Mossa obbligata per salvare l’euro

Testo dell’articolo pubblicato su L’Espresso del 31.12.2014

Il 2015, anno quinto della crisi dell’eurozona, si apre nell’attesa di massicci acquisiti di titoli pubblici da parte della Banca Centrale Europea, il cosiddetto quantitative easing (QE). Tutti invocano questa misura, ma pochi la capiscono. Avverrà veramente a gennaio? Metterà fine alla crisi della moneta comune? Non sono certo un indovino, ma la teoria economica può aiutarci a rispondere.

Per sostenere il livello di scambi e quindi anche il livello di reddito, tutte le economie necessitano di una quantità di moneta proporzionale al livello del loro reddito. Quando la quantità di moneta disponibile è eccessiva, il livello dei prezzi sale (ovvero si genera inflazione). Quando la quantità di moneta in circolazione è troppo poca, i prezzi scendono (deflazione) e rischia di scendere anche il reddito (recessione). Per questo ogni banca centrale regola la quantità di moneta in modo da evitare entrambi gli estremi. La quantità di moneta in circolazione, però, non è rappresentata solo dalle banconote emesse dalla BCE ma anche da tutti i depositi bancari. Molti di questi depositi sono detenuti da imprese cui le banche stesse hanno aperto delle linee di credito. Quindi una parte importante della moneta è prodotta dal sistema bancario quando estende credito.
La crisi economica ed ancor più la crisi del sistema bancario, cui è stato giustamente richiesto di ricapitalizzarsi, hanno ridotto l’ammontare di prestiti bancari e quindi indirettamente l’ammontare di moneta in circolazione. Per ristabilirlo la BCE ha inizialmente abbassato il tasso di sconto. Essendo arrivata pressoché a zero, non ha che un’alternativa: comprare titoli in cambio di depositi presso la BCE. Così facendo aumenta il livello di depositi e quindi la quantità di moneta.

Se è così semplice perché la Bundesbank (ovvero la banca centrale tedesca) si oppone? Per due motivi. Primo, il sistema bancario tedesco è messo meglio di quello del Sud Europa. Quindi la moneta in circolazione in Germania è sufficiente a sostenere un reddito crescente, senza causare alcuna deflazione. Non rischiando molto, i tedeschi vedono solo l’aspetto negativo di un aumento dell’offerta di moneta: il rischio di un’inflazione leggermente più alta.
Il secondo motivo è più politico. Un acquisto massiccio di titoli pubblici (ivi inclusi quelli di governi del sud d’Europa) trasferisce un sostanziale rischio di credito sulle spalle della BCE e quindi pro quota sui contribuenti tedeschi. Si tratta, anche in forma lieve, di una integrazione fiscale che ne’ i tedeschi ne’ i francesi vogliono. Per di più, questo trasferimento attenua gli incentivi alla disciplina fiscale nel Sud d’Europa, aumentando le preoccupazioni tedesche che si tratti dell’inizio di continui sussidi al Sud.

Le preoccupazioni tedesche non sono infondate, ma sono usate strumentalmente. Se i tedeschi volessero venirci incontro, si potrebbero trovare soluzioni alternative. Un’economista americano, ad esempio, ha suggerito che invece di comprare titoli pubblici europei, la BCE compri titoli pubblici americani. Questo eliminerebbe il rischio di trasferimenti fiscali all’interno dell’Europa e non allenterebbe la pressione alla disciplina fiscale nel Sud Europa. In aggiunta, avrebbe l’effetto di svalutare l’euro rispetto al dollaro, aumentando le esportazioni dell’Europa.
Ci sono dubbi su quanto forte possa essere l’effetto espansivo di QE, soprattutto partendo da tassi di interesse sui titoli pubblici (anche periferici) molto bassi. La svalutazione del cambio è sicuramente il canale potenzialmente più importante. Ma molto si gioca sulla credibilità di una azione anche futura. Le divisioni trapelate all’interno del Consiglio della BCE non fanno che indebolire l’effetto potenziale di QE, tanto che alcuni pensano che le fughe di notizie siano una strategia tedesca.
Se approvato, QE non metterà fine alla crisi dell’area euro. Ma se non dovesse essere approvato, sarebbe un segnale devastante per il progetto europeo. Evidenzierebbe la mancanza di una volontà politica di salvare l’eurozona, mettendo in dubbio la sopravvivenza stessa dell’euro.
Di una sola cosa possiamo stare certi: il prossimo anno non ci sarà da annoiarci.