Un grande economista mi ha detto che si può essere un buon economista o un buon politico, ma non entrambi (almeno non entrambi allo stesso momento). Il motivo non è perché tutti gli economisti siano incapaci di essere dei politici (anche se alcuni esempi potrebbero farlo pensare), o perché tutti i politici non siano in grado di capire di economia (anche in questo caso il dubbio è ragionevole). No, il motivo è molto più sottile. Nell’analisi dei problemi, l’economista antepone la logica economica a qualsiasi considerazione politica. Il politico, invece, analizza i problemi con una logica politica. Anche se non sempre, le due logiche sono spesso in contraddizione.
L’economista che comincia a pensare con una prospettiva politica, smette di essere un economista (o almeno un economista degno di questo nome) e diventa un politico, non in quanto candidato ad alcuna carica, ma in quanto sostenitore (“advocate”) di una parte politica. Coloro che vogliono aumentare la spesa pubblica sempre e comunque, da un lato, e coloro che vogliono invece ridurla, dall’altro, sono da lui visti come “buoni” o come “cattivi” a seconda della parte politica di cui è diventato sostenitore.
Questo manicheismo è in totale contraddizione con i principi base dell’economia, che ci insegnano che raramente la soluzione ottimale è ad un estremo. D’altra parte non occorre scomodare la moderna scienza economica, la stessa Bibbia ci ricorda che ”per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa.” Quindi anche per l’economista keynesiano più scatenato ci deve essere un momento per tagliare la spesa pubblica e viceversa. Se questo momento non arriva mai, allora uno non è più un economista, ma un politico, ovvero il sostenitore di un partito che si spaccia per economista.
Se anche gli economisti più noti e quotati scadono in questa discussione di politica economica “da stadio”, non possiamo certo lamentarci dei giornalisti e politici nostrani ossessionati dalla contrapposizione tra keynesiani e monetaristi, una distinzione superata da quasi 40 anni. Milton Friedman, uno dei padri del monetarismo, non è poi così distante dai keynesiani classici: entrambi si preoccupano di stimolare la domanda, l’uno con la politica monetaria, gli altri con la politica fiscale.
La vera distinzione oggi è tra chi enfatizza problemi di offerta e chi enfatizza problemi di domanda. Se è difficile aprire nuove imprese o se il capitale umano disponibile non è adatto alle nuove esigenze produttive, qualsiasi stimolo alla domanda aggregata si traduce in inflazione, con pochi o nessun beneficio occupazionale. Se una grossa fetta della popolazione non ha le risorse per acquistare beni e servizi, però, qualsiasi flessibilità strutturale non riesce ad indurre le imprese ad assumere perché senza domanda le prospettive di profitto non ci sono.
Come ha ricordato Draghi a Jackson Hole l’Italia soffre di problemi da entrambi i lati. Fare business nel nostro Paese è quasi un reato. Anzi è quasi più facile nel nostro Paese commettere un reato e rimanere impunito che aprire una nuova impresa. Questa rigidità ci penalizza fortemente e non può essere curata con politiche di domanda. Ma con una deflazione ormai in moto, negare che ci siano problemi di domanda sarebbe intellettualmente disonesto.
Questo non vuol dire che non esistano differenze di scuole economiche. Ci sono economisti che tendono ad enfatizzare maggiormente i problemi strutturali (io sono tra questi) ed altri (ad esempio Innocenzo Cipolletta) che tendono a vedere i problemi come problemi di domanda. Ma qualunque economista degno di questo nome riconosce che in Italia esistono forti problemi strutturali. E qualunque economista degno di questo nome riconosce che in questo momento abbiamo problemi di domanda.
Accusato di aver cambiato idea, Keynes rispose “Quando i fatti cambiano, io cambio opinione. Cosa fa lei?” In questo sono pienamente keynesiano.
Visti i successi che hanno ottenuto gli economisti che non sono stati in grado di prevedere un bel niente, mi chiedo di cosa parliamo quando parliamo di “scienza” economica. La realtà è troppo complessa per essere lasciata in pasto agli economisti.
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Il problema del keynesismo è anche legato all’orizzonte temporale che solitamente si predilige nel ponderare le decisioni, siano esse politiche che economiche;
lo slogan più de-responsabilizzante, brandito spesso e volentieri a sproposito da entrambe le categorie dei politici ed economisti, lo ha coniato lo stesso Keynes quando ha detto che “…nel lungo periodo siamo tutti morti”…
In realtà, è esattamente l’opposto: nessuno operatore economico prende decisioni solo sulla base delle esigenze del breve periodo, condannandosi così alla logica (perdente) che pretende di rincorrere la perenne emergenza, ma al contrario, nel lungo periodo si raccolgono i frutti (spesso avvelenati) delle dissennatezze e delle (mancate) decisioni del breve periodo…
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Sì, sì, guarda, è quello che ho detto anche io un sacco di volte e continuo a pensarlo.
Ma: nel lungo periodo siamo (quasi) tutti vivi, solo se non moriamo tutti subito!
E se un’impresa non ha domanda chiude anche se sarebbe sanissima in un contesto di domanda normale. E se un’impresa non ha domanda la pura assenza di red tapes non la induce a investire e ad assumere. Le riforme strutturali, per quanto desiderabilissime, non ci tirano fuori dalla fossa attuale. Oggi c’è un buco nero di domanda: questa è la grande emergenza EZ, che rischia di provocare debt-deflation, cioè una spirale che gonfia sempre più i debiti pubblici e privati.
Nel frattempo Schauble persegue il pareggio di bilancio pur con le infrastrutture tedesche in stato molto precario (e potrebbe finanziarsi a tassi negativi). La germania riduce l’import e aumenta l’export facendo da buco nero succhia domanda ed esportando deflazione. Al tempo stesso stringe la cinghia al collo di tutti gli altri paesi dell’eurozona con la pretesa di pareggio di bilancio e riduzione del debito nel bel mezzo di una grave depressione. Questo può solo provocare ulteriore perdita di PIL e di entrate, e quindi nuova austerity e via spiraleggiando.
Somma austerity self-defeating e debt-deflation e hai ricetta ideale per la bancarotta generalizzata.
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se in barattolo entra acqua, e viene succhiata per soddisfare la sete politica, il rubinetto versa poco ,per creare domanda… la terra si inaridisce, e non crea benessere…
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D’accordo con la sua analisi. Però penso che bisognerebbe aggiungere che l’euro mette in contrapposizione dualistica la risoluzione della domana e la risoluzione dei problemi strutturale, nel senso che o risolvi uno o risolvi l’altro. Questo a meno che, da un momento all’altro, non arrivi una gigantesca sorgente di domanda estera. Solo in tal caso si potrebbero risolvere entrambi i problemi insieme.
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Professore, non so se stava rispondendo al mio articolo: http://www.nextquotidiano.it/allimprovviso-tutti-keynesiani/
ma non era affatto una critica. Del resto, se avesse cambiato idea, cosa ci sarebbe di male? Solo gli stupidi non cambiano mai idea.
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Se rispondesse a te caro Guido, ti avrebbe classificato come politico e non come economista. Non ne sarei così felice.
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“Quando l’euro si schianta, io cambio opinione. Cosa fa lei?” Io divento noeuro della prima ora.
manca molto poco ormai.
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La differenza tra Politico ed’Economista e ben diversa.Il committente del politico è il popolo,che delega a farsi rappresentare e difendersi.L’economista deve pensare alo sviluppo economico tramite la politica e fare suggerimenti di crescita e sviluppo.
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