La peggiocrazia che rischia di uccidere Generali e il Paese

Testo dell’articolo pubblicato il 29.01.2017 su “Il Sole 24 Ore”, nella rubrica “Alla luce del Sole”. 

Da anni ci dicono che dobbiamo fare “le riforme”, perché il nostro Paese non è competitivo. Ed effettivamente la classifica del World Economic Forum (Wef) mette l’Italia al 44° posto per competitività, sotto all’India e all’Azerbaijan.  Una delle debolezze storiche dell’Italia, su cui si è lungamente dibattuto e legiferato, è la mancanza di flessibilità nell’assumere e licenziare, un criterio che vede il nostro Paese ancora al 124° posto (ma comunque sopra la Francia ed appena sotto l’Austria), probabilmente perché gli effetti del “Jobs Act” non sono stati ancora pienamente recepiti. Meno riconosciuta, ma altrettanto importante, è la mancanza di meritocrazia in azienda. Il World Economic Forum classifica i paesi anche in base a come vengono selezionate le posizioni di alta dirigenza.

Un paese riceve un punteggio basso se nelle posizioni apicali vengono scelti “di solito parenti o amici senza riguardo al merito”, mentre riceve un punteggio alto se al vertice sono selezionati “manager per lo più professionisti scelti per merito e per le loro qualifiche.”  Ebbene in questo criterio l’Italia è al 102° posto, ultima tra i Paesi europei, sotto la Grecia e la Bulgaria.

Tutte le classificazioni internazionali hanno limiti, e questa non è un’eccezione. Purtuttavia colpisce perché la classifica del Wef è basata sull’opinione di un panel di manager internazionali. Ovvero sono i propri pari stranieri a considerare come poco qualificati i nostri manager o meglio i nostri processi di selezione dei manager. Perché di manager italiani di talento nel mondo ce ne sono molti, da Vittorio Colao a Mario Greco, da Diego Piacentini a Luca Maestri. Il problema è che non solo non vengono apprezzati in Italia, ma sono spesso cacciati dall’Italia, proprio perché la loro bravura li rende poco controllabili.

Prendiamo ad esempio Generali, uno delle poche grandi imprese italiane rimaste. Nel 2012, sotto pressione della crisi dello spread, Mediobanca sceglie come manager proprio Mario Greco, che porta in Generali una cultura meritocratica.   I manager non vengono più scelti in base al loro coefficiente di “triestinità’ o alle loro amicizie personali con i principali azionisti, ma in base alla competenza. Arrivano il tedesco Carsten Schildknecht come Chief Operating Office e l’indiano Nikhil Srinivasan, come capo degli investimenti.  I risultati non si fanno attendere. Il titolo cresce del 57%, sette punti percentuali più del dell’indice azionario della Borsa di Milano (MIB-FTSE) nello stesso periodo, e il rendimento del portafoglio titoli di Generali supera la media dei competitori per tre anni consecutivi.

Questi risultati, però, non bastano a garantire a Mario Greco un automatico rinnovo del contratto. Invece di ringraziarlo per i risultati ottenuti, i principali azionisti fanno di tutto per limitarne i poteri, proponendo perfino un limite di età, nonostante Greco abbia solo 57 anni. Greco se ne va a Zurich perché, come tutti i manager capaci, ha alternative. Proprio per questo non veniva considerato “leale”, ovvero disposto a fare qualsiasi cosa per tenere la poltrona. Come un lavoro di Bandiera et al. dimostra, in Italia alla competenza viene preferita la lealtà di chi manca di alternative: quella che ho più volte definito come la “peggiocrazia,” perché i manager peggiori sono quelli più leali, in quanto privi totalmente di alternative.

Uscito Greco, poco dopo se ne vanno anche i manager portati da lui: proprio perché, essendo bravi, hanno alternative più allettanti. I principali azionisti, tranquillizzati dalla protezione che lo scudo di Draghi fornisce alle imprese finanziarie, non cercano di sostituirlo con un’alternativa forte. Seguendo il vecchio principio del divide et impera, scelgono una diarchia tra due manager interni: Donnet e Minali. Come era facilmente prevedibile, la diarchia non funziona e Generali perde anche Minali. A farne le spese è il prezzo di Borsa che fino a settembre scende del 25% (contro il -18% dell’indice) quando cominciano i rumor su un possibile takeover, perché Generali è diventata una possibile preda. E questo non è un male, ma un salutare meccanismo di un sistema di mercato. Se una società non è gestita bene, viene acquisita da chi può gestirla meglio, a beneficio non solo degli azionisti, ma di tutto il Paese.

L’Italia ha un disperato bisogno di meritocrazia al vertice, non di un capitalismo di relazioni.

Purtroppo in Italia il mercato non funziona, soprattutto per quanto riguarda il controllo societario. Invece di guardare a chi potrebbe gestire meglio la società, si guarda ai quarti di italianità del management e della società acquirente, come questi fossero una garanzia di qualità. Quando Del Vecchio ha voluto vendere Luxottica, non ha guardato al passaporto dell’acquirente, ma alla combinazione ottimale degli attivi e del management. Perché Generali non dovrebbe fare altrettanto? Se BancaIntesa ha un programma strategico, ben venga. Ma se decide di acquisire Generali per difendere l’italianità, rischia di affossare non solo se stessa e la terza compagnia d’assicurazioni europea, ma il Paese stesso. L’Italia ha un disperato bisogno di meritocrazia al vertice, non di un capitalismo di relazioni. Di fronte ad una governance incapace di selezionare manager di qualità, il takeover ostile è il penultimo baluardo del mercato per promuovere la meritocrazia ai vertici delle imprese. Dopo di questo viene solo il fallimento, con i tutti i disastri che ne conseguono. Meglio un’Assicurazioni Generali francese o tedesca che un’Assicurazioni Generali fallita. Ricordiamoci di Alitalia.


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