che era impossibile perché, come le sofferenze, era inestricabile la giungla delle garanzie, delle situazioni, insomma non si capiva il valore anche se i titoli erano già stati cartolarizzati. A maggior ragione il problema c’è in Italia dove le cartolarizzazioni bisogna farle ora: fatica a nascere un mercato di questi titoli perché non è chiara la qualità delle garanzie dietro le sofferenze. Negli Usa, si decise di intervenire direttamente nel capitale delle banche. E fu la soluzione della crisi».

Quali le modalità d’intervento?
«Come in America si emettono delle “preferred shares”, diverse dalle nostre privilegiate, e si entra in proporzione nel capitale di tutte le banche. Le azioni recano una clausola di redimibilità a valore predefinito. Dopo un anno le banche sane ricomprano le “preferred” pagando gli interessi allo Stato, in quelle che non ce la fanno le azioni precedenti si azzerano e le “preferred” si trasformano in ordinarie. Questa sì che è un’operazione di mercato, la selezione la fa il mercato».

Una nazionalizzazione bella e buona?
«Un investimento statale importante, probabilmente senza precedenti, nel settore bancario. A quel punto le banche sono abbastanza forti da poter riassorbire in bilancio le sofferenze».

Niente più Atlante e simili?
«C’è un rischio in questi fondi perché subappaltano la riscossione dei crediti alle agenzie di recupero che spesso usano metodi odiosi, con pesanti conseguenze sul piano sociale e politico».

Le Operazioni di Sistema sono Aiuti di Stato?

Il mio articolo si basava sulle informazioni presenti sulla stampa sabato 30 luglio. Nella notte era uscito un comunicato di MPS non accessibile a persone residenti negli Stati Uniti.  Il comunicato chiarisce alcuni punti, di qui l’aggiornamento e le parziali modifiche che trovate alla fine dell’articolo stesso.

Il Governo Renzi sembra aver messo insieme una complessa operazione di sistema per prevenire (o rimandare) il bail-in di Monte Paschi, gravato dalle sofferenze e “bocciato” agli stress test della European Bank Authority. Stando a notizie di stampa, il governo avrebbe trovato dei capitani coraggiosi disponibili ad investire fino a 3 miliardi di euro in un nuovo fondo: Atlante 2. Questo fondo prenderebbe a prestito altri 7 miliardi per comprare i 27 miliardi di sofferenze lorde di MPS ad un prezzo pari a circa un terzo del valore nominale (si parla del 32%), quando Bankitalia per simili sofferenze di Banca Etruria ha utilizzato il 17.6%, poi rivisto al 22.4%.  Anche con la valutazione più generosa di Bankitalia si tratterebbe di un regalo a MPS di 2.6 miliardi, ovvero (0.32-0.224)*27 . Incassato questo vantaggio, MPS sarebbe in grado di raccogliere 5 miliardi di capitale tramite l’emissione di nuove azioni. Il consorzio di collocamento sarebbe già pronto, anche se la data rimane incerta come incerta è la garanzia a fermo.

L’operazione è stata celebrata come “di mercato” e in quanto tale si pensa non incapperà nelle restrizioni agli “aiuti di stato” proibiti dalle regole europee. Ma cosa significa operazione di mercato? Perché mai dovrebbe essere organizzata da un governo? Può un’operazione “di sistema”, come dichiaratamente è Atlante 2, esser anche “di mercato”?

Il sito della Commissione definisce come aiuto di stato “qualsiasi vantaggio conferito in modo selettivo a delle imprese da un’autorità pubblica nazionale.” Specifica poi le condizioni perché un’operazione sia considerata aiuto di stato: ci deve essere l’intervento dello Stato, deve esserci un vantaggio conferito in modo selettivo e questo vantaggio deve avere il potenziale di distorcere la competizione e di influenzare l’interscambio tra stati membri.

In questo caso non c’è dubbio che ci sia stato l’intervento dello Stato, e non tanto per la partecipazione della Cassa Depositi e Prestiti, ma per gli incontri diretti che il Presidente del Consiglio ha avuto con i principali investitori, da Oliveti (Presidente dell’Associazione casse di Previdenza) a Donnet , AD di Generali, per finire a Jamie Dimon, AD di JP Morgan.

Ci sono pochi dubbi che in queste riunioni siano stati concessi dei favori in modo selettivo. Oliveti ha snocciolato le condizioni richieste a Renzi sulle pagine del Sole, forse per placare la rabbia degli associati. Non è dato sapere quali favori siano stati promessi a Donnet e Dimon, ma se non avessero ricevuto alcun favore in cambio dell’impegno ad acquistare intorno a 32 quello che la Banca d’Italia aveva valutato a 22.4, dovrebbero essere licenziati immediatamente dai rispettivi consigli.

Non sussiste dubbio neppure sul fatto che quest’operazione alteri la competizione. Le stesse condizioni non sono state offerte alla Banca Popolare di Vicenza o a – a suo tempo – a Banca Etruria.  Alterando in modo selettivo la capacità delle banche di sopravvivere, è probabile che l’intervento alteri lo scambio di servizi bancari tra stati.

Il problema non è specifico di Atlante 2, ma vale per tutte le operazioni cosiddette “di sistema”. La definizione stessa implica una violazione dei principi del mercato, dove gli agenti operano in modo autonomo e in competizione tra loro.

Le operazioni di sistema sono di gran lunga peggiori di un intervento diretto dello stato. Quando un governo interviene direttamente, almeno deve spiegare agli elettori gli obiettivi, i costi, e i potenziali benefici, pagandone il costo politico. Nelle operazioni di sistema, invece, né gli obiettivi né i costi sono trasparenti, con il rischio che i costi siano superiori ai benefici e che gli obiettivi invece che sociali (rimettere in moto l’economia), siano personali (la sopravvivenza di un governo). 

Il rischio maggiore è che gli obiettivi politici prevalgano su quelli economici. Che senso ha rimandare l’aumento di capitale di MPS? Esiste il rischio concreto che le condizioni di mercato girino o che si scopra che anche i crediti dubbi (altri 19,5 miliardi) valgano meno del 71% del valore facciale a cui sono stati iscritti a bilancio. Ma soprattutto in questi mesi MPS sarà paralizzata e non farà nuovi prestiti, rallentando l’economia.

Nel 2008 io ho criticato l’intervento statale disegnato dal Ministro del Tesoro Paulson come il peggiore possibile. Devo ricredermi. In Italia noi riusciamo a fare peggio.

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Aggiornamento di Lunedì 1 Agosto 2016

Il comunicato MPS chiarisce alcuni punti:

  1. Il prezzo pagato da Atlante per le sofferenze è il 27%. Nella cartolarizzazione dei crediti, gli azionisti di MPS ricevono una tranche junior, valutata il 6%. Così facendo si può dire che le sofferenze sono valutate al 33%. Questo escamotage sembra essere disegnato per creare per le sofferenze bancarie un benchmark fittiziamente alto, per evitare che a questi prezzi delle sofferenze altre banche risultino insufficientemente capitalizzate.
  2. MPS ipotizza che una tranche senior di queste sofferenze per un valore fino a 6 miliardi sarà collocata sul mercato. Atlante acquisterà per 1.6 miliardi la tranche successiva, che riceverà un pagamento solo se la quota senior sarà totalmente rimborsata. Di fatto è come se il fondo Atlante comprasse a leva, ma prendendo a prestito 6 e non 7 miliardi.
  3. La tranche senior, una volta che ha ricevuto un investment grade rating, sarà garantita dallo stato.
  4. Il fondo Atlante riceve un warrant per il 7% dell’equity dopo l’aumento di capitale.

Senza il valore del warrant — le cui condizioni sono ancora da determinare — il regalo a MPS è di 1.2 miliardi, invece dei 2.6 miliardi calcolati nel mio articolo. Rimangono valide tutte le altre considerazioni.

Cosa (non) cambierà, se Hillary Clinton diventerà presidente

Testo dell’intervista pubblicata sul Giornale di Sicilia il 28.07.2016

L’economista Zingales: «Obama lascia un Paese migliore di quello che ha trovato. C’è però un malessere diffuso nella classe media impoverita».
«Ma con Hillary nessuna vera svolta nella politica americana»

«Cosa cambierà, se Hillary Clinton dovesse diventare presidente? Temo niente!». Luigi  Zingales, l’economista italiano che insegna alla «Booth School of Business» dell’Università di Chicago, sta vivendo senza troppo entusiasmo «la stagione delle convention» negli Usa. Democratici a Philadelphia per incoronare l’ex senatrice dello Stato di New York, dopo che i repubblicani avevano fatto lo stesso con Donald Trump a Cleveland.

– Hillary Clinton, candidata della continuità?
«Nelle scelte di politica economica e politica estera Hillary Clinton non è molto diversa da Obama, né da George W Bush. L’unica cosa che cambierà veramente saranno i giudici della Corte suprema e quindi anche le decisioni sui diritti civili ed in particolare sui diritti delle donne, cui Hillary è molto sensibile. Ma Hillary Clinton non sembra essere molto sensibile all’impoverimento della classe media. Tanto che molti degli elettori di Sanders preferiscono non andare a votare piuttosto che votare per lei».

Disoccupazione in calo e Pil in aumento, ma anche stipendi che non crescono da anni e classe media in affanno. Obama lascia davvero in eredità un Paese che ha ormai alle spalle la crisi economica?
«In America gli effetti della crisi finanziaria del 2008 sono largamente superati, la disoccupazione è a livelli minimi ed entriamo nel settimo anno di crescita. Soprattutto vista dall’Italia, l’America sembra un sogno. Ma rimangono molti problemi strutturali, che predatano il 2008 e quindi non sono attribuibili ad Obama, ma che non sono stati ancora risolti. Tra i molti l’impoverimento relativo della classe media e l’aumento degli uomini al picco dell’età lavorativa che escono dalla forza lavoro, ovvero che hanno perso pure la speranza di trovare un lavoro. Ciononostante, Obama lascia un Paese migliore di quello che ha trovato».

– Nella convention repubblicana, Donald Trump ha affermato che «i redditi delle famiglie americane sono scesi e il debito nazionale raddoppiato». Argomenti da comizio?
«Nel suo discorso Donald Trump ha proiettato un’immagine eccessivamente cupa dell’America. Spesso lo ha fatto con un uso molto spregiudicato dei dati. Per esempio, è vero che il debito è raddoppiato in termini nominali, ma quello che conta è il rapporto tra debito e Pil e questo è salito “solo” dal 65 al 104 per cento. Per di più la forte crescita del debito è cominciata nel 2008-2009 a causa di una crisi finanziaria di cui Obama non è certo responsabile. Ma non tutto quello che dice è esagerato».

– Cioè?
«Lo sviluppo tecnologico e la globalizzazione hanno beneficiato molto di più alcuni che altri. Ad esempio, più del 50 per cento dei maschi americani non ha visto un aumento del proprio stipendio, in termini reali, negli ultimi 40 anni e questo rappresenta un problema. L’aspettativa di vita degli uomini bianchi ha smesso di crescere ed in alcune categorie è addirittura scesa. Questi sono segnali di un malessere diffuso e profondo».

– In un’intervista al “Giornale di Sicilia” l’ex capo della Associated Press in Italia, Victor Simpson, ha sottolineato come «sia colpa della propaganda politica se gli statunitensi pensano di stare male». Ha ragione?
«La propaganda politica sta esagerando sulla questione del crimine. Tranne Chicago e Baltimora, gli omicidi sono in netta diminuzione. Ma l’insoddisfazione della classe media è reale ed era stata ignorata fino ad ora. Un mio libro del 2012 che parlava di questi problemi fu largamente ignorato dal dibattito politico. E anche in questa campagna elettorale, se non fosse stato per Trump e Sanders, i problemi della classe media sarebbero stato ignorati».

– In Iraq e Siria, come altrove, gli Usa sono impegnati in costosissime missioni di guerra. Prevedibile un progressivo ritiro, anche solo per esigenze di bilancio?
«Sì e non solo per esigenze di bilancio, ma anche per un isolazionismo crescente negli Stati Uniti. Trump lo ha gridato alla convention: “America First”. Questo isolazionismo è sicuramente molto preoccupante per l’Europa. Se poi Trump dovesse diventare un alleato di Putin, per noi sarebbe un vero problema».

– Anni di recessione, ma anche di terrorismo e “sparatorie di massa”. Quanto e come è cambiato lo stile di vita americano?
«In eventi relativamente rari, come fortunatamente sono i crimini contro le persone, la gente reagisce più alle percezioni dei media che alla realtà. La città in cui vivo, Chicago, è molto violenta, ma per capire quanto lo fosse sono dovuto andare a vedere l’ultimo film di Spike Lee, perché la violenza è concentrata in alcuni quartieri. La violenza terroristica è disegnata per aumentare la percezione di insicurezza, quindi non stupisce che la gente reagisca di più di quello che dovrebbe».

– Quindi?
«Il rischio di morire in un attentato terroristico è minimo, ma non viene percepito come tale. Il rischio di morire in un incidente automobilistico è molto più elevato, ma non per questo evitiamo di guidare. Detto questo, non mi sembra che lo stile di vita in America sia cambiato. Gli americani sono solo più timorosi di viaggiare all’estero».

– Regno Unito, primo alleato europeo degli Stati Uniti. La “Brexit” imporrà un ripensamento dei rapporti con la UE?
«Non penso che gli Stati Uniti cambieranno la loro posizione nei confronti dell’Unione Europea a causa della Brexit. La mia preoccupazione è più come cambierà la UE senza il Regno Unito e come cambieranno i rapporti UE-USA se Trump dovesse essere eletto presidente».

Brexit e Trump: le radici della protesta sono simili (e l’intellighenzia si ostina a demonizzarle)

Articolo pubblicato su L’Espresso

Sarà per la “relazione speciale” con l’Inghilterra, sarà per il desiderio di sfruttare la vicenda a fini elettorali, ma negli Stati Uniti la Brexit ha occupato le prime pagine di tutti i giornali. Involontariamente, il miglior commento è stato formulato dal candidato repubblicano Donald Trump.

Appena arrivato nelle sue proprietà in Scozia, Trump ha twittato che i locali «stavano celebrando il voto. Si sono riappropriati del proprio Paese, come noi ci riprenderemo l’America». Peccato che gli scozzesi abbiano votato a favore di rimanere nell’Unione Europea e ora stiano pensando di indire un referendum per riprendersi veramente il proprio Paese, secedendo dal Regno Unito e restando nella Ue.

Il tweet è emblematico perché dimostra come in America (e forse non solo lì) ci sia un’enorme ignoranza, anche tra le persone più istruite, su cosa sia veramente Brexit e quali conseguenze possa avere. Ma è anche emblematico perché dimostra le emozioni prodotte da Brexit in America.

Prima ancora delle conseguenze economiche (che dipendono dal risultato di trattative molto complicate sul futuro delle relazioni tra Ue e Regno Unito), la Brexit ha avuto un forte impatto emotivo. Manda un forte segnale che il processo di integrazione non è irreversibile.

Se questo vale per l’Europa, può valere anche per gli Stati Uniti. Non a caso qualcuno in Texas parla di secessione. Una tentazione tanto più forte quanto più elevato sarà il prezzo del petrolio. Crea anche delle speranze che si possa fermare, se non invertire il processo di globalizzazione, un processo che ha prodotto nel complesso benefici economici, ma ha colpito in modo sproporzionato le classi medie.

Ma la connessione più forte con il voto su Brexit riguarda le polemiche sull’immigrazione. Anche se non è chiaro che il voto cambi la situazione, non c’è dubbio che il risultato sia stato in gran parte determinato da un fenomeno di rigetto nei confronti degli immigrati. Nelle aree dove erano maggiormente presenti, il voto per Brexit ha raggiunto l’80%.

Questo è il carburante che negli Stati Uniti ha alimentato il voto per Trump. Non a caso il ”New York Times” si affretta a sottolineare la differenza tra i due fenomeni, per paura che l’analogia trascini alla vittoria il candidato repubblicano. Ed è vero che l’America è molto più etnicamente diversa del Regno Unito e le minoranze – in particolare gli ispanici – detengono una quota di voti molto rilevante in Stati determinanti, come quello della Florida. È troppo tardi per salvare l’America bianca: quest’anno per la prima volta i bambini bianchi non sono la maggioranza nella coorte che entra in prima elementare.

Ma c’è un terzo aspetto, molto importante, che non viene sufficientemente sottolineato: il fallimento dei sondaggisti e dei mezzi di comunicazione di anticipare e capire il fenomeno Brexit. Questo fallimento è simile a quello visto negli Stati Uniti con Trump. Lo stesso partito repubblicano si è accorto del pericolo troppo tardi. Il motivo è molto semplice: entrambi questi voti di protesta nascono dalle periferie, dai colletti blu, dai meno abbienti, mentre i giornalisti – soprattutto in un mondo internet – sono diventati molto più urbani, cosmopoliti e completamente distaccati culturalmente dal mondo che ha votato Brexit, che è poi quello che sostiene Trump.

Tranne per i tabloid popolari in mano a Murdoch, tutta la stampa inglese sosteneva le ragioni dell’Unione Europea, al punto da considerare irrazionali (per non dire stupidi) i sostenitori della Brexit.

Non è diverso da quello che abbiamo sperimentato in Italia con Berlusconi. Ed è quello che sta succedendo negli Stati Uniti con Trump. Invece di capire le ragioni del dissenso e rispondere con delle proposte che possano sottrarre voti alla rivolta, l’intellighenzia americana continua a demonizzare Trump, aumentando il rischio che sia eletto presidente. Parafrasando Goya, si potrebbe dire che l’arroganza della ragione genera mostri. Ha generato Berlusconi. Ha generato Brexit. Ora dobbiamo assolutamente evitare un Trumpxit. Per il mondo avrebbe conseguenze infinitamente più serie.

Deutsche Bank e Monte Paschi: similitudini e differenze

Testo dell’articolo pubblicato il 10.07.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”.

“Chi conosce la realtà delle cose, sa che la vera questione sulla finanza europea non sono gli Npl (i crediti deteriorati, ndr) delle banche italiane, ma sono i derivati di altre banche” ha dichiarato il Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Il riferimento non troppo implicito era a Deutsche Bank (DB), che sembra soffrire in Borsa (-45% dall’inizio dell’anno, -11% dalla Brexit) quasi quanto il nostro Monte Paschi (-76% dall’inizio dell’anno, -38% dalla Brexit). In Italia sono in molti ad usare questa analogia.  Non è solo l’antico “mal comune, mezzo gaudio”, ma anche la speranza che la crisi della principale banca tedesca renda più flessibili i politici di quel Paese, facilitando a livello europeo l’autorizzazione ad iniettare capitale pubblico in MPS senza prima coinvolgere i titoli subordinati. Si tratta di una ragionevole scommessa?

Ci sono molti punti di similitudine tra MPS e DB. Innanzitutto, entrambe soffrono sia di una crisi patrimoniale che di una crisi reddituale. Patrimoniale, perché il mercato non crede nel valore contabile delle loro attività. Con un attivo di €169 miliardi, MPS capitalizza in Borsa solo €600 milioni; con un attivo di €1629 miliardi DB capitalizza solo €16,3 miliardi. Le azioni possono essere considerate un’opzione sul valore degli attivi con un prezzo di esercizio pari al valore delle passività. Usando questo metodo, per ottenere una capitalizzazione di borsa pari a quella di MPS bisogna ipotizzare che il valore degli attivi sia del 33% inferiore a quello contabile, per DB del 24%.

Crisi reddituale perché entrambe faticano a trovare un nuovo modello di business che sia profittevole. Infine, entrambe sono state coinvolte in numerosi scandali. La differenza è che DB ha già pagato profumatamente ($2,5 miliardi solo per la manipolazione sul Libor), MPS non ancora.

Ma ci sono due importanti differenze. La prima è che DB è principalmente una banca d’affari (presta solo il 26% del suo attivo) che opera sui mercati internazionali. Per questo la Federal Reserve americana l’ha considerata una banca a rischio sistemico. MPS rimane ancora principalmente una banca commerciale (presta il 66% dell’attivo), con una forte presenza in Toscana e Veneto. Non può essere un rischio sistemico a livello internazionale, non perché non sia a rischio (il costo per assicurarsi contro il default di un bond di MPS è più di 3 volte quello per un titolo simile di DB), ma perché non è sufficientemente grande e interrelata con le altre grandi istituzioni mondiali da essere sistemica.

La seconda differenza è nel come sono finanziate. DB ha depositi per il 35% dell’attivo, obbligazioni per l’8%, e subordinati per 1%. MPS, invece, ha depositi per il 47%, obbligazioni per il 18%, e subordinati per il 2%. Ma le obbligazioni ed i subordinati di DB sono stati venduti sul mercato ed ora sono posseduti da investitori diversificati, molti internazionali. Non altrettanto MPS. Gli investitori sono principalmente nazionali e molti di questi sono investitori al dettaglio, a cui spesso questi titoli sono stati venduti non spiegando (o peggio occultando ) i rischi specifici.

La prima di queste differenze implica che la Germania può permettersi di aspettare ad intervenire su DB: anche se DB riducesse i suoi prestiti all’economia, l’impatto interno sarebbe limitato e comunque le altre banche potrebbero facilmente compensare. Non altrettanto vale per MPS. L’effetto sull’economia sarebbe devastante soprattutto su Toscana (già colpita dalla crisi di Banca Etruria) e Veneto (colpito dalla crisi di BPVi e Veneto Banca).

La seconda differenza implica che un bail-in dei subordinati ed anche dei creditori di DB non avrebbe conseguenze tragiche in Germania perché sarebbe assorbito nel portafoglio degli investitori istituzionali, mentre avrebbe effetti devastanti in Italia. Se il bail-in di €250 milioni di subordinati di Banca Etruria ha prodotto un suicidio, molta disperazione, ed una fuga dai depositi bancari, cosa potrebbe causare il bail-in di €2,8 miliardi di subordinati di MPS?

Qui di seguito i link ai precedenti articoli della Rubrica “Alla Luce del Sole”:

– Salvare le banche per far ripartire l’economia
– L’importanza di un Buon Piano di Successione e il Ruolo del Consiglio di Amministrazione 
– Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia
– Cosa fare per evitare che il “decreto banche” diventi solo un regalo alle banche
– Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori
– Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi 
– Le Responsabilità della Consob sulle Obbligazioni Subordinate
– Gli stipendi degli AD e quei paracadute troppo grandi

 

 

Salvare le banche per far ripartire l’economia

Testo dell’articolo pubblicato il 3.07.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”.

Mentre il governo festeggia lo scudo da 150 miliardi come una vittoria, i titoli bancari continuano a precipitare in Borsa. Nonostante un lavorio febbrile, il governo è riuscito a fare molto poco in questo campo. Perché? È solo colpa dell’Europa?

Nel settore bancario italiano esistono 360 miliardi di prestiti difficilmente esigibili (200 vere e proprie sofferenze, altri 160 di prestiti in difficoltà). La colpa di tanti cattivi prestiti in parte è dei 7 anni di recessione, in parte della incapacità (se non della collusione) dei banchieri. Una commissione d’inchiesta dovrebbe stabilire le relative responsabilità (e quelle di chi doveva supervisionare). Ma nel frattempo dobbiamo rimettere in sesto il sistema bancario, perché senza un sistema bancario funzionante imprese e famiglie non hanno credito e l’economia del nostro Paese non riparte. Risanare il sistema bancario è molto più importante della riforma dello Statuto dei Lavoratori, dei contributi fiscali, e della riforma costituzionale. È su questo che si gioca oggi la ripresa economica del Paese.

Non si tratta di risolvere dei momentanei problemi di liquidità (la BCE li risolve più che bene), né di evitare il fallimento di alcune banche. Si tratta di rimettere le banche in grado di effettuare prestiti. Oggi la maggior parte di esse non è in grado di effettuare nuovi prestiti, perché non ha il capitale per farlo. Né vuole aumentare il capitale, perché ai prezzi attuali diluirebbe pesantemente (o azzererebbe) gli azionisti esistenti. Conviene ai banchieri aspettare e sperare in un futuro migliore e/o in un aiuto statale.

Con le sue proposte il governo ha contribuito a tenere vive queste speranze. Dalla “bad bank” alle garanzie sulle sofferenze, dal fondo Atlante allo scudo appena approvato, gli interventi sono stati concepiti come sostegno alle banche, non come sostegno all’economia reale: ovvero sono stati mirati a far sopravvivere le banche, ma non a metterle nelle condizioni di ricominciare a fare prestiti ad imprese e famiglie.

Tutti dicono che è colpa dell’Europa. Sicuramente la nuova direttiva europea sulla risoluzione delle banche in dissesto impone dei vincoli, ma non impedisce interventi diretti dello Stato “per evitare o porre rimedio a una grave perturbazione dell’economia e preservare la stabilita finanziaria.” Tra i metodi di quest’aiuto si annoverano anche “la sottoscrizione di fondi propri o l’acquisto di strumenti di capitale,” purché le banche non siano insolventi. Questa secondo me è esattamente la situazione in cui si trovano le banche italiane: non insolventi, ma sufficientemente a rischio di insolvenza da essere paralizzate e non fare prestiti.

In questa situazione uno scudo disegnato per risolvere problemi di liquidità (e non di mancanza di capitale) non funziona. Anzi, così come è stato disegnato è addirittura controproducente. Il governo si è affrettato a dire che lo scudo non parte subito, ma sarà avviato solo a domanda delle banche in difficoltà. Ovviamente nessuna banca vorrà chiederlo per evitare lo stigma sul mercato. Nel frattempo si sa che ci sono banche in difficoltà (altrimenti perché creare lo scudo?), ma non quali. Per di più non c’è neppure la certezza che le banche ricorrano allo scudo in tempo, perché la paura dello stigma le indurrà a farlo all’ultimo momento possibile. L’unica cosa certa è che grazie allo scudo le banche non si rimetteranno a prestare.

Non sono un giurista, ma secondo me (e secondo tutti quelli cui ho chiesto anche a livello europeo) un intervento sul capitale tipo quello da me descritto sul Sole di mercoledì scorso è fattibile. L’unico dubbio è se possa essere fatto direttamente dallo Sato invocando la clausola dei problemi sistemici o attraverso la CdP, che è al di fuori del perimetro dello Stato. Se non avviene quindi non è per colpa dell’Europa, ma perché non piace alle banche e soprattutto ai banchieri, che vedrebbero azzerarsi il valore delle loro stock option, e alle fondazioni bancarie, che perderebbero la maggior parte del patrimonio. Le imprese e le famiglie ringraziano.

Qui di seguito i link ai precedenti articoli della Rubrica “Alla Luce del Sole”:

L’importanza di un Buon Piano di Successione e il Ruolo del Consiglio di Amministrazione 
Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia
Cosa fare per evitare che il “decreto banche” diventi solo un regalo alle banche
Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori
Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi 
Le Responsabilità della Consob sulle Obbligazioni Subordinate
Gli stipendi degli AD e quei paracadute troppo grandi

Why I support an Italian Tarp, but I opposed the U.S. one

Some attentive readers have been surprised by the fact that I have come out in favor of an Italian version of Tarp, when I was one of the main opponents of the original U.S. Tarp. It is a very legitimate question, which deserves an answer longer than 140 characters.

In September 2008, I strongly voiced my opposition to the initial version of Tarp, which was designed to buy the toxic assets from the troubled banks. Together with some colleagues I launched a very successful petition against it and I proposed a debt for equity swap of the major banks, what is now known as “bail in”. I did it because I knew that all the major U.S. banks had enough widely held bonds to absorb the loss without generating a panic among investors. I was also confident that the federal insurance of deposits was strong enough to prevent devastating bank runs.

Unfortunately, neither of these conditions is present in Italy today. Italian banks – in particularly smaller ones—placed their bonds in the hands of retail depositors. There are several allegations that this placement took place in violation of the existing norms. What it is certain is that it took place with complete disregard of the clients’ well-being. Banks routinely let people of modest means invest all their savings in one bond of one bank. It does not to take an economic model to understand the human suffering that such bail in would cause, as recent suicides among affected Italian investors show. But for those who care only about models, Oliver Hart and I have shown (see here) why the welfare effects produced by a banking crisis are greater if the loss is allocated to retail depositors, who have high liquidity needs.

In addition, in Europe deposits are not federally insured. Thanks to the German government, who reneged on a promise made four years ago, the banking union started without federal insurance. Since the Italian sovereign cannot credibly guarantee all Italian deposits, the risk of a generalized bank run in Italy following a bail in is very high.

Last but not least, there is a huge difference between a sovereign country like the United States and a country that is part of a monetary union, like Italy. U.S. retail depositors, who want to withdraw their deposits from a risky bank but keep them in U.S. dollars, can only move them to another U.S. bank. Thus, in a crisis the total amount of U.S. deposits would not shrink, it would only be reallocated. In Italy, customers can move their deposits to Germany. The results would be a net reduction of deposits in Italy, with devastating consequences on the Italian banking sector’s ability to fund loans to the economy.

For all these reason I reluctantly came to the conclusion that the Italian state should intervene to save the banking sector and I tried to design (see here) a system that minimizes the risk for taxpayers and the bail out for bankers. I am very open to suggestions to make this system better, provided they do not violate these three goals: stabilize the banking system, minimize the cost for taxpayers, and punish all those responsible of misconduct.

Se Londra esce dal Continente (pubblicato il 22.06.2014)

Il 22 giugno 2014 su Il Sole 24 ore usciva questo mio articolo. Credo possa essere utile rileggerlo oggi.

Un mio collega ha una mappa del mondo visto dall’Australia: capovolta. Ho avuto la stessa sensazione ascoltando i discorsi sull’Europa alla Prima Conferenza sulla Libertà in onore di Margaret Thatcher, organizzata a Londra dal Center for Policy Studies. Per un italiano la visione inglese del “Continente” è altrettanto difficile da capire della mappa vista dall’Australia. Per comprenderla, non bastano le ragioni economiche: è necessario immergersi nella storia e nella cultura inglese.

A dividere la Gran Bretagna dall’Europa non c’è solo il Canale della Manica, ma quasi 500 anni di storia. A ricordarlo è stato il marchese di Salisbury. Quando Enrico VIII voleva rompere con Roma (e appropriarsi delle terre della Chiesa cattolica), i principali consiglieri erano contrari, preoccupati dalle conseguenze che questa decisione poteva avere sul futuro della nazione. Enrico VIII procedette comunque. Separandosi da Roma tagliò i legami del suo Paese con il Continente, spostando il centro di interesse dell’Inghilterra verso il resto del mondo. Fu una scelta fortunata. Da lì nacque l’espansione commerciale prima e coloniale poi. A quella decisione si deve la nascita dell’Impero Inglese.

Difficile non vedere le analogie con il presente. Bruxelles è la nuova Roma, da cui la Gran Bretagna si sente oppressa. Il richiamo del mondo anglofono (Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Hong Kong, Singapore, ed India) è forte, soprattutto in un momento in cui il Continente stenta a riprendersi economicamente, mentre i “cugini” anglofoni sono in espansione. Con questi Paesi (e con la Cina), l’Inghilterra vorrebbe firmare dei trattati di libero scambio. Ma non può farlo autonomamente. La competenza spetta a Bruxelles, che su questo fronte si muove a passo di lumaca. Per gli inglesi è forte la tentazione di tagliare gli ormeggi e di fare da soli, come fece Enrico VIII.

Ma a dividere la Gran Bretagna dall’Europa c’è anche l’ideologia sottostante al progetto europeo. L’idea franco-tedesca di Europa è basata sul concetto di «un mercato, una legge». Si vuole un omogeneizzazione forzata di regole e leggi, una uniformità totale dalla Finlandia a Malta. La cultura inglese, invece, crede nella diversità, che promuove la sperimentazione ed il progresso. L’Europa che loro vorrebbero è un’area di libero scambio dove ogni stato nazione si sceglie le proprie regole, regole che dovrebbero essere automaticamente riconosciute dagli altri stati membri. L’unica condizione è che le regole non discrimino contro i produttori degli altri Paesi. È un sistema che promuove la competizione tra giurisdizioni, nella convinzione che questa competizione indurrà i governi alle regole migliori per i cittadini e non per la casta al potere. Invece di un mercato di governi, l’Unione europea per gli inglesi è diventata un cartello di governi, che colludono per imporre regole comuni. Ma in uno Stato multinazionale chi deciderà queste regole comuni? La corporazione più politicamente influente, nel Paese più politicamente influente (leggi Germania). L’Inghilterra, che ha sempre odiato i cartelli, e ha sempre diffidato dell’egemonia tedesca. Per questo guarda con sospetto a questo modello di Europa.

Per finire, l’Inghilterra, patria della democrazia, guarda con scetticismo allo stato sopranazionale. Nella visione inglese un sistema democratico si basa su un demos, un popolo. Senza un popolo, esiste solo il cratos, l’esercizio del potere. Sono i valori condivisi che permettono ad un popolo di autogovernarsi. È in nome di una comune identità che la minoranza accetta la regola della maggioranza. È l’identità comune che rende accettabile di pagare le tasse per aiutare i propri concittadini. Ma questo popolo europeo non esiste (almeno per il momento) e certamente gli inglesi non sentono di appartenervi. L’unica rivoluzione in cui si riconoscono è quella inglese, la “gloriosa” rivoluzione del 1688. Per loro la Rivoluzione francese è un atto sanguinario, un prodromo infausto di quella sovietica.

L’ironia è che gli inglesi vedono il rapporto tra stato nazione e guerre in modo capovolto rispetto al resto d’Europa. L’ideologia europeista prevalente nel Continente ritiene che lo stato nazione sia la radice da estirpare di un male che ha prodotto due guerre mondiali. Gli inglesi, invece, vedono nello Stato nazionale la difesa contro pericolose ideologie internazionaliste che hanno devastato l’Europa per più di due secoli: dal giacobinismo al comunismo, passando per il nazismo.

L’unico argomento antieuropeista non presente alla conferenza era la xenofobia a la Farage. Due ex ministri anglofoni (un australiano e uno canadese) hanno lodato l’immigrazione, come una enorme fonte di ricchezza e di sviluppo per i loro Paesi. Anche se hanno messo in evidenza l’importanza che l’immigrazione avvenga in modo da rendere possibile l’integrazione. Lo stato nazionale può essere multirazziale, ma non multiculturale: si basa su valori condivisi. Gli immigrati devono assorbire questi valori e lo possono fare solo se l’immigrazione non è troppo concentrata temporalmente.

Anche se il sentimento prevalente alla conferenza era antieuropeista, non tutti i presenti erano a favore di una uscita dalla Ue. Non tanto per un amore verso il progetto, ma per paura delle conseguenze che la Gran Bretagna potrebbe trovarsi a dover fronteggiare. La convinzione è che Francia, Germania, Spagna siano Paesi tendenzialmente protezionisti. Senza l’Unione europea, anche il Mercato comune rischierebbe di disintegrarsi. Un rischio che molti inglesi non vogliono correre.

Qui, invece, l’articolo “Brexit o Remain, per salvare l’Europa dobbiamo cambiare l’Unione Europea”, pubblicato il 18.06.2016, alla vigilia del Referendum britannico.

 

 

Brexit o Remain, per salvare l’Europa dobbiamo cambiare l’Unione Europea

Testo dell’articolo pubblicato il 18.06.2016 su “Il Sole 24 Ore”,

Più che qualsiasi calcolo economico, l’essenza del dibattito nel Regno Unito sull’uscita dall’Unione Europea (la famigerata Brexit) è contenuta nei versi di “Hotel California” degli Eagles : “Correvo verso l’uscita, dovevo trovare il passaggio per tornare indietro, dove ero prima. ‘Rilassati’ – mi disse il guardiano notturno – ‘Siamo programmati solo per ricevere. Puoi fare il check-out in qualsiasi momento, ma non puoi mai andartene’.”

I britannici stanno correndo verso l’uscita cercando un ritorno ad un passato che non esiste più. Anche se dovessero votare il check out dall’Unione, sarebbero costretti, da ragioni commerciali e geografiche, a convivere con molte regole dell’Unione Europea, se non addirittura ad adottarne di meno vantaggiose in negoziazioni bilaterali in cui l’Unione avrebbe il coltello dalla parte del manico. Perché allora circa la metà degli elettori del Regno Unito (almeno prima della tragica uccisione della deputata laburista Jo Cox) voleva andarsene?

Il motivo principale è la mancanza di qualsiasi ideale nella campagna a favore dell’Europa. La colpa non è solo del primo ministro Cameron, mai un euroentusiasta, ma dell’Europa stessa.  Cosa rappresenta oggi l’Europa? Non semplicemente un mercato, altrimenti non ci sarebbe alcun motivo per tener furori la Turchia. Non un idem sentire: non facciamo che insultarci a vicenda utilizzando i peggiori stereotipi nazionalistici. Non un meccanismo di difesa comune contro i grandi pericoli che ci minacciano a livello globale: i francesi sono i primi a voler un esercito separato. Neppure una comunità in divenire: non solo i britannici, ma neppure i francesi o i tedeschi vogliono oggi un’unione politica. L’Europa è un grande progetto in mezzo al guado: incapace di andare avanti, timoroso di andare indietro, difeso a spada tratta solo dall’apparato cui questo progetto fornisce di che vivere. È uno status quo, poco amato, ma troppo difficile da cambiare. Come si fa a creare una campagna per sostenere un’istituzione senza più una carica ideale?

L’unico mezzo è la paura dell’alternativa. E proprio sulla paura si è concentrata la campagna degli europeisti. Più i sondaggi sollevavano la possibilità di una Brexit, più venivano diffusi scenari apocalittici in caso questa opzione dovesse avere il sopravvento. L’ultimo (del ministro delle Finanze britannico) è che in caso di Brexit le imposte aumenteranno subito di 30 miliardi di sterline per coprire il buco provocato dall’uscita. In un’analisi dei costi e benefici economici, il Regno Unito ha più da perderci che da guadagnarci se esce dall’Unione Europea. Ma non si tratta di effetti catastrofici. Certo se la City finanziaria dovesse spostarsi a Parigi, Francoforte o Milano, Londra perderebbe molto. Ma già lo si era detto se il Regno Unito non fosse entrato nell’euro, e poi non è successo. Gli scenari prospettati dagli europeisti sono talmente apocalittici da destare nei britannici – che hanno sempre avuto un salutare spirito bastian contrario – un rigetto per l’Europa, ed un’attrazione fatale per la Brexit.

Ma c’è un altro aspetto della battaglia per la Brexit che ci deve far pensare. I britannici sono sempre stati diffidenti di un’Europa unita, perché hanno paura che sia unita con i principi sbagliati. Come nel 1988 ricordò in un famoso discorso a Bruges l’allora primo ministro britannico Margaret Thatcher, senza il sacrificio dei soldati del Regno Unito “l’Europa si sarebbe unificata molto prima, ma non nella libertà e non nella giustizia.”

Un’Europa più alcuna senza spinta ideale è condannata al fallimento, ma un’Europa senza Regno Unito è destinata a rafforzare l’egemonia tedesca.

La diffidenza della Thatcher non era certo contro il libero mercato europeo: era sospettosa di un’Europa che voleva essere molto più di un mercato, senza avere le istituzioni democratiche per farlo. La Thatcher perse il posto per il suo antieuropeismo e la sua opposizione alla moneta unica. Ma oggi è vendicata. Quasi nessun britannico oggi vorrebbe essere nell’euro e circa la metà non vuole fare più parte di un Unione dove a decidere è sempre più un Consiglio di Ministri intergovernativo a trazione tedesca. Negli Stati Uniti d’America esistono regole costituzionali molto precise per evitare che lo stato di New York decida per tutti. In Europa no. Questa egemonia tedesca, sempre meno bilanciata dalla Francia, giustamente preoccupa i britannici. Ma dovrebbe preoccupare maggiormente noi. Senza il contrappeso del Regno Unito, l’egemonia tedesca sull’Europa diventerebbe sempre più totale. E i primi a perderci saremmo noi.

Che vinca la Brexit o no, speriamo questa serva da campanello d’allarme. Per salvare l’Europa dobbiamo cambiare l’Unione Europea. Questa Europa, senza più alcuna spinta ideale, è condannata al fallimento.