Luigi Zingales: “Ventotene, occasione persa per chiedere l’unione bancaria” (intervista)

Intervista a cura di Eugenio Occorsio pubblicata su La Repubblica il 24 Agosto 2016. 

“Se è vero che il vertice di Ventotene ha segnato l’inizio di una nuova epoca di cooperazione fra i tre principali Paesi rimasti nella Ue, allora l’Italia poteva mettere sul piatto i temi di fondo che la dividono dalla Germania, quelli dell’economia. Se non ora quando?”.

Luigi Zingales, economista della University of Chicago, ritiene che quella di Ventotene sia stata per molti versi un’occasione perduta per fare passi avanti davvero strutturali. Però proprio sull’economia c’è la novità più importante: la sofferta flessibilità per chiudere i conti, ora che la crescita è crollata a zero, sembra che ci verrà data.

“Allargare il deficit dà più margini di spesa al Governo, ma aggrava il problema del debito”

Cos’altro dovevamo chiedere? 
“L’allargamento del deficit è un fatto politicamente importante perché garantisce più soldi da spendere al governo Renzi, ma non risolve i nodi di fondo della nostra economia. Anzi, da un altro punto di vista è anche un aggravamento di questi problemi perché porterà a un aumento ulteriore del debito, il nodo insopportabile che ci soffoca ed è del tutto irrisolto. Invece andavano affrontati i nodi strutturali: fossi stato Renzi avrei rinfacciato alla Merkel l’intollerabile voltafaccia sull’unione bancaria, dove la Germania non vuole più creare un fondo comune di assicurazione dei depositanti che darebbe fiato alle banche italiane creando un clima meno teso”.

L’errore è lasciare alla Germania la determinazione dell’agenda europea.

La Merkel avrebbe risposto che prima va diminuito il peso del debito pubblico sui portafogli. 
“Certo, ma gli accordi erano diversi. L’assicurazione si deve fare, punto e basta. La questione dei buoni del Tesoro e del loro coefficiente di rischio sarà affrontata in altre sedi tecniche, da Basilea alla Bce, dove si cercherà di correggere la leggerezza fatta alla nascita dell’euro di considerare privo di rischio qualsiasi debito sovrano. L’errore di Renzi e dei leader europei è lasciare alla Germania la determinazione dell’agenda europea. Se si parla solo di flessibilità, le ragioni della Germania appaiono inoppugnabili: perché però non parlare del sussidio europeo di disoccupazione? Sarebbe difficile trovare motivi per opporsi, eppure quando c’è la Merkel di quest’ipotesi non bisogna neanche far cenno. Tra l’altro, il sussidio non è detto che beneficerebbe solo certi Paesi: nel 2005 c’erano più disoccupati in Germania che in Francia e Spagna. Il fatto è che Berlino ha imposto un’egemonia culturale, per cui certi temi non sono entrati nel trattato di Maastricht, né in nessuna agenda comune. L’Italia invece dovrebbe farsi coraggio e proporli. Altrettanto vale per tutte le altre voci di una politica di bilancio comune”.

Tipo gli eurobond? 
“Capisco la riluttanza tedesca: perché condividere i nostri debiti? Ma se Berlino non li vuole, faccia proposte alternative. È ora di farsi coraggio su questi punti altrimenti dove sta l’Europa, a cosa serve? Solo a farsi gite senza passaporto?”

Serve a iniziative come il piano Juncker, che infatti a Ventotene si è deciso di ampliare. 
“Qui c’è un altro problema tutto italiano: l’incapacità progettuale di tante opere cofinanziate, per non dire della corruzione che vi si annida, è ancora un ostacolo verso la piena utilizzazione di questi strumenti comunitari”.


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Due euro sono meglio di uno? (pubblicato il 9 Maggio 2010)

Articolo pubblicato su “Il Sole 24 Ore” il 9 Maggio 2010.
English translation here

Spesso le difficoltà della vita allontanano anche le coppie più innamorate. Quando le differenze di vedute diventano insanabili, a nulla serve ricordare l’amore che fu. Cercare di attribuire la responsabilità del fallimento è controproducente. Non fa che peggiorare le cose. Meglio una separazione consensuale e, come dicono gli inglesi, move on.

Lo stesso vale per l’euro. Fu un matrimonio d’amore. Contro il pessimismo della ragione, i padri fondatori addussero l’ottimismo della volontà: la speranza (illusione?) che le ovvie incompatibilità sarebbero state superate in corso d’opera. A chi (gli economisti americani) diceva che l’area dell’euro non era fatta per avere una sola valuta, si ribattè che parlavano per invidia o, peggio, per paura che l’euro avrebbe un giorno soppiantato il dollaro.

Come in molte coppie, l’attrazione fatale nasceva dalla diversità. L’Europa del Sud cercava un impegno esterno che le desse la disciplina monetaria e fiscale che non era stata in grado di darsi da sola.

Il Nord dell’Europa sperava che il Sud con il matrimonio mettesse la testa a posto ed evitasse, con le sue continue svalutazioni, di creare tensioni sul mercato dei cambi e delle esportazioni. Come in molte coppie, quella diversità, inizialmente così attraente, è divenuta insostenibile con gli anni.

La teoria economica suggerisce che per condividere la stessa moneta un’area geografica deve soddisfare due condizioni. La prima è che abbia un’economia relativamente omogenea, sottoposta agli stessi shock. Se parte dell’economia si basa sul petrolio e parte su high tech, gli shock saranno molto diversi e la politica monetaria che si addice a un’area non funzionerà nell’altra.

La seconda condizione, ancora più importante, è la mobilità interna. Se il Texas (economia tradizionalmente basata sul petrolio) riesce a convivere con la California (più basata sull’high tech) è perché i californiani si muovono facilmente in Texas e viceversa, tanto che Austin (Texas) è diventata una delle capitali dei personal computer.

Lo stesso non vale per l’Europa. Non solo il Nord dell’Europa, basato principalmente sull’industria manifatturiera avanzata, è molto diverso economicamente dal Sud, basato sul turismo. Ma la mobilità è molto limitata. Quella poca che esiste è dal Sud verso il Nord, non viceversa.

Dall’introduzione dell’euro il Sud ha avuto una crescita dei prezzi più elevata del Nord. Paradossalmente questa crescita è stata “colpa” dell’euro. L’introduzione di una moneta unica ha prodotto una riduzione dei tassi d’interesse per i paesi del Sud Europa che ha favorito un boom immobiliare. Fossimo stati negli Stati Uniti, gli abitanti del Michigan e del Minnesota si sarebbero trasferiti in Florida e Louisiana. Così non è in Europa. I tedeschi e gli olandesi in Grecia e Spagna ci vanno in vacanza, non a lavorare.

Il risultato di questa segmentazione è che i prezzi nel Sud Europa sono cresciuti per molti anni più che nel Nord, senza che il mercato interno costringesse a un reallineamento. Ora, finito il boom immobiliare, il Sud si trova ad essere molto meno competitivo del Nord.

Senza l’opzione di svalutare, ci sono solo tre possibili forme di aggiustamento. La prima è che i prezzi al Sud crescano meno dei prezzi al Nord. Il problema è che, con la bassa crescita mondiale e la politica monetaria della Bce, i prezzi al Nord difficilmente cresceranno più del 2 per cento.

Per recuperare differenziali del 20-30% (tali sono quelli dei paesi meridionali) il Sud deve subire molti anni d’inflazione a tasso zero o peggio di deflazione. L’elevato livello d’indebitamento privato di paesi come la Grecia e la Spagna, però, rende questa deflazione estremamente costosa. Se i prezzi scendono e il debito rimane fisso in termini nominali, ci saranno fallimenti a catena. La crisi del governo greco “ce n’est qu’un début”: il problema si trasferirà presto al settore privato.

Un’alternativa è che i paesi del Nord accettino un livello d’inflazione più elevato, rendendo possibile ai paesi del Sud di recuperare competitività senza dover accettare una pericolosa deflazione. Ma questo equivale a chiedere al proprio coniuge di non essere più se stesso per salvare il matrimonio. I tedeschi non accetteranno. La loro condizione per l’unione era che la Bce avrebbe seguito la stessa rigida politica monetaria della Bundesbank. Quest’accordo è stato incorporato nei trattati e difficilmente potrà essere modificato, soprattutto senza il consenso tedesco. E i tedeschi non vedono perché debbano accettare l’odiata inflazione per rimediare agli errori altrui.

L’unica via d’uscita indolore sarebbe che il Sud Europa guadagnasse di competitività rispetto al Nord aumentando la produttività. Ma questo richiede riforme, tempo e investimenti. Se le ripercussioni della crisi greca possono aver aumentato la pressione per le riforme, hanno ridotto drammaticamente il tempo a disposizione e gli incentivi a investire. Quanti anni di disoccupazione a due cifre sono disposti a sopportare greci e spagnoli?

La maggior parte degli economisti accetta quest’analisi: perfino il premio Nobel Stiglitz, che non può certo essere accusato di essere un economista di destra. Dove nasce il disaccordo è sul rimedio. Molti, tra cui Stiglitz, sostengono che la soluzione alla crisi attuale è un’ulteriore integrazione politica e fiscale. Certo che se il governo europeo potesse prendere a prestito come tale e destinare le risorse raccolte al Sud, la crisi attuale potrebbe essere alleviata.

Il ragionamento è corretto, ma solleva due grossi problemi. Il primo politico. Politicamente non è facile spiegare ai tedeschi che devono indebitarsi maggiormente (e quindi pagare maggiori tasse in futuro) per risolvere i problemi dei loro cugini greci e spagnoli. Non lo può fare un governo elettoralmente debole e diviso come quello della Merkel. Ma probabilmente non potrebbe farlo neppure il governo del miglior leader tedesco.

Noi italiani, che viviamo in un paese che parla la stessa lingua e che, nel bene e nel male, è unito da 150 anni, stiamo muovendoci verso il federalismo fiscale, che contribuirà a ridurre i trasferimenti dal Nord al Sud. Come possiamo aspettarci che le nazioni europee vadano in direzione assolutamente opposta, nonostante la mancanza di una storia unitaria?

Il secondo problema è economico. I trasferimenti alleviano i problemi economici nel breve periodo, ma non li risolvono. Anzi li cronicizzano. Grazie ai sussidi le aree fuori mercato possono permettersi di rimanere tali, senza aggiustare i prezzi. Il nostro Mezzogiorno ha un livello di prezzi superiore alla sua produttività media. Sessant’anni di trasferimenti non hanno alleviato questo problema, lo hanno trasformato in gangrena. Vogliamo forse meridionalizzare il Sud d’Europa?

L’unica soluzione rimasta è riconoscere le differenze insanabili e spezzare consensualmente l’area euro. In economia il male maggiore è l’incertezza. La crisi greca ha seminato il dubbio che uno o più paesi possano uscire dall’euro. Difficilmente tale dubbio potrà essere fugato. Ma il mercato non ha idea di come tale uscita possa avvenire. Travolti dalla passione amorosa, i fondatori dell’euro si rifiutarono di considerare una via d’uscita. L’euro, si diceva, è irreversibile. Ma perfino la Chiesa, che non riconosce il divorzio, in situazioni estreme ha una procedura per la separazione. Perché l’euro no?

Questa mancanza di regole sta gettando il panico nei mercati finanziari e paralizzando gli investimenti. Chi uscirà per primo? Come verranno trattati i contratti in euro di questo paese? Quali conseguenze avrà sugli altri paesi e sulle loro banche? Una separazione pilotata e rapida sarebbe il male minore.

Creando due blocchi, ridurrebbe lo stigma su ogni singolo paese e consentirebbe al Sud di continuare a detenere una valuta liquida. La svalutazione dell’euro-sud rispetto all’euro-nord ridurrebbe il peso del debito pubblico e privato e permetterebbe un recupero di competitività che rilancerebbe l’economia. Eliminata l’incertezza gli investimenti riprenderebbero.

Inconcepibile? Perfino gli Stati Uniti lo fecero negli anni 30. Di fronte ai costi economici e sociali prodotti dalla Grande Depressione, gli Stati Uniti abbandonarono la parità aurea e trasformarono tutti i contratti scritti in dollari-oro in contratti in dollari carta svalutati. Perché gli stati del Sud Europa non dovrebbero abbandonare la parità con l’euro e trasformare i contratti scritti in euro in contratti in uno svalutato euro-sud?

Una legittima passione per l’unità europea ha accecato i padri fondatori dell’euro. Come due innamorati che sperano che il loro matrimonio eliminerà i rispettivi difetti, i padri fondatori si sono illusi che l’Unione Europea avrebbe creato lo spirito europeo. In verità, la libera circolazione delle persone, le borse di studio Erasmus e l’uso sempre più diffuso dell’inglese stanno lentamente formando uno spirito europeo.

Ma ci vorranno molti decenni, forse secoli, prima che un cittadino finlandese consideri un greco alla stregua del suo vicino di casa. Più di un millennio di divisioni non si cancella nello spazio di un decennio. Un’unione coatta non aiuta l’economia, ma neppure le possibilità di un’unione futura. Per salvare lo spirito europeo è meglio un divorzio consensuale, che preservi l’unione economica senza forzare quella monetaria. L’alternativa, uno stillicidio di litigi e recriminazioni, potrebbe essere devastante.

Pil e Debito, i mali dell’economia Italiana. Renzi cambi la sua politica in Europa (intervista)

Intervista a cura di Giuseppe Colombo, pubblicata su L’Huffington Post il 12.08.2016 

Pil fermo al palo e debito pubblico al nuovo massimo storico, ma i problemi che attanagliano l’economia italiana travalicano la dimensione nazionale: la partita si gioca in Europa. È lì che “il governo Renzi ha sbagliato perché avrebbe dovuto ridiscutere la nostra posizione piuttosto che preoccuparsi di ottenere margini di flessibilità”. L’economista Luigi Zingales, professore alla University of Chicago Booth School of Business, legge così, in un’intervista all’Huffington Post, i dati resi noti oggi dall’Istat e dalla Banca d’Italia.

L’economia italiana piange: crescita nulla e un debito pubblico che aumenta invece di calare. Come lo spiega?
“I dati sono chiaramente preoccupanti: quello più preoccupante è il calo dell’export. L’export negli anni della crisi è stata la componente della domanda che ha sostenuto la nostra economia. In una fase in cui l’euro era più debole del dollaro, ci saremmo aspetti un aumento dell’export, non una riduzione”.

Cosa manca?
“C’è una carenza di domanda a livello europeo. Assistiamo a una deflazione, a livello europeo, che non sembra essere stata risolta dal quantitative easing e dalla Bce. Mi sembra che la Bce abbia sparato tutte le cartucce e a questo punto siamo di fronte alla necessità di avere una politica fiscale europea. Qui casca l’asino però perché la politica fiscale non c’è perché non c’è un governo europeo”.

Leggendo i dati dell’Eurostat, l’Italia sta peggio rispetto a molti Paesi europei: Germania, ma anche Spagna.
“Il problema di fondo è che l’Italia è in crisi da vent’anni. La Spagna ha avuto una grande crescita negli anni 2000 e poi una grande crisi. L’Irlanda ha ripreso a crescere a ritmi straordinari. Il nostro problema non dipende dal fatto che al governo ci sia Berlusconi, piuttosto che Letta o Renzi. C’è un problema di fondo. Per esempio molti si sono appigliati al fatto che bastava aumentare la flessibilità del lavoro, ma si è fatto e la situazione non è cambiata”.

Cosa servirebbe all’economia italiana?
“Serve quella che io chiamo la flessibilità del capitale, cioè la flessibilità della capacità di spostare gli investimenti e i capitali da imprese che oggi sono marginali a imprese che sono più dinamiche. Serve una maggiore capacità di crescere, che significa anche tagliare i rami secchi. Questa dinamicità in Italia si è persa ed è un grande ostacolo per la crescita”.

Cosa aggiungerebbe alla ricetta per guarire il malato Italia?
“Una riduzione generalizzata del costo di fare impresa. Uno va in Austria e costa molto meno, costa molto meno anche in Slovenia. Perché i nostri imprenditori devono stare in Veneto quando possono andare in Slovenia e stare molto meglio?”.

Qual è la freccia che è mancata nell’arco di Renzi?
“Il governo Renzi avrebbe dovuto cercare di ridiscutere la nostra posizione in Europa. Noi siamo in una situazione insostenibile. Un’Unione monetaria non è sostenibile senza una qualche forma di ridistribuzione fiscale”.

Il governo italiano in cosa ha sbagliato?
“Fino ad ora il governo italiano si è più preoccupato di ottenere margini di flessibilità piuttosto che ridiscutere la situazione dall’inizio. La Germania non ci sente: non solo ha negato la promessa di fare una garanzia unica sui depositi, ma ha imposto nuove condizioni e quando si vogliono imporre nuove condizioni significa che le cose non si vogliono fare. A questo punto ci dicano loro cosa sono disponibili a fare: se la risposta è niente, allora la sopravvivenza dell’area euro è in bilico”.

Deutsche Bank e Monte Paschi: similitudini e differenze

Testo dell’articolo pubblicato il 10.07.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”.

“Chi conosce la realtà delle cose, sa che la vera questione sulla finanza europea non sono gli Npl (i crediti deteriorati, ndr) delle banche italiane, ma sono i derivati di altre banche” ha dichiarato il Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Il riferimento non troppo implicito era a Deutsche Bank (DB), che sembra soffrire in Borsa (-45% dall’inizio dell’anno, -11% dalla Brexit) quasi quanto il nostro Monte Paschi (-76% dall’inizio dell’anno, -38% dalla Brexit). In Italia sono in molti ad usare questa analogia.  Non è solo l’antico “mal comune, mezzo gaudio”, ma anche la speranza che la crisi della principale banca tedesca renda più flessibili i politici di quel Paese, facilitando a livello europeo l’autorizzazione ad iniettare capitale pubblico in MPS senza prima coinvolgere i titoli subordinati. Si tratta di una ragionevole scommessa?

Ci sono molti punti di similitudine tra MPS e DB. Innanzitutto, entrambe soffrono sia di una crisi patrimoniale che di una crisi reddituale. Patrimoniale, perché il mercato non crede nel valore contabile delle loro attività. Con un attivo di €169 miliardi, MPS capitalizza in Borsa solo €600 milioni; con un attivo di €1629 miliardi DB capitalizza solo €16,3 miliardi. Le azioni possono essere considerate un’opzione sul valore degli attivi con un prezzo di esercizio pari al valore delle passività. Usando questo metodo, per ottenere una capitalizzazione di borsa pari a quella di MPS bisogna ipotizzare che il valore degli attivi sia del 33% inferiore a quello contabile, per DB del 24%.

Crisi reddituale perché entrambe faticano a trovare un nuovo modello di business che sia profittevole. Infine, entrambe sono state coinvolte in numerosi scandali. La differenza è che DB ha già pagato profumatamente ($2,5 miliardi solo per la manipolazione sul Libor), MPS non ancora.

Ma ci sono due importanti differenze. La prima è che DB è principalmente una banca d’affari (presta solo il 26% del suo attivo) che opera sui mercati internazionali. Per questo la Federal Reserve americana l’ha considerata una banca a rischio sistemico. MPS rimane ancora principalmente una banca commerciale (presta il 66% dell’attivo), con una forte presenza in Toscana e Veneto. Non può essere un rischio sistemico a livello internazionale, non perché non sia a rischio (il costo per assicurarsi contro il default di un bond di MPS è più di 3 volte quello per un titolo simile di DB), ma perché non è sufficientemente grande e interrelata con le altre grandi istituzioni mondiali da essere sistemica.

La seconda differenza è nel come sono finanziate. DB ha depositi per il 35% dell’attivo, obbligazioni per l’8%, e subordinati per 1%. MPS, invece, ha depositi per il 47%, obbligazioni per il 18%, e subordinati per il 2%. Ma le obbligazioni ed i subordinati di DB sono stati venduti sul mercato ed ora sono posseduti da investitori diversificati, molti internazionali. Non altrettanto MPS. Gli investitori sono principalmente nazionali e molti di questi sono investitori al dettaglio, a cui spesso questi titoli sono stati venduti non spiegando (o peggio occultando ) i rischi specifici.

La prima di queste differenze implica che la Germania può permettersi di aspettare ad intervenire su DB: anche se DB riducesse i suoi prestiti all’economia, l’impatto interno sarebbe limitato e comunque le altre banche potrebbero facilmente compensare. Non altrettanto vale per MPS. L’effetto sull’economia sarebbe devastante soprattutto su Toscana (già colpita dalla crisi di Banca Etruria) e Veneto (colpito dalla crisi di BPVi e Veneto Banca).

La seconda differenza implica che un bail-in dei subordinati ed anche dei creditori di DB non avrebbe conseguenze tragiche in Germania perché sarebbe assorbito nel portafoglio degli investitori istituzionali, mentre avrebbe effetti devastanti in Italia. Se il bail-in di €250 milioni di subordinati di Banca Etruria ha prodotto un suicidio, molta disperazione, ed una fuga dai depositi bancari, cosa potrebbe causare il bail-in di €2,8 miliardi di subordinati di MPS?

Qui di seguito i link ai precedenti articoli della Rubrica “Alla Luce del Sole”:

– Salvare le banche per far ripartire l’economia
– L’importanza di un Buon Piano di Successione e il Ruolo del Consiglio di Amministrazione 
– Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia
– Cosa fare per evitare che il “decreto banche” diventi solo un regalo alle banche
– Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori
– Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi 
– Le Responsabilità della Consob sulle Obbligazioni Subordinate
– Gli stipendi degli AD e quei paracadute troppo grandi

 

 

È il momento di un “TARP all’Italiana” per salvare le banche / To save banks the time has come for an Italian TARP

Article written for Il Sole 24 Ore – Articolo scritto per Il Sole 24 Ore
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Why we need an “Italian TARP” / Perché servirebbe un “TARP all’Italiana”
Why I support an Italian Tarp, but I opposed the U.S. one

 

Winston Churchill amava ripetere che si poteva contare sul fatto che gli americani facessero sempre la cosa giusta, dopo aver esaurito tutte le alternative possibili. Per il governo italiano si tratta di una speranza, più che di una certezza. L’unica certezza è che tutte le alternative per salvare il sistema bancario italiano sono state già esplorate senza successo. E che il tempo stringe. L’incertezza sul reale valore dei crediti deteriorati nei bilanci delle banche sta producendo una crisi generalizzata di fiducia nel sistema bancario, che potrebbe avere effetti devastanti. Per evitarla rimane solo un intervento diretto dello stato nel capitale delle banche. Non è una raccomandazione che ripeto a cuor leggero, ma a mali estremi, estremi rimedi. E certo i mali oggi sono estremi.

Il motivo per cui sono arrivato già da tempo a questa raccomandazione è l’esperienza diretta che ho avuto della crisi americana del 2007-2008. Anche in quel caso, si cercò prima di creare un fondo per acquistare i mutui tossici (la versione americana dei nostri crediti deteriorati), poi di farli comprare allo stato, alla fine si capì che l’unica soluzione era immettere capitale pubblico nel sistema bancario.

Questa soluzione ha numerosi vantaggi. Primo, si fa molta più strada con gli stessi soldi. Grazie all’elevata leva finanziaria delle banche gli stessi fondi investiti in azioni possono indirettamente comprare quasi 20 volte l’ammontare di crediti deteriorati. Secondo, è molto più rapida. Se lo stato non vuole strapagare per i crediti deteriorati e rimetterci molti soldi, deve organizzarne in modo molto serio l’acquisto. Non esiste il tempo per farlo. Terzo, permette maggiori meccanismi di protezione dei contribuenti. Il contribuente americano ha finito per guadagnarci dall’intervento dello stato nelle banche avvenuto nel 2008.

In un mondo ideale questo intervento dovrebbe essere effettuato dal Tesoro italiano. Siccome non viviamo in un mondo ideale e le regole europee ci proibiscono un tale intervento prima di aver effettuato un bail-in pari all’8% dell’attivo bancario, l’unica soluzione possibile è fare questo intervento tramite la Cassa depositi e prestiti (Cdp), che è fuori dal perimetro dello Stato. Nel colmo della crisi del 2008 ad investire non ci fu solo il Tesoro americano, ma anche Warren Buffet, che guadagnò profumatamente. Se l’intervento avviene a condizioni di mercato non solo l’Italia si mette al riparo da critiche dell’Europa, ma protegge anche i suoi contribuenti.

Per funzionare, questo intervento deve essere rapido e deve essere decisivo. Per essere rapido deve essere basato su regole semplici e facilmente verificabili. Al contempo deve proteggere i soldi dei contribuenti, senza violare i diritti degli attuali azionisti. Raggiungere tutti questi obiettivi contemporaneamente è difficile ma non impossibile, facendo tesoro dell’esperienza americana.

Innanzitutto, capiamo l’entità del problema. Ci sono circa 200 miliardi di crediti deteriorati. In media questi crediti sono valutati al 40%, ma il mercato ritiene che valgano solo il 20%. Quindi un’iniezione di capitale pari a 40 miliardi è in grado di assorbire le perdite anche nell’ipotesi peggiore e quindi tranquillizzare i depositanti e gli obbligazionisti.

La Cdp dovrebbe quindi impegnarsi ad investire in ogni banca una cifra pari al 20% dei crediti in sofferenza. Il segreto è immettere capitale sotto forma di azioni “preferred” convertibili in azioni ordinarie. Il vantaggio delle preferred americane, rispetto alle nostre privilegiate, è che sono redimibili da parte della società emittente ad un valore predeterminato. Se la banca è sana, può facilmente nei mesi successivi emettere azioni ordinarie sul mercato e riacquistare le preferred emesse, tutelando il valore degli azionisti esistenti. Se invece la banca non è solida, questo capitale servirà di garanzia.

Le preferred sono subordinate a tutti i titoli di debito (compresi i bond subordinati), ma hanno priorità rispetto al capitale azionario esistente. Quindi i contribuenti non vanno a proteggere gli azionisti, ma solo i depositanti e gli obbligazionisti. Se le perdite sono elevate, gli azionisti esistenti sono spazzati via e le preferred diventano azioni ordinarie.

Per evitare che i banchieri se ne approfittassero, le preferred americane avevano tre clausole importanti. Primo, proibivano il pagamento di qualsiasi dividendo alle ordinarie fino a quando le preferred non erano state riacquistate. Secondo, ponevano dei limiti molto rigidi (e molto bassi) ai compensi del management. Terzo, contenevano un warrant (ovvero il diritto a comprare ulteriori azioni ad un prezzo prestabilito al di sopra dell’attuale prezzo di mercato). Questo garantiva al contribuente parte del beneficio dell’operazione in caso di successo. Dovremmo anche noi seguire quest’esempio.

Nel caso americano le preferred erano prive dei diritti di voto fino a quando non erano convertite, perché si temeva un’eccessiva ingerenza dello stato nell’allocazione del credito. Ovviamente questo problema esiste anche in Italia, ma – data la qualità inferiore della corporate governance italiana – esiste anche il rischio che il management approfitti dei soldi dei contribuenti. Per questo penso sia un buon compromesso assegnare alle preferred il diritto di nominare l’intero collegio sindacale e il presidente del consiglio di amministrazione, lasciando agli attuali azionisti il diritto di gestire la società, almeno fino a quando le preferred non sono convertite.

Ovviamente esiste anche un problema politico. Negli Stati Uniti l’intervento statale ha prodotto come reazione il Tea Party e – in qualche modo – ha creato il consenso per un personaggio come Donald Trump. Come evitare che questo succeda in Italia?

Da un lato bisogna spiegare quale è oggi l’alternativa: il caso Etruria moltiplicato per 100. L’intervento statale non è quindi per salvare i banchieri, ma per salvare i depositanti e tutti coloro ai quali sono stati rifilati i bond bancari “sicuri”. Dall’altro bisogna fugare anche il minimo dubbio che questa manovra sia fatta per salvare i soliti noti. Per questo contestualmente all’investimento deve essere varata una commissione d’inchiesta, composta non da parlamentari, ma da esperti indipendenti. Questi dovranno accertare le possibili responsabilità di persone e istituzioni e riportare in modo pubblico al Parlamento nel giro di 9 mesi.

In questo difficile momento il governo non deve avere paura di agire: l’inazione sarebbe una colpa ben maggiore. Non deve neppure temere che i cittadini non capiscano. Se opportunamente informati, sono più che capaci di capire e oggi più che mai meritano rispetto e fiducia. L’importante è non mentire loro dicendo che è tutta colpa del Regno Unito. La Brexit è stata sola la famigerata scintilla, tutto il resto è di produzione nazionale.

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Winston Churchill loved to say that the Americans would alway do the right thing — after having exhausted all other possible alternatives. For Italy’s government and its banks, this is a hope more than a certainty. The only certainty is that every possible alternative to save the Italian banking system has been explored, unsuccessfully. And that time is short. Questions as to the real value of deteriorated credit on bank balance sheets is producing a generalized crisis of confidence in the banking system that could end up being devastating. To avoid it, the only option is direct intervention in the capital situation of banks. It’s not a recommendation that I offer with a light heart — but desperate times call for desperate measures. And desperation there is.

The reason why I came to this conclusion some time ago is the first-hand experience I had with the US crisis of 2007-2008. In that case as well, the first attempt was to create a fund to acquire toxic debt (the American version of our deteriorated loans), then to have the state buy them. In the end, it became clear that the only solution was to inject public capital into the banking system. 

In an ideal world, this would be carried out by the Italian Treasury. Since we don’t live in an ideal world, and EU rules forbid a move like that before having carried out a bail-in for 8% of bank assets, the only possible solution is to go through the Cassa depositi e prestiti (CDP) outside the perimeter of the state. 

First of all, we understand the size of the problem — about €200 billion worth of deteriorated credit valued at 40%, while the market insist on valuing it at 20%. So a capital infusion equal to €40 billion would be able to absorb the losses even in the worst case scenario, thus calming account holders and bond holders.

Thus the CDP should commit itself to invest in every bank a figure equating to 20% of non performing loans. The secret is to issue the capital in the form of “preferred” convertible shares. The advantage of U.S. preferred shares compared with ours is that they are redeemable by the issuer at a predetermined value. If the bank is healthy, it can easily, over successive months, issue ordinary shares on the market to re-acquire the preferred shares it issued, protecting the value of existing shares. If, instead, the bank is not healthy, this capital can serve as a guarantee. 

The preferred shares are subordinate to all debt (including subordinated bonds) but they have priority over existing shares. So this doesn’t protect shareholders, but only account holders and bond holders. If losses are high, existing shareholders are swept away and preferred shares become ordinary shares. 

To avoid bankers profiting, US preferred shares are bound to three important clauses. First, it’s prohibited to pay any form of dividend on ordinary shares until the preferred are reacquired. Second, there are rigid (and very low) limits on management compensation. Third, they contain a warrant (the right to purchase additional shares at a predetermined price that is above the current market price). This guarantees the taxpayer part of the benefit of the transaction if it succeeds. We need to follow that example. 

In the US case, the preferred shares had no voting rights until they were converted, because there was fear of an excessive interference in credit allocation. Obviously, this problem also exists in Italy but — given the inferior quality of Italian corporate governance — there’s also a risk that management would profit from taxpayer money. That’s why I think it was a good compromise to assign to the preferred shares the right to name the entire board of auditors and the chairman of the board, leaving current shareholders the right to manage the company, at least until the preferreds are converted. 

There’s obviously a political problem. In the US, government intervention produced the Tea Party in reaction and, in a way, created a degree of consensus around a personality like Donald Trump. How can we avoid that happening in Italy? 

On one hand, it’s necessary to explain what the alternative is:the Etruria case times one hundred. State intervention isn’t meant to rescue bankers but to save account holders and all those who were sold supposedly “secure” bank bonds. And on the other hand, there must be no shadow of a doubt that the move was meant to protect the usual suspects. So there should be an investigatory commission set up, composed not of politicians but of independent experts. They must determine the potential responsibility of people and institutions and bring their findings publicly to Parliament within nine months. 

At this difficult time, the government should not be afraid to act: inaction would be a much greater fault. Nor should it fear that Italian citizens won’t understand. If appropriately informed, they are more than able to understand and today, more than ever, they deserve respect and trust. The important thing is not to lie to them by saying that it’s all the U.K.’s fault. Brexit was only the famed spark, all the rest is locally produced.

 

Brexit o Remain, per salvare l’Europa dobbiamo cambiare l’Unione Europea

Testo dell’articolo pubblicato il 18.06.2016 su “Il Sole 24 Ore”,

Più che qualsiasi calcolo economico, l’essenza del dibattito nel Regno Unito sull’uscita dall’Unione Europea (la famigerata Brexit) è contenuta nei versi di “Hotel California” degli Eagles : “Correvo verso l’uscita, dovevo trovare il passaggio per tornare indietro, dove ero prima. ‘Rilassati’ – mi disse il guardiano notturno – ‘Siamo programmati solo per ricevere. Puoi fare il check-out in qualsiasi momento, ma non puoi mai andartene’.”

I britannici stanno correndo verso l’uscita cercando un ritorno ad un passato che non esiste più. Anche se dovessero votare il check out dall’Unione, sarebbero costretti, da ragioni commerciali e geografiche, a convivere con molte regole dell’Unione Europea, se non addirittura ad adottarne di meno vantaggiose in negoziazioni bilaterali in cui l’Unione avrebbe il coltello dalla parte del manico. Perché allora circa la metà degli elettori del Regno Unito (almeno prima della tragica uccisione della deputata laburista Jo Cox) voleva andarsene?

Il motivo principale è la mancanza di qualsiasi ideale nella campagna a favore dell’Europa. La colpa non è solo del primo ministro Cameron, mai un euroentusiasta, ma dell’Europa stessa.  Cosa rappresenta oggi l’Europa? Non semplicemente un mercato, altrimenti non ci sarebbe alcun motivo per tener furori la Turchia. Non un idem sentire: non facciamo che insultarci a vicenda utilizzando i peggiori stereotipi nazionalistici. Non un meccanismo di difesa comune contro i grandi pericoli che ci minacciano a livello globale: i francesi sono i primi a voler un esercito separato. Neppure una comunità in divenire: non solo i britannici, ma neppure i francesi o i tedeschi vogliono oggi un’unione politica. L’Europa è un grande progetto in mezzo al guado: incapace di andare avanti, timoroso di andare indietro, difeso a spada tratta solo dall’apparato cui questo progetto fornisce di che vivere. È uno status quo, poco amato, ma troppo difficile da cambiare. Come si fa a creare una campagna per sostenere un’istituzione senza più una carica ideale?

L’unico mezzo è la paura dell’alternativa. E proprio sulla paura si è concentrata la campagna degli europeisti. Più i sondaggi sollevavano la possibilità di una Brexit, più venivano diffusi scenari apocalittici in caso questa opzione dovesse avere il sopravvento. L’ultimo (del ministro delle Finanze britannico) è che in caso di Brexit le imposte aumenteranno subito di 30 miliardi di sterline per coprire il buco provocato dall’uscita. In un’analisi dei costi e benefici economici, il Regno Unito ha più da perderci che da guadagnarci se esce dall’Unione Europea. Ma non si tratta di effetti catastrofici. Certo se la City finanziaria dovesse spostarsi a Parigi, Francoforte o Milano, Londra perderebbe molto. Ma già lo si era detto se il Regno Unito non fosse entrato nell’euro, e poi non è successo. Gli scenari prospettati dagli europeisti sono talmente apocalittici da destare nei britannici – che hanno sempre avuto un salutare spirito bastian contrario – un rigetto per l’Europa, ed un’attrazione fatale per la Brexit.

Ma c’è un altro aspetto della battaglia per la Brexit che ci deve far pensare. I britannici sono sempre stati diffidenti di un’Europa unita, perché hanno paura che sia unita con i principi sbagliati. Come nel 1988 ricordò in un famoso discorso a Bruges l’allora primo ministro britannico Margaret Thatcher, senza il sacrificio dei soldati del Regno Unito “l’Europa si sarebbe unificata molto prima, ma non nella libertà e non nella giustizia.”

Un’Europa più alcuna senza spinta ideale è condannata al fallimento, ma un’Europa senza Regno Unito è destinata a rafforzare l’egemonia tedesca.

La diffidenza della Thatcher non era certo contro il libero mercato europeo: era sospettosa di un’Europa che voleva essere molto più di un mercato, senza avere le istituzioni democratiche per farlo. La Thatcher perse il posto per il suo antieuropeismo e la sua opposizione alla moneta unica. Ma oggi è vendicata. Quasi nessun britannico oggi vorrebbe essere nell’euro e circa la metà non vuole fare più parte di un Unione dove a decidere è sempre più un Consiglio di Ministri intergovernativo a trazione tedesca. Negli Stati Uniti d’America esistono regole costituzionali molto precise per evitare che lo stato di New York decida per tutti. In Europa no. Questa egemonia tedesca, sempre meno bilanciata dalla Francia, giustamente preoccupa i britannici. Ma dovrebbe preoccupare maggiormente noi. Senza il contrappeso del Regno Unito, l’egemonia tedesca sull’Europa diventerebbe sempre più totale. E i primi a perderci saremmo noi.

Che vinca la Brexit o no, speriamo questa serva da campanello d’allarme. Per salvare l’Europa dobbiamo cambiare l’Unione Europea. Questa Europa, senza più alcuna spinta ideale, è condannata al fallimento.

I miei tre punti per l’Agenda per l’Italia

Sabato scorso ho partecipato al panel conclusivo del workshop Ambrosetti a Cernobbio, in cui gli spunti emersi dai precedenti interventi venivano sintetizzati ed elaborati in una “Agenda per l’Italia”, di fronte al Ministro dell’Economia Padoan. La stampa non era ammessa, quindi per correttezza mi limiterò a riassumere solo il mio intervento, tacendo sui contributi degli altri relatori, Valerio De Molli e Nouriel Rubini.

Io ho individuato nella situazione italiana tre fattori di debolezza: una deflazione internazionale, dei problemi strutturali preesistenti alla crisi finanziaria e una crisi bancaria.

Cominciando dalla crisi bancaria, su cui la capacità di intervento del governo italiano è maggiore, il problema è duplice: da un lato bisogna risolvere l’incertezza che sta attanagliando alcune grandi banche e che rischia di asfissiare l’economia reale; dall’altro bisogna farlo in un modo che sia politicamente compatibile, evitando di scatenare quella (giusta) rabbia popolare che tanto ha fatto per destabilizzare il sistema politico americano dopo la crisi del 2008 e di cui vediamo ancora ora le conseguenze. Ben venga quindi un ruolo della CDP come investitore di ultima istanza negli istituti in difficoltà che non riescono a reperire capitali sul mercato, ma a due condizioni. La prima è che i termini siano simili ad un fallimento per tutte le parti coinvolte (inclusa la possibilità di revocatoria fallimentare), tranne i creditori.  La seconda è che ci sia una commissione d’inchiesta su come e perché queste banche sono entrate in crisi senza che i meccanismi di allerta (sia a livello societario che istituzionale) funzionassero.

Se questa commissione venisse istituita, io mi sono offerto di guidarla per il compenso simbolico di 1 euro.

La crisi strutturale riguarda l’incapacità del nostro sistema di aumentare la produttività, ovvero il prodotto per ora lavorata. Recenti studi internazionali dimostrano che solo metà della produttività di un Paese è dovuta alla quantità totale di capitale e lavoro investiti, il resto è determinato da come sono allocati questi fattori. A questo fine è cruciale la flessibilità di trasferire questi fattori da un’azienda ad un’altra. Negli anni passati, l’enfasi è stata sulla flessibilità del fattore lavoro. È giunto il momento di focalizzarsi sulla flessibilità del fattore capitale.  Questo significa anche favorire il trasferimento di risorse da aziende meno produttive ad aziende più produttive.

Un ruolo cruciale in questa riallocazione gioca il settore bancario. A questo fine le riforme delle Popolari e delle BCC sono state un passo in avanti, così come lo è stata la riforma della legge fallimentare. Ma si può fare di più. In particolare è necessario migliorare la tutela degli investitori di minoranza: senza questa tutela nessun imprenditore è disposto a fondersi o a trasferire le risorse della propria azienda in un’azienda in cui a comandare è un altro. Una Consob più attiva è un passo essenziale in questa direzione.

La terza debolezza riguarda una situazione internazionale in cui c’è un eccesso di risparmio. Per motivi demografici, l’Occidente vuole risparmiare molto. Data questa offerta di risparmio il tasso di interesse reale di equilibrio dovrebbe essere negativo. Ma in presenza di una bassa inflazione e di un limite (tra lo zero e il -0.5%) cui possono scendere i tassi di interessi nominali, il mercato tende a riequilibrarsi distruggendo risparmio attraverso una recessione. Esistono due politiche per rimediare a questo problema: un finanziamento monetario del deficit, che faccia aumentare l’inflazione, o un aumento del deficit pubblico che riduca il risparmio aggregato. Entrambe queste politiche sono proibite dalle regole dell’eurozona, regole che non possono essere facilmente rinegoziate.

Il governo ha una responsabilità di porre questo problema all’Europa. In verità, questo governo ha il merito di essere stato, nei confronti dell’Europa, più critico dei precedenti. Ma lo ha fatto in modo troppo timido e troppo isolato, spesso usando le sue critiche come scusa per chiedere maggiore flessibilità sul deficit. Deve condurre invece una battaglia di principio e formare una coalizione contro l’egemonia culturale della Germania.

Fighting German cultural and economic hegemony in Europe / La strada (mai battuta) per evitare l’Eurogermania

Articolo pubblicato il 14.01.2016 su “Il Sole 24 Ore”

In early 2014, I wrote a pamphlet on Europe. My hope was to help inspire the creation of a different European policy by the new government. Italy was (and still is) divided between radical anti-Europeanists and uncritical pro-Europeanists. My position was simply that Italy has no future outside of Europe, and Europe has no future if it doesn’t change. To facilitate this transformation, Italy has to change not only its own domestic policy, but also that of Europe.

Today Europe is completed under the thumb of German hegemony. The Germans have succeeded in the difficult goal of elevating their national interest to economic principles and moral value. They insist on the right principle of price stability, but they do so because Germany’s greater wage flexibility allows them to “devalue” their prices, exporting their unemployment. They preach the just principle of bank bail-in, because they have already rescued their own troubled banks. They support the need for budgetary rigor (necessary for highly indebted countries like Italy), because they have already made their adjustment and for Germany increased demand would only result in higher inflation.

In other words, Germany has managed to strengthen its economic hegemony through a very strong cultural hegemony and now uses this cultural hegemony to further strengthen its economic hegemony at the expenses of firms form other European countries, Italy first. It has succeeded in this endeavor not only thanks to its friends, but above all thanks to its enemies. If the alternative to German rigor is expansion of the budget, which believes that growth is generated by printing money, how can you not be pro-German? If the alternative to banks’ bail-in is the socialization of losses produced by corrupt bankers, how can you not be pro-German? In other words, if the only alternative to German ruling is the Venezuela of Chavez and Madauro, or Kirchner’s Argentina, any sensible person would prefer German ruling. But why must this be the only alternative?

The hope outlined in my book was to fight German hegemony with a different idea of Europe. An idea that is based on serious economic principles, drawing logical conclusions even when they are not in Germany’s favor. For example, any economist worthy of this title will admit that a monetary union is not sustainable without a fiscal union. The first, and easiest, step towards a fiscal union is a European unemployment insurance. Why was the creation of such a mechanism not at the heart of European policy? The same reasoning applies to a common deposit insurance. Finally, the first country to violate European rules is Germany, which does nothing to reduce its heavy trade surplus vis-a vis its European partners. Why European meetings are not focusing on the violation of this rule?

Renzi’s extraordinary electoral victory in May 2014, combined with the rotating EU presidency starting in June 2014, gave the young prime minister a unique opportunity to fight this battle. As main country in Southern Europe, Renzi could coalesce the other Mediterranean countries in need of aid around this idea. As main social democratic party, Renzi could drag the German SPD into supporting this idea, a social initiative the SPD would have found difficult to oppose.  As the main barrier against anti-European populism, Renzi could have sold this idea to Chancellor Merkel as well, making her understand that defeat on this front would have resulted in a defeat of Europe. To do so, however, Renzi would have to be extremely rigorous on the budget deficit to show that the battle was not an excuse, but a battle of principle.

Renzi preferred a different path. He preferred to cozy up to Merkel by not raising these objections, even siding with her against the rebel Greeks, not realizing that soon we will risk the same fate. He preferred silence in exchange for a few more decimals of deficit, to spend on purely electoral maneuvers, such as the 500 euro bonus to eighteen year olds to spend on culture.

Unfortunately the operation was short-lived. The political flirtation with Merkel did not last the space of a morning. The credit he had in Europe, for having won an election by a huge margin and for not being Berlusconi, was exhausted quickly and Renzi found himself to lock horns with Merkel. This tension stems from divergent national interests, but above all from our Prime Minister’s desire to pursue electoral opponents on their own ground. Today Renzi plays the anti-German card, but he does so from a position of weakness, not strength.

To gain credibility, Renzi should no task for flexibility within the logic that Germany has made hegemonic; he should expose the contradictions within the German logic. If a common currency is sustainable only with a fiscal redistribution, to which form of fiscal redistribution Germany agrees to? Bail-in rules are good only if there is a European deposit insurance, until Germany agrees to that, we suspend the application of bail-in rules.  Which actions is Germany undertaking to reduce its trade surplus?

To take this stand, however, Renzi needs to be credible on the fiscal front.  Otherwise he risks the same fate as Berlusconi. In which case he will be unable to invoke the excuse of a mysterious international conspiracy; he will have only himself to blame for his short-term policies.

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Agli inizi del 2014 scrissi un pamphlet sull’Europa. La mia speranza era di aiutare l’elaborazione di una diversa politica europea da parte del nuovo governo. L’Italia era (ed è) divisa tra antieuropeisti radicali ed europeisti acritici. La mia posizione era semplicemente che l’Italia non ha futuro al di fuori dell’Europa, ma l’Europa non ha futuro se non cambia. Per facilitare questa trasformazione, l’Italia deve cambiare non solo la propria politica interna, ma anche quella nei confronti dell’Europa.
Oggi l’Europa è completamente succube dell’egemonia tedesca. I tedeschi sono riusciti nel non facile obiettivo di elevare il proprio interesse nazionale a principio economico e valore morale. Insistono sul sacrosanto principio della stabilità dei prezzi, ma lo fanno perché la maggiore flessibilità dei salari tedeschi permette loro di “svalutare” i loro prezzi, esportando la loro disoccupazione. Predicano il giusto principio del bail-in, perché le loro banche in difficoltà le hanno già aiutate. Sostengono la necessità di un rigore di bilancio (necessario per i paesi fortemente indebitati come l’Italia), perché hanno già effettuato il loro aggiustamento e per loro una maggiore domanda avrebbe come conseguenza solo una maggiore inflazione in Germania. 
In altre parole, la Germania è riuscita a rafforzare la sua egemonia economica con una fortissima egemonia culturale ed ora usa questa egemonia culturale per rafforzare ulteriormente la propria egemonia economica a scapito delle imprese degli altri paesi europei, Italia in testa. La Germania è riuscita in questo non solo grazie ai suoi amici, ma soprattutto grazie ai suoi nemici. Se l’alternativa al rigore tedesco è l’espansionismo di bilancio, che crede che la crescita si generi stampando denaro, come non si può essere filo tedeschi? Se l’alternativa al bail-in è la socializzazione delle perdite prodotte da banchieri corrotti, come non si può essere filo tedeschi? In altre parole, se l’unica alternativa al dominio tedesco è il Venezuela di Chavez e Madauro o l’Argentina della Kirchner, qualsiasi persona assennata preferisce il dominio tedesco. Ma perché questa deve essere l’unica alternativa? La speranza delineata nel mio libro era quella di combattere l’egemonia tedesca con una idea diversa di Europa. Un’idea che si basasse su seri principi economici, traendone le logiche conseguenze, anche quando queste non erano favorevoli alla Germania. Ad esempio, qualsiasi economista degno di questo nome ammette che un’unione monetaria non è sostenibile senza un’unione fiscale. Il primo, più facile, passo verso un’unione fiscale è una assicurazione europea contro la disoccupazione. Perché non rendere la creazione di tale meccanismo il fulcro della nostra politica europea? Altrettanto vale per un’assicurazione comune sui depositi. Per finire, il primo Paese a violare le regole europee è proprio la Germania, che non fa nulla per ridurre il suo pesante avanzo commerciale nei confronti di tutti i partner europei. Perché non incentrare i meeting europei sulla flessibilità su questo problema? 
La straordinaria vittoria elettorale di Renzi nel maggio 2014, unita alla presidenza di turno dell’Unione Europea, dava al giovane Presidente del Consiglio un’occasione unica per combattere questa battaglia. Come maggior paese del sud Europa, Renzi poteva coalizzare gli altri paesi mediterranei, bisognosi di aiuti, intorno a questa idea. Come maggior partito dell’area socialdemocratica, Renzi poteva trascinare in questa battaglia anche la SPD tedesca, che si sarebbe trovata spiazzata a combattere un’iniziativa sociale come un sussidio alla disoccupazione. Come principale argine al populismo antieuropeo, Renzi poteva vendere questa idea anche al cancelliere Merkel, facendole capire che una sua sconfitta su questo fronte avrebbe comportato una sconfitta dell’Europa. Per fare questo, però, Renzi avrebbe dovuto essere rigoroso sul deficit pubblico, per dimostrare che la sua battaglia non era una scusa, ma una battaglia di principio. 
Renzi ha preferito una strada diversa. Ha preferito ingraziarsi Merkel non sollevando queste obiezioni, anzi schierandosi con lei contro i ribelli greci, non capendo che rischiamo presto la stessa sorte. Ha preferito il silenzio per giocarsi qualche decimale in più di deficit, da spendere in manovre puramente elettorali, come i 500 euro di bonus culturale ai diciottenni. 
Purtroppo la manovra ha avuto vita breve. Il flirt politico con Merkel non è durato che lo spazio di un mattino. Esaurito rapidamente il credito che aveva in Europa per avere stravinto un’elezione e per non essere Berlusconi, Renzi si è trovato rapidamente in contrapposizione con la Germania. Questa tensione nasce da interessi nazionali divergenti, ma nasce soprattutto da un desiderio del nostro Presidente del Consiglio di inseguire gli avversari elettorali sul loro terreno. Oggi Renzi gioca la carta anti-tedesca, ma lo fa da una posizione di debolezza, non di forza. Per acquistare credibilità non deve chiedere concessioni all’interno della logica che la Germania ha reso egemonica (maggiore flessibilità rispetto al patto di stabilità), ma deve esporre le contraddizioni all’interno della logica tedesca. La moneta comune è sostenibile solo con una redistribuzione fiscale. A quale tipo di redistribuzione fiscale è disponibile la Germania? Le norme sul bail-in sono giuste solo se esiste un’assicurazione europea sui depositi, fino a che la Germania non accetta questo principio, noi sospendiamo l’applicazione del bail-in. Quale iniziative si impegna a fare la Germania per ridurre il proprio avanzo commerciale? Per prendere queste posizioni, però, Renzi deve essere credibile sul fronte fiscale. Altrimenti rischia di fare la stessa fine di Berlusconi. Nel qual caso non potrà neppure invocare a scusa una fantomatica congiura internazionale, avrà solo da rimproverare se stesso e la sua politica di breve respiro.

 

Perché è necessaria un’agenzia a difesa dei risparmiatori

Testo dell’articolo di Luigi Guiso e Luigi Zingales pubblicato il 3.01.2016 su “Il Sole 24 Ore”

Il fallimento di quattro piccole banche locali è un fenomeno circoscritto, ma rischia di avere ripercussioni più vaste se contribuisce ad aumentare la sfiducia dei risparmiatori. Quando la sfiducia prevale si rischia di fare di ogni erba un fascio, non distinguendo tra le molte banche solide e poche pericolanti. Nel frattempo la sfiducia rischia di aumentare. Per evitare che questo succeda bisogna garantire al risparmiatore che si affaccia allo sportello trasparenza e comprensibilità – come ha ricordato sul Sole Roberto Napoletano. Come possiamo consentire ai risparmiatori italiani di mantenere la fiducia nel nostro sistema di risparmio?

Il primo passo è riconoscere la ragione della sfiducia. La sfiducia è la risposta agli inganni finanziari direttamente sperimentati o osservati tramite i media. Ma rischia di essere accresciuta dalla consapevolezza che in Italia nessuna autorità è preposta specificamente alla protezione del risparmiatore.

Non lo è Consob che accanto alla «tutela degli investitori», annovera la «stabilità e il buon funzionamento del sistema finanziario». Ancor meno lo è Banca d’Italia che ha come mandato principale la stabilità del sistema bancario.

Questo non vuol dire che a queste due istituzioni, in particolare alla Consob, non siano stati assegnati vari compiti a difesa dei risparmiatori. Ma significa che entrambe non hanno la difesa dei risparmiatori nel loro Dna. Sarebbe sciocco pensare di poter risolvere questo problema semplicemente rimpiazzando i vertici dei due istituti. È la cultura di entrambe queste istituzioni che andrebbe cambiata. Ma non è possibile cambiarla senza cambiare la loro missione fondamentale e questo sarebbe pericoloso. Il buon funzionamento dei mercati finanziari e la stabilità del sistema bancario sono obiettivi essenziali, che non possono essere eliminati e vanno anzi rafforzati. Ergo la necessità di una nuova istituzione unicamente dedicata alla difesa dei risparmiatori

È la conclusione cui sono arrivati gli Stati Uniti dopo la crisi del 2008, quando dovettero affrontare un simile crollo di fiducia. Crearono un’autorità per la Protezione finanziaria dei consumatori (Consumer financial protection bureau, Cfpb), la cui funzione è di «rendere le regole più efficaci, farle rispettare in modo coerente ed equo, e di … mettere i consumatori nelle condizioni di prendere un maggiore controllo sulla loro vita economica».

Continua a leggere l’articolo sul sito de “Il Sole 24 Ore”

Leggi altri articoli di Luigi Zingales sul tema “Banche”

Perché ora sostengo una moratoria (condizionata) del bail in

Urlare “al fuoco, al fuoco” senza motivo in un teatro affollato non è solo da irresponsabili: è un crimine. Se però esiste un principio di incendio, svignarsela alla chetichella, senza avvertire nessuno è altrettanto criminale. Quando si tratta di crisi bancarie, invece che di teatri in fiamme, si aggiunge il problema che il grido “al fuoco, al fuoco” può causare l’incendio stesso o almeno il suo propagarsi. Un motivo per essere più prudenti, ma non per essere muti e ciechi di fronte ai focolai esistenti. Questo è il dilemma che hanno oggi di fronte giornalisti e opinionisti: calmare la gente a costo di mentire (e di coprire le malefatte passate) o dire la verità, con il rischio di far precipitare la crisi?

A peggiorare ulteriormente la situazione c’è chi soffia sul fuoco da entrambi i lati. Da un lato c’è chi copre i focolai esistenti, per mantenere lo status quo e occultare i misfatti passati.  Dall’altro, c’è chi – per farsi pubblicità o per motivi politici – aumenta l’allarme dichiarando che tutti i depositi sono a rischio, non capendo (almeno si spera che non lo faccia con dolo) che in questo modo è funzionale alla preservazione dello status quo: maggiore è il rischio di una crisi globale, maggiori saranno le pressioni per coprire tutto.

Nel mio piccolo, io cerco di percorrere una strada diversa, dicendo la verità – almeno quella che io ritengo sia la verità – senza scadere nell’allarmismo.  Proponendo vie d’uscita che ritengo eque ed efficaci. Potrò sbagliarmi, ma sempre con un unico interesse in mente: quello del Paese. Data questa importante premessa, ora vi spiego perché ho scritto con Luigi Guiso un pezzo sul Sole 24 Ore (qui il testo) a favore di una moratoria (condizionata) sul bail in e perché l’ho scritto solo il 30 di Dicembre.

Tutte le banche italiane sono fortemente indebolite da 7 anni di crisi. Data la severità della crisi è sorprendete che ci siano ancora banche sane, non che qualcuna sia malata. Ma la crisi economica non è l’unico motivo della crisi bancaria. Molte banche si sono indebolite con prestiti clientelari e hanno occultato per anni le perdite, senza che la vigilanza di Banca d’Italia avesse il coraggio di esporre il problema. Ma se le banche sono sopravvissute nonostante tutto, è anche perché hanno sempre piazzato una grossa quota dei loro titoli alla clientela, spesso a tassi d’interesse inferiori a quelli di mercato. In altre parole hanno abusato della fiducia dei depositanti, con il silenzio compiacente di Consob e Bankitalia che, in nome della stabilità del sistema, non hanno avuto paura di sacrificare i risparmiatori (alla faccia della Costituzione). Sia Guiso che io abbiamo denunciato questo, ciascuno per le proprie competenze: vedi qui e qui .

Sia il trasferimento della supervisione dei maggiori istituti a Francoforte che le nuove regole del bail in hanno avuto il beneficio di mettere in luce la gravità del problema. Come ho scritto nel 2014 e nel 2015,  è grazie alla vigilanza di Francoforte che sono emersi i crediti dubbi in Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Ed è grazie alla pressione delle nuove regole di bail in che le perdite delle quattro banche recentemente fallite non sono state scaricate sui contribuenti.  Per questo non solo non mi sono opposto alle regole europee, ma le ho anche sostenute. E continuo a sostenere che – in un mondo in cui i bond bancari sono detenuti da investitori istituzionali e la banca centrale fa bene il suo mestiere di prestatore di ultima istanza – le regole di bail in (opportunamente completate da un’assicurazione europea sui depositi) siano giuste.

Purtroppo non siamo in questo mondo. La Germania si rifiuta di approvare un’assicurazione europea sui depositi e questo acuisce il sospetto che quando la BCE dovrà intervenire da prestatore di ultima istanza con le banche italiane, la Germania opporrà il veto. Come se non bastasse, molte banche italiane continuano a piazzare i loro titoli alla clientela. In questo contesto le perdite sui subordinati non sono che l’antipasto. Il rischio di perdite sui bond diventa reale e i tassi di interesse sui bond quotati delle banche a maggiore rischio lo stanno riflettendo. Questo aggiustamento è salutare, ma se fatto in modo repentino rischia di uccidere il malato. Come ho scritto nel mio articolo con Guiso, nel peggiore (e meno probabile) dei casi rischia di creare una corsa agli sportelli che uccide il nostro sistema bancario, nel migliore (e più probabile) di bloccare i prestiti all’economia per un paio d’anni, uccidendo qualsiasi speranza di ripresa.  Questa situazione è precipitata dopo il fallimento delle quattro banche regionali e dopo il rifiuto della Germania di introdurre un’assicurazione europea sui depositi. Per questo oggi, con l’informazione esistente, non sarei professionalmente onesto se non mettessi in luce i rischi che l’Italia corre e non farei adeguatamente il mio mestiere di economista se non proponessi delle soluzioni, anche quando non mi piacciono esteticamente, se rappresentano il male minore.

Alcuni hanno visto nella mia richiesta di una moratoria, un desiderio di coprire gli errori passati delle banche e della vigilanza bancaria. È vero il contrario. Più il panico si diffonde e più ci verrà detto che non si possono investigare gli errori passati per non minare la fiducia nel sistema. Io penso che si debba mettere temporaneamente in sicurezza il sistema bancario e permettere ad una vera commissione di inchiesta di far piena luce sui comportamenti passati. Sono stato il primo a chiederla e continuo a sostenerne la necessità. Ora il Presidente del Consiglio Renzi l’ha promessa e deve mantenere questa promessa. Ne va della sua credibilità politica.

L`Italia chieda la moratoria sui bail-in

Testo dell’articolo di Luigi Guiso e Luigi Zingales pubblicato il 30.12.2015 su “Il Sole 24 Ore

Dal primo gennaio entreranno in vigore in tutta Europa le regole del cosiddetto bail-in. Queste regole, che in caso di fallimento di una banca impongono delle perdite anche agli obbligazionisti ordinari, sono salutari quando, come nel caso degli altri Stati europei, le obbligazioni bancarie sono detenute da investitori istituzionali ben diversificati. Ma sono devastanti quando queste obbligazioni sono detenute dai piccoli risparmiatori al posto dei depositi, come è il caso dell’Italia.

Nell’approvazione a tempo di record della normativa europea non si è tenuto conto di questa diversità italiana e questo errore rischia di affossare la nostra debole ripresa.
La differenza tra il fallimento delle quattro banche popolari avvenuto a novembre ed eventuali fallimenti futuri è che ad essere coinvolti non saranno solo gli obbligazionisti subordinati, ma anche i detentori di obbligazioni ordinarie: una platea che in Italia è molto più rilevante, sia per numero di persone coinvolte che per importanza tra le fonti di finanziamento delle banche. In Italia, le obbligazioni bancarie sono presenti nei portafogli delle famiglie con frequenza tripla di quella dei CCT, dei fondi comuni, e delle stesse obbligazioni corporate. Dopo i depositi sono lo strumento di risparmio più diffuso in Italia, al pari dei Bot.
Non solo i futuri bail-in toccheranno molte più persone, andranno ad incidere su una quota molto più importante della raccolta bancaria. Ad esempio, per una banca come Intesa-SanPaolo, al 30 settembre scorso i subordinati rappresentavano solo il 3,8% della raccolta diretta, contro il 24,9% delle obbligazioni ordinarie.
Intesa-SanPaolo non è un’eccezione: sono molte le banche per cui le obbligazioni ordinarie rappresentano più del 30% della raccolta, soprattutto tra le banche piccole. È questa una conseguenza del modo in cui le banche italiane si finanziano da ben prima del bail-in: raccogliendo risparmio attraverso la vendita di obbligazioni direttamente alla clientela, anziché collocarle presso investitori istituzionali come avviene negli altri paesi europei. Anche quando le obbligazioni bancarie sono emesse sul mercato, spesso la maggior parte dei titoli vengono collocati presso la propria clientela: durante la crisi fino all’8o% delle emissioni. Negli altri paesi, le obbligazioni bancarie vengono collocate perlopiù presso assicurazioni, fondi comuni e fondi pensione, molto poco sviluppati in Italia.
Il fallimento delle quattro banche ha reso palpabile a tutti i risparmiatori che le obbligazioni bancarie non sono più uno strumento assimilabile ai depositi come pensavano (o gli avevano fatto intendere) fino a un mese fa. Ma questo cambio di opinioni, sebbene serva per cogliere meglio la realtà, è causa di preoccupanti conseguenze. La percezione del rischio su questi strumenti ne accresce il rendimento. Questo effetto deve giustamente verificarsi. Ma la paura che oggi pervade i risparmiatori e la sfiducia nei confronti delle banche in generale, non solo di quelle fallite, stanno esasperando l’innalzamento dei tassi. Questo effetto è maggiore per quelle banche che sono più simili a quelle fallite ma è presente anche nelle altre. La naturale conseguenza è che le banche dovranno adottare politiche di erogazione dei prestiti più conservative e accrescerne il costo. È una pessima notizia per un’economia prostrata da anni di recessione, difficoltà di finanziamento e banche con bilanci appesantiti da sofferenze.
Questo quadro potrebbe notevolmente aggravarsi se nei mesi a venire dovesse rendersi necessario risolvere con le nuove regole anche solo la crisi di una banca. Sicuramente il governo e la Banca d’Italia faranno di tutto per evitare questa possibilità. Grazie alla forza della loro pressione morale, riusciranno a convincere altre banche a salvare gli istituti a rischio. Ma queste iniziative avrebbero l’effetto collaterale di utilizzare i bilanci delle banche buone per salvare quelle cattive, invece che fare prestiti all’economia. Non è certo quello di cui l’Italia ha bisogno oggi.

È necessario che il governo faccia presente a Bruxelles la diversità della situazione italiana. L’anomalia va sanata, ma non può esserlo nel giro di un mese e non può essere sanata a costo di paralizzare l’economia italiana. Occorrerebbe una norma transitoria che in cambio dell’obbligo di non collocare le obbligazioni di una banca presso la clientela della banca stessa esentasse l’Italia dal bail-in per un periodo temporaneo (12-18 mesi). Il governo dovrebbe negoziare questa transizione con le autorità di Bruxelles, oggi ancora più insistentemente di quanto fatto senza successo durante il disegno delle regole del bail-in. Non si tratta di ribellarsi alle regole europee ma di pretenderne una realistica implementazione, che tenga conto delle diversità italiane. Il portafoglio delle famiglie italiane non può essere riallocato in due mesi senza creare una grande tensione sui mercati. I nostri rappresentanti a Bruxelles non hanno fatto presente questo problema con la dovuta forza, né è stato capito dai politici che hanno acriticamente votato a favore del bail-in sia al Parlamento europeo sia in quello italiano.

È sicuramente nell’interesse dell’Italia, ma è anche nell’interesse dell’Europa, contenere non solo il rischio che possa nascere un altro focolaio di crisi bancaria, ma anche una contrazione del credito in Italia. Una sospensione temporanea metterebbe al riparo i risparmiatori dal rischio immediato di subire il costo del bail-in e darebbe loro un po’ di tempo per rivedere gli investimenti. Nel frattempo il governo avrebbe anche il tempo per rivedere le regole per la protezione dei risparmiatori, per assicurarsi che quanto accaduto non possa accadere più, anche dopo la fine della sospensione temporanea. In un prossimo articolo ci occuperemo di come questo possa essere fatto.

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Lettera inviata al Sole 24 Ore da Intesa Sanpaolo – Rapporti con i media

Gentile Direttore, 
con riferimento all’articolo pubblicato sul Il Sole 24 Ore del 30 dicembre con il titolo “L’Italia chieda la moratoria sui bail in” a firma Luigi Guiso e Luigi Zingales si fa notare che le obbligazioni Intesa Sanpaolo presenti nei depositi amministrati della propria clientela della Banca dei Territori è inferiore al 5% della raccolta totale diretta.
Si aggiunge inoltre che la quota delle obbligazioni Intesa Sanpaolo posseduta dalla nostra clientela retail in Italia rispetto al totale delle attività finanziarie della clientela è pari al 2,1%.


Risposta di Luigi Guiso e Luigi Zingales

Ringraziamo Intesa Sanpaolo per la precisazione. Premesso che non contraddice nulla di quanto da noi scritto, sottolineiamo tre aspetti. 1) Siamo contenti che Intesa Sanpaolo cominci una tradizione di disclosure, che auspichiamo diventi la norma per tutti. Ci auguriamo anche che Intesa Sanpaolo faccia una disclosure retrospettiva per dimostrare quanto diversa è dalle altre banche che – come abbiamo scritto – durante la crisi hanno collocato fino all’80% delle loro obbligazioni presso la loro clientela. 2) Lodiamo Intesa Sanpaolo per aver applicato nei fatti la separazione tra consulenti finanziari e attività collocate che noi chiediamo per legge. Visto il suo comportamento virtuoso, ci auguriamo che Intesa Sanpaolo si faccia promotore di questa regola per tutti. 3) Al fine di identificare il rischio imposto ai clienti non è sufficiente dire che “la quota delle obbligazioni Intesa Sanpaolo posseduta dalla nostra clientela retail in Italia rispetto al totale delle attività finanziarie della clientela è pari al 2,1%.” Quello che conta è quanti clienti di Intesa Sanpaolo hanno un portafoglio eccessivamente concentrato in titoli Intesa Sanpaolo. Siamo sicuri che in Intesa Sanpaolo anche questo numero sarà molto basso. Ma ci piacerebbe che fosse obbligatorio rivelarlo per tutte le banche: premierebbe una competizione virtuosa.

PS. Per errore nell’articolo abbiamo indicato come banche popolari le quattro banche fallite, Si tratta in realtà di una popolare e tre Spa partecipate da fondazioni bancarie.

Veneto e Vicenza: La Svolta Manageriale e il Futuro del Territorio

Testo dell’articolo pubblicato il 24.12.2015 su “Il Sole 24 Ore

Mentre a Roma si discute su chi abbia le maggiori responsabilità sul crack delle quattro popolari del Centro Italia, in Veneto l’economia soffre, anche di più del resto d’Italia. A soffocare ulteriormente l’economia veneta, che sta faticosamente cercando di riprendersi, è la crisi delle due principali banche venete: la Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca.

Troppo a lungo sfuggita alla vigilanza di Banca d’Italia, la crisi delle popolari venete è esplosa in tutta la sua gravita con la supervisione della Banca Centrale Europea (BCE), che ha costretto entrambe le banche a riconoscere il vero valore dei loro crediti e quindi a ricapitalizzarsi. La BCE ha anche fatto pressioni per un ricambio totale del management, che è stato facilitato anche dalla riforma delle popolari, voluta dal Governo Renzi.  Nonostante la volontà di ripresa del nuovo management delle due popolari, la domanda che ci si pone in Veneto è se la svolta sia arrivata troppo tardi, se non per le banche, almeno per l’economia.

Il crac delle quattro popolari del Centro Italia ha svegliato il mercato delle obbligazioni bancarie, anche non subordinate. Questo risveglio, estremamente salutare per il sistema, è molto costoso per le banche meno solide. Se i bond di Banca Intesa a due-tre anni hanno un rendimento dello 0,7%, quelli di Banca Desio all’ 1,3 %, Veneto Banca paga il 3,3% e la Banca Popolare di Vicenza il 5,1%. La differenza riflette il premio per il rischio che il mercato richiede. Il problema è l’effetto che tali tassi avranno sul conto economico delle popolari venete. Nonostante la buona volontà del nuovo management, come può una banca guadagnare sui prestiti se il costo marginale della raccolta per finanziare questi prestiti è al 5%? Per sopravvivere autonomamente le banche ad alto costo marginale della raccolta hanno solo due possibilità.

La prima è lanciarsi alla ricerca delle imprese più rischiose, disposte a pagare tassi così elevati. Se questa ricomposizione del portafoglio può abbellire i conti nel breve periodo, nel lungo finisce per devastarli. Soprattutto se – come è probabile – le imprese disposte a pagare quei tassi sono quelle sull’orlo del fallimento. L’alternativa è quella di ridurre drasticamente i prestiti all’economia, così da ridurre le esigenze di finanziamento della banca. Finanziando le imprese con i soli depositi (a costo pressoché nullo), BPVi e Veneto Banca possono tornare ad essere profittevoli. In entrambi i casi, però, a perderci è l’economia reale veneta. Non solo nel secondo caso in cui i prestiti si riducono, ma anche nel primo, in cui il credito viene diretto nei settori sbagliati, verso le imprese che stanno morendo, invece che verso quelle che nascono e vogliono crescere. A peggiorare il problema è la contemporaneità della crisi delle due principali banche venete. Se solo una delle due fosse in crisi, l’altra potrebbe compensare il declino dei prestiti della rivale, cercando di conquistare quote di mercato. Oggi questo è impossibile. Anzi, nel tagliare il credito le due popolari venete non hanno neppure la remora di perdere i propri clienti storici, perché i clienti non hanno dove andare. E per questo taglieranno di più.
Che fare?

L’idea di fondere le due banche – spesso ventilata a livello locale – sarebbe un disastro (in Veneto diremmo “peso el tacón del sbrego”). Le imprese venete si troverebbero di fronte ad un monopolista malato invece che a due, che in qualche modo devono competere. Il credito si farebbe ancora meno disponibile.

La scelta auspicabile è l’acquisizione da parte di altre banche, meno presenti sul territorio – una soluzione cui, almeno a parole, i vertici delle due popolari sono disponibili. Ma la capacità di assorbimento del settore bancario italiano è limitata. Già le quattro popolari del Centro Italia sono in vendita. Esistono in Italia due banche così liquide da poter comprarsi le due popolari venete senza aumentare eccessivamente la concentrazione del mercato dei prestiti bancari in Veneto? Ne dubito. Non rimane che l’opzione straniera. Da un lato potrebbe essere un bene. Data la scarsa capacità professionale dimostrata dai banchieri delle banche popolari italiani, l’immissione di management e procedure straniere potrebbe contribuire ad aumentare l’efficienza del mercato bancario italiano. Dall’altro lato, però, un’acquisizione straniera potrebbe avere ripercussioni negative – almeno nel breve periodo – sulla disponibilità del credito nel Veneto. Qualunque acquirente estero, informato sul livello di prestiti clientelari fatti dalle banche popolari, avrebbe la naturale reazione di bloccare il rinnovo dei prestiti fino a che non ha il pieno controllo della situazione. Ma questo può richiedere un paio d’anni. Con conseguenze molto negative sulla possibilità del Veneto di riprendersi.

L’unica soluzione è che le banche stesse introducano come requisito agli acquirenti una quota minima di reinvestimento dei depositi sul territorio. Per la Banca Popolare di Vicenza, che deve ancora trasformarsi in SPA, questo può essere fatto al momento della conversione. Per Veneto Banca, che si è già convertita, può essere introdotta come riforma statutaria. In entrambi i casi si tratterebbe del minimo che le due popolari possano fare per il territorio. Tutte le popolari si sono sempre vantate di essere “banche del territorio”, senza le quali il territorio stesso soffrirebbe. Oggi il territorio veneto soffre a causa della presenza di queste banche.

Se l’amore per il territorio è più di una foglia di fico per coprire prestiti clientelari, sarebbe opportuno che queste banche evitassero di coinvolgere nel loro declino l’economia locale, mettendosi rapidamente in vendita con la clausola di salvaguarda del territorio. Domani è troppo tardi.