Chiunque vinca l’America non è più la stessa

Testo dell’editoriale pubblicato il 6.11.2016 su “Il Sole 24 Ore”.

A 36 ore dal voto, con 33 milioni di schede già consegnate, l’esito delle elezioni presidenziali americane sembra ancora molto incerto. Gli ultimi sondaggi danno i due candidati pressoché alla pari, mentre i siti di scommesse vedono Hillary Clinton in leggero vantaggio. Ma non sarebbe la prima volta che sbagliano. I sondaggisti sono molto più bravi a predire le preferenze politiche che la partecipazione al voto ed oggi le elezioni si vincono motivando i propri elettori a votare, non convertendo gli elettori altrui.  Come hanno sbagliato per la Brexit, c’è il serio rischio che i sondaggi sbaglino anche qui. La tensione è talmente alta che gli psicologi hanno notato un aumento degli attacchi di ansia tra i loro pazienti. Il mondo intero guarda con il fiato sospeso. Siamo veramente sull’orlo del baratro?

Penso proprio di no. Con tutta probabilità la Camera avrà una maggioranza Repubblicana e il Senato una Democratica. Quindi chiunque vincerà le elezioni presidenziali dovrà fare compromessi per governare. Uno svantaggio se si desidera un’azione di governo rapida ed incisiva, ma un grosso vantaggio se si teme che il Presidente possa prendere decisioni inconsulte (vantaggio da non dimenticare in tempi di riforme costituzionali). È proprio questa divisione dei poteri a rassicurarci che il danno potenzialmente prodotto da un presidente degli Stati Uniti sia limitato. Per questo, chiunque risulti eletto attuerà una politica fiscale più espansiva, una politica estera più isolazionista e avrà una maggiore riluttanza a firmare nuovi trattati di libero scambio.  Queste sono le indicazioni emerse durante le lunghe primarie e questa sarà la direzione di marcia del nuovo presidente chiunque esso sia. Giudici della Corte Suprema a parte, chi vincerà la corsa presidenziale non sarà così determinante per il futuro degli Stati Uniti e del mondo. Non per questo la campagna elettorale non lascerà un segno, anzi.

Il primo segno riguarda la massa di “deplorevoli”, come li ha chiamati Hillary Clinton, alla ricerca di una rappresentanza politica. Sono l’americano medio che non vede crescere il proprio reddito reale da quarant’anni, sono gli operai che vedono il loro lavoro eliminato e non hanno prospettive per riqualificarsi, sono i senzalavoro che si suicidano lentamente imbottendosi di medicine offerte dal servizio sanitario nazionale.  Quello stesso stato sociale che non li aiuta quando sono in difficoltà, distribuisce loro gratuitamente e copiosamente le medicine più pericolose, per la gioia dell’industria farmaceutica. Questi “deplorevoli” sono disposti a tutto pur di cambiare l’establishment di Washington, anche a votare per un candidato considerato deplorevole. Anzi più è considerato deplorevole dalla maggior parte dei media, e più lo sostengono, perché si identificano con lui. Che Trump vinca o no, questa massa ha assunto rilevanza politica e non la perderà facilmente.

Il secondo segno riguarda la fine dei partiti tradizionali come li abbiamo conosciuti. Il Partito Repubblicano si era basato su una coalizione tra una élite pronta a sacrificare la tolleranza sui diritti civili per la difesa dei suoi interessi economici ed una base pronta a sacrificare il suo naturale protezionismo ed isolazionismo, in nome della difesa dei tradizionali valori cristiani. Trump ha spezzato questa coalizione dimostrando che si può vincere le primarie rivolgendosi solo alla base.  Dopo questa rivelazione è difficile immaginare se e come il Partito Repubblicano possa sopravvivere senza rifondarsi completamente. Ma anche il Partito Democratico affronta una crisi esistenziale. Si era basato su una coalizione tra le minoranze etniche e una élite che aveva scoperto i benefici i benefici dell’interventismo statale per i grandi gruppi. Come lo scandalo delle email ha rivelato, questa élite non ha esitato a truccare le regole del gioco per far vincere il suo candidato a spese di Bernie Sanders. Se Hillary Clinton è così in difficoltà con un rivale come Trump vuol dire che i “deplorevoli” democratici e parte dei giovani l’hanno abbandonata.

Ma il cambiamento più rilevante riguarda l’atteggiamento degli Americani verso il proprio sistema politico. Nel 1960 Nixon riconobbe (senza alcun ricorso) la vittoria di Kennedy nonostante in Illinois avessero votato anche i morti. Dopo una battaglia giudiziaria, nel 2000 Gore riconobbe la vittoria di Bush in Florida per 154 voti, nonostante i dubbi sui voti espressi. Oggi da una parte Donald Trump mette in dubbio preventivamente i risultati delle elezioni se a vincere non sarà lui, sulla base di ipotetici brogli di cui non c’è alcuna evidenza. Dall’altra, Hillary Clinton mette in dubbio l’imparzialità ed indipendenza dell’FBI per coprire i propri errori. Se gli stessi leader accusano il sistema di essere truccato, come può l’americano medio fare diversamente?

Questa rischia di essere l’eredità più pesante di queste elezioni. Senza un’accettazione delle regole del gioco è impossibile per un presidente raccogliere il paese dietro di sé. E senza questa coesione è difficile governare. Noi italiani lo sappiamo fin troppo bene. Per questo le regole del gioco devono cambiare per riguadagnare credibilità, a partire dal modo in cui i finanziamenti elettorali sono raccolti. Difficile immaginare che, se eletti, questi candidati vadano in questa direzione. Ma se non lo faranno, a soffrire non sarà solo la democrazia americana, ma il mondo intero.


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Una Democrazia senza una Stampa Indipendente non funziona

Testo dell’articolo pubblicato il 25.09.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”, con il titolo “La (pericolosa) disaffezione degli americani per i media“.
Lo ripubblico qui a dibattito Clinton-Trump avvenuto, invitandovi a (ri)leggerlo anche alla luce dei commenti (pressoché unanimi) dei media su chi ne è risultato vincente. 

Domani sera (26 Settembre, ora americana) ci sarà il dibattito presidenziale più seguito della storia (si parla di 100 milioni di spettatori). A determinare tanto interesse, non c’è solo la natura eccezionale dei candidati: l’improbabile Trump con le sue incredibili sparate razziste e la prima donna candidato, sopravvissuta a più scandali del nostro Andreotti. L’evento è così importante perché potrebbe essere determinante per le elezioni. I sondaggi danno i candidati testa a testa e – più che in passato – molti elettori decideranno sulla base dell’opinione che si formeranno durante il dibattito. Il motivo è che non si fidano più dei media.

Un sondaggio effettuato regolarmente da Gallup ci mostra una discesa sorprendete: nel 2000 il 51% degli elettori americani si fidava dei media, con poca differenza tra Repubblicani, Democratici, ed Indipendenti. Oggi, solo il 32% si fida, con un’enorme variazione tra i tre gruppi: il 51% dei Democratici si fida dei media, contro il 30% degli Indipendenti, e il 14% dei Repubblicani. Non sorprende dunque che nelle primarie tanto più i media ridicolizzavano Trump, tanto più lui prendeva voti: con una fiducia verso i media così bassa, le loro critiche risultavano pubblicità gratuita. Anche gli Indipendenti che, come sempre, decideranno le elezioni, non sembrano fidarsi molto dei media, quindi saranno i dibattiti a determinarne il loro voto.

i giornalisti “amici” RICEVONO informazioni in anticipo, MENTRE quelli “nemici” non solo NON HANNO accesso alle fonti, ma sono spesso depistati.

Perché i cittadini americani hanno perso fiducia nei media? Ci aiuta a rispondere alla domanda un articolo pubblicato sull’ultimo numero di Scientific American. Contiene un’indagine sui rapporti tra media e l’agenzia governativa che controlla la sicurezza delle medicine e del cibo (FDA). Secondo Scientific American la FDA regola arbitrariamente l’accesso dei giornalisti alle informazioni per influenzare il contenuto dei loro articoli.  È la tattica perfezionata da Alastair Campbell, capo della comunicazione dell’allora primo ministro inglese Tony Blair. Ai giornalisti “amici” vengono fornite informazioni in anticipo, a quelli “nemici” non solo viene negato l’accesso alle fonti, ma sono spesso depistati. Una delle fonti spesso discriminate dalla FDA è Fox, la televisione ultraconservatrice. Questo potrebbe spiegare la scarsa fiducia dei Repubblicani.

A noi italiani queste interferenze sui media non sorprendono: sono sempre state all’ordine del giorno. Ma in America, la patria del giornalismo investigativo e del Watergate, risultano nuove ed inaccettabili. Sono il prodotto di un’ inversione del rapporto di forza tra media e poteri costituiti. Una volta i media erano profittevoli e potevano permettersi di mettere in ginocchio sia i presidenti (vedi Nixon) che le società (vedi il caso contro British American Tobacco). Oggi i media tradizionali, sull’orlo del fallimento, sono alla caccia disperata di scoop per sopravvivere e quindi sono in balia delle fonti.

Perché i Democratici continuano a fidarsi? Oggi il governo e tutte le principali imprese sostengono massicciamente la Clinton, per paura di cosa possa fare un candidato anti establishment. Non è tanto il suo razzismo a spaventarli, ma la sua ingovernabilità. Se eletto Trump potrebbe introdurre barriere doganali o liberalizzare l’importazione delle medicine dal Canada (dove costano una frazione di quello che costano negli Stati Uniti), perché non è stato finanziato dalle principali imprese. I “poteri forti” votano tutti per Hillary e per questo gli elettori non sfacciatamente Democratici non si fidano di quello che viene riportato dai media.

Purtroppo in questa spirale di sfiducia, a perderci è la verità dei fatti. Se gli elettori non si fidano dei media, chi garantisce che ad essere eletto non sia chi la spara più grossa? Per fortuna nelle elezioni presidenziali esistono i dibattiti televisivi e la posta in gioco è talmente alta da attirare l’interesse degli elettori. Ma per tutto il resto? Raramente gli elettori guardano i dibattiti tra senatori e quasi mai tra membri del Congresso. Una democrazia senza una stampa indipendente non funziona. Su questo noi italiani possiamo dare lezioni.


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Con Trump la scena Usa è cambiata per sempre

Articolo pubblicato su L’Espresso

Questa settimana [N.B.: l’articolo è uscito Venerdì 22 luglio 2016] Donald Trump viene incoronato candidato del Partito Repubblicano alla presidenza della Repubblica americana. Qualunque sia l’esito finale delle elezioni, questo evento cambia per sempre il panorama politico americano.  Dai tempi di Ronald Reagan i Repubblicani erano il partito della riduzione delle imposte, dello stato minimo, del libero scambio, e della protezione dei valori religiosi. Questa piattaforma elettorale aveva permesso al partito di vincere 5 delle ultime 9 elezioni presidenziali e di conquistare una solida maggioranza alla Camera e una (meno solida) al Senato. Questa piattaforma, però, aveva anche consegnato il partito nelle mani di pochi influenti donatori, più interessati al primo punto della piattaforma che a tutti gli altri. Prima delle primarie ufficiali, erano diventate di pragmatica le primarie dei donatori. Il magnate Sheldon Adelson – per esempio – riuniva a Las Vegas tutti i contendenti repubblicani, per decidere chi sarebbe stato il suo favorito e finanziarlo profumatamente. Ne risultava una competizione a chi proteggeva meglio l’interesse dei miliardari.

Nel bene e nel male Trump ha rivoluzionato questo processo. È stato in grado di vincere senza l’appoggio dei ricchi magnati ed è stato in grado di raccogliere i voti dello scontento almeno tra i bianchi. Uno scontento che dai tempi di Reagan è aumentato a dismisura perché una grossa fetta dell’elettorato non ha visto alcun aumento del reddito reale negli ultimi 40 anni.  Paradossalmente i più colpiti sono stati proprio i più ferventi sostenitori di Reagan: gli operai bianchi.

Nel fare questo riallineamento Trump ha abbandonato il sostegno al libero scambio, allo stato minimo, perfino ai valori religiosi, anche se la scelta del religiosissimo Mike Pence come vicepresidente è stata una chiara concessione a questa fetta dell’elettorato. Il Partito Repubblicano di Donald Trump è molto più vicino all’Ukip inglese e al Fronte Nazionale di Marine Le Pen che ai conservatori o a i gollisti.

Questo spostamento a destra apre nuove opportunità ma anche nuove sfide per il Partito Democratico. Per ottenere il sostegno esplicito di Bernie Sanders, Hillary Clinton ha fatto delle concessioni alla piattaforma elettorale del senatore del Vermont. Ma secondo un sondaggio di YouGov il 46% dei sostenitori di Sanders sarebbe ancora in dubbio se votare e se votare per la Clinton in novembre (il 14% ha addirittura detto che voterà Trump). Questo suggerisce alla Clinton di spostarsi verso il centro, dove ci sono molti Repubblicani disgustati da Trump. Non è chiaro se questo le convenga prima delle elezioni, ma sicuramente le converrà dopo se vince, perché dovrà governare con una Camera che molto probabilmente rimarrà Repubblicana (c’è più incertezza sul Senato). D’altra parte è quello che fece suo marito negli anni Novanta, con grande successo.

Ma questo spostamento favorirebbe ancora di più una radicalizzazione del Partito Repubblicano che – con o senza Trump – cercherebbe di catturare gli scontenti del Partito Democratico, diventando sempre più populista. L’unico ostacolo a questa strategia è il problema razziale. Il populismo di destra – non solo in Europa, ma anche in America – è sempre stato razzista ed in questo Trump non è un eccezione. Ma ricordiamoci che la maggior parte dei sostenitori di Bernie Sanders erano bianchi. E se non fosse per la violenta polemica che Trump ha scatenato sugli immigrati dal Messico, non sarebbe difficile ad un partito populista attirare il consenso degli ispanici. In altre parole ci sarebbe un serio rischio che il partito Repubblicano diventasse un partito Peronista.

Ovviamente c’è chi si sta adoperando perché questo non succeda. Reihan Salam e Ross Douhat, due autorevoli opinionisti Repubblicani, hanno appena scritto un libro che illustra quella che dovrebbe essere la nuova piattaforma per il Partito Repubblicano, alternativa al partito di Trump. Sognano un partito interrazziale, moderato, liberale. Ci piacerebbe pensare che la nuova anima del partito Repubblicano post Trump possano essere loro. Ma a meno di una sconfitta devastante di Trump è difficile da immaginare.

Cosa (non) cambierà, se Hillary Clinton diventerà presidente

Testo dell’intervista pubblicata sul Giornale di Sicilia il 28.07.2016

L’economista Zingales: «Obama lascia un Paese migliore di quello che ha trovato. C’è però un malessere diffuso nella classe media impoverita».
«Ma con Hillary nessuna vera svolta nella politica americana»

«Cosa cambierà, se Hillary Clinton dovesse diventare presidente? Temo niente!». Luigi  Zingales, l’economista italiano che insegna alla «Booth School of Business» dell’Università di Chicago, sta vivendo senza troppo entusiasmo «la stagione delle convention» negli Usa. Democratici a Philadelphia per incoronare l’ex senatrice dello Stato di New York, dopo che i repubblicani avevano fatto lo stesso con Donald Trump a Cleveland.

– Hillary Clinton, candidata della continuità?
«Nelle scelte di politica economica e politica estera Hillary Clinton non è molto diversa da Obama, né da George W Bush. L’unica cosa che cambierà veramente saranno i giudici della Corte suprema e quindi anche le decisioni sui diritti civili ed in particolare sui diritti delle donne, cui Hillary è molto sensibile. Ma Hillary Clinton non sembra essere molto sensibile all’impoverimento della classe media. Tanto che molti degli elettori di Sanders preferiscono non andare a votare piuttosto che votare per lei».

Disoccupazione in calo e Pil in aumento, ma anche stipendi che non crescono da anni e classe media in affanno. Obama lascia davvero in eredità un Paese che ha ormai alle spalle la crisi economica?
«In America gli effetti della crisi finanziaria del 2008 sono largamente superati, la disoccupazione è a livelli minimi ed entriamo nel settimo anno di crescita. Soprattutto vista dall’Italia, l’America sembra un sogno. Ma rimangono molti problemi strutturali, che predatano il 2008 e quindi non sono attribuibili ad Obama, ma che non sono stati ancora risolti. Tra i molti l’impoverimento relativo della classe media e l’aumento degli uomini al picco dell’età lavorativa che escono dalla forza lavoro, ovvero che hanno perso pure la speranza di trovare un lavoro. Ciononostante, Obama lascia un Paese migliore di quello che ha trovato».

– Nella convention repubblicana, Donald Trump ha affermato che «i redditi delle famiglie americane sono scesi e il debito nazionale raddoppiato». Argomenti da comizio?
«Nel suo discorso Donald Trump ha proiettato un’immagine eccessivamente cupa dell’America. Spesso lo ha fatto con un uso molto spregiudicato dei dati. Per esempio, è vero che il debito è raddoppiato in termini nominali, ma quello che conta è il rapporto tra debito e Pil e questo è salito “solo” dal 65 al 104 per cento. Per di più la forte crescita del debito è cominciata nel 2008-2009 a causa di una crisi finanziaria di cui Obama non è certo responsabile. Ma non tutto quello che dice è esagerato».

– Cioè?
«Lo sviluppo tecnologico e la globalizzazione hanno beneficiato molto di più alcuni che altri. Ad esempio, più del 50 per cento dei maschi americani non ha visto un aumento del proprio stipendio, in termini reali, negli ultimi 40 anni e questo rappresenta un problema. L’aspettativa di vita degli uomini bianchi ha smesso di crescere ed in alcune categorie è addirittura scesa. Questi sono segnali di un malessere diffuso e profondo».

– In un’intervista al “Giornale di Sicilia” l’ex capo della Associated Press in Italia, Victor Simpson, ha sottolineato come «sia colpa della propaganda politica se gli statunitensi pensano di stare male». Ha ragione?
«La propaganda politica sta esagerando sulla questione del crimine. Tranne Chicago e Baltimora, gli omicidi sono in netta diminuzione. Ma l’insoddisfazione della classe media è reale ed era stata ignorata fino ad ora. Un mio libro del 2012 che parlava di questi problemi fu largamente ignorato dal dibattito politico. E anche in questa campagna elettorale, se non fosse stato per Trump e Sanders, i problemi della classe media sarebbero stato ignorati».

– In Iraq e Siria, come altrove, gli Usa sono impegnati in costosissime missioni di guerra. Prevedibile un progressivo ritiro, anche solo per esigenze di bilancio?
«Sì e non solo per esigenze di bilancio, ma anche per un isolazionismo crescente negli Stati Uniti. Trump lo ha gridato alla convention: “America First”. Questo isolazionismo è sicuramente molto preoccupante per l’Europa. Se poi Trump dovesse diventare un alleato di Putin, per noi sarebbe un vero problema».

– Anni di recessione, ma anche di terrorismo e “sparatorie di massa”. Quanto e come è cambiato lo stile di vita americano?
«In eventi relativamente rari, come fortunatamente sono i crimini contro le persone, la gente reagisce più alle percezioni dei media che alla realtà. La città in cui vivo, Chicago, è molto violenta, ma per capire quanto lo fosse sono dovuto andare a vedere l’ultimo film di Spike Lee, perché la violenza è concentrata in alcuni quartieri. La violenza terroristica è disegnata per aumentare la percezione di insicurezza, quindi non stupisce che la gente reagisca di più di quello che dovrebbe».

– Quindi?
«Il rischio di morire in un attentato terroristico è minimo, ma non viene percepito come tale. Il rischio di morire in un incidente automobilistico è molto più elevato, ma non per questo evitiamo di guidare. Detto questo, non mi sembra che lo stile di vita in America sia cambiato. Gli americani sono solo più timorosi di viaggiare all’estero».

– Regno Unito, primo alleato europeo degli Stati Uniti. La “Brexit” imporrà un ripensamento dei rapporti con la UE?
«Non penso che gli Stati Uniti cambieranno la loro posizione nei confronti dell’Unione Europea a causa della Brexit. La mia preoccupazione è più come cambierà la UE senza il Regno Unito e come cambieranno i rapporti UE-USA se Trump dovesse essere eletto presidente».

Brexit e Trump: le radici della protesta sono simili (e l’intellighenzia si ostina a demonizzarle)

Articolo pubblicato su L’Espresso

Sarà per la “relazione speciale” con l’Inghilterra, sarà per il desiderio di sfruttare la vicenda a fini elettorali, ma negli Stati Uniti la Brexit ha occupato le prime pagine di tutti i giornali. Involontariamente, il miglior commento è stato formulato dal candidato repubblicano Donald Trump.

Appena arrivato nelle sue proprietà in Scozia, Trump ha twittato che i locali «stavano celebrando il voto. Si sono riappropriati del proprio Paese, come noi ci riprenderemo l’America». Peccato che gli scozzesi abbiano votato a favore di rimanere nell’Unione Europea e ora stiano pensando di indire un referendum per riprendersi veramente il proprio Paese, secedendo dal Regno Unito e restando nella Ue.

Il tweet è emblematico perché dimostra come in America (e forse non solo lì) ci sia un’enorme ignoranza, anche tra le persone più istruite, su cosa sia veramente Brexit e quali conseguenze possa avere. Ma è anche emblematico perché dimostra le emozioni prodotte da Brexit in America.

Prima ancora delle conseguenze economiche (che dipendono dal risultato di trattative molto complicate sul futuro delle relazioni tra Ue e Regno Unito), la Brexit ha avuto un forte impatto emotivo. Manda un forte segnale che il processo di integrazione non è irreversibile.

Se questo vale per l’Europa, può valere anche per gli Stati Uniti. Non a caso qualcuno in Texas parla di secessione. Una tentazione tanto più forte quanto più elevato sarà il prezzo del petrolio. Crea anche delle speranze che si possa fermare, se non invertire il processo di globalizzazione, un processo che ha prodotto nel complesso benefici economici, ma ha colpito in modo sproporzionato le classi medie.

Ma la connessione più forte con il voto su Brexit riguarda le polemiche sull’immigrazione. Anche se non è chiaro che il voto cambi la situazione, non c’è dubbio che il risultato sia stato in gran parte determinato da un fenomeno di rigetto nei confronti degli immigrati. Nelle aree dove erano maggiormente presenti, il voto per Brexit ha raggiunto l’80%.

Questo è il carburante che negli Stati Uniti ha alimentato il voto per Trump. Non a caso il ”New York Times” si affretta a sottolineare la differenza tra i due fenomeni, per paura che l’analogia trascini alla vittoria il candidato repubblicano. Ed è vero che l’America è molto più etnicamente diversa del Regno Unito e le minoranze – in particolare gli ispanici – detengono una quota di voti molto rilevante in Stati determinanti, come quello della Florida. È troppo tardi per salvare l’America bianca: quest’anno per la prima volta i bambini bianchi non sono la maggioranza nella coorte che entra in prima elementare.

Ma c’è un terzo aspetto, molto importante, che non viene sufficientemente sottolineato: il fallimento dei sondaggisti e dei mezzi di comunicazione di anticipare e capire il fenomeno Brexit. Questo fallimento è simile a quello visto negli Stati Uniti con Trump. Lo stesso partito repubblicano si è accorto del pericolo troppo tardi. Il motivo è molto semplice: entrambi questi voti di protesta nascono dalle periferie, dai colletti blu, dai meno abbienti, mentre i giornalisti – soprattutto in un mondo internet – sono diventati molto più urbani, cosmopoliti e completamente distaccati culturalmente dal mondo che ha votato Brexit, che è poi quello che sostiene Trump.

Tranne per i tabloid popolari in mano a Murdoch, tutta la stampa inglese sosteneva le ragioni dell’Unione Europea, al punto da considerare irrazionali (per non dire stupidi) i sostenitori della Brexit.

Non è diverso da quello che abbiamo sperimentato in Italia con Berlusconi. Ed è quello che sta succedendo negli Stati Uniti con Trump. Invece di capire le ragioni del dissenso e rispondere con delle proposte che possano sottrarre voti alla rivolta, l’intellighenzia americana continua a demonizzare Trump, aumentando il rischio che sia eletto presidente. Parafrasando Goya, si potrebbe dire che l’arroganza della ragione genera mostri. Ha generato Berlusconi. Ha generato Brexit. Ora dobbiamo assolutamente evitare un Trumpxit. Per il mondo avrebbe conseguenze infinitamente più serie.

La rabbia dei bianchi è benzina per Trump

Articolo pubblicato su L’Espresso

Il miliardario è molto popolare tra coloro che più hanno pagato la crisi economica. Ma la sua ricetta non li favorirà. E farà aumentare il deficit.

Un comizio di Donald Trump a Chicago è stato rinviato per disordini. A S. Louis si è tenuto nonostante i tafferugli. In North Carolina un sostenitore di Trump ha sferrato un pugno in faccia ad un manifestante di colore che veniva allontanato dalla polizia. Gli Stati Uniti non sperimentavano questo livello di violenza politica dalla lotta per i diritti civili dei neri. Ad essere arrabbiati, però, questa volta sono i bianchi. In un sondaggio dello Stigler Center (che io dirigo) dell’Università di Chicago, si vede che – per dato livello di reddito – i bianchi sono più arrabbiati per la situazione economica di quanto lo siano i neri. Tra i livelli di reddito basso (tra i 10 e i 25 mila dollari) il 46 per cento dei bianchi si dichiara arrabbiato o molto arrabbiato. Solo il 30 per cento dei neri risponde in questo modo. Lo stesso divario si presenta, anche se a livelli inferiori, tra i più ricchi (tra i 100 e i 200 mila dollari): il 30 per cento dei bianchi è arrabbiato, contro il 17 dei neri. Questa rabbia non è un fatto nuovo: nel 2012 gli arrabbiati erano il 47 per cento della popolazione, contro il 36 di oggi. Ma nel 2012 nessun candidato era riuscito a impersonare questa rabbia, oggi c’è Trump.

La rabbia dei bianchi meno abbienti nasce dalla disperazione. La competizione internazionale ha ridotto il loro reddito, mentre il progresso sociale – che ha introdotto maggiore parità razziale – ha ulteriormente minato le loro prospettive di mobilità sociale. Si sentono perduti e per questo sono attirati dalla prospettiva di un leader forte come Trump. Il suo slogan – rendi l’America di nuovo grande – è un messaggio in codice per i bianchi frustrati, suona come “riprendiamoci il potere dopo otto anni di presidenza di un nero”.

Slogan a parte, però, non è chiaro cosa Donald Trump voglia fare per eliminare il malcontento alla base di questa rabbia. Né il magnate si è sprecato molto a spiegarlo, limitandosi ad una sorta di “ghe pensi mi” di berlusconiana memoria. A differenza di Berlusconi, però, Trump non è entrato in politica per difendere le proprie aziende o ripararsi da possibili problemi giudiziari. Quindi se volesse potrebbe diventare il tribuno del popolo bianco arrabbiato. Ma lo vuole?

A giudicare dalla riforma fiscale proposta sembra di no. Trump vorrebbe portare l’aliquota per le imprese al 15 per cento e quella massima per le persone fisiche al 25, una riforma che favorirebbe i ceti più abbienti aumentando il deficit fiscale di quasi il 7 per cento del Pil.
Molto più indirizzata agli interessi della sua base elettorale è la politica commerciale. Dalle tariffe sulle importazioni cinesi, al muro contro gli immigrati, Trump vuole rallentare se non invertire il processo di globalizzazione. Le sue proposte rischiano di innescare una spirale protezionista in tutto il mondo, come accadde negli anni Trenta. Anche riuscendo ad evitare questa spirale, l’effetto complessivo sull’economia americana sarebbe negativo: le tariffe sull’import farebbero lievitare i prezzi, riducendo i salari reali dei lavoratori. A beneficiarne sarebbero solo poche categorie di operai, che vedrebbero ridursi il rischio di perdere il posto di lavoro. Ma questa è proprio l’essenza del populismo radicale: pur di favorire i ceti popolari è disposto a sacrificare il benessere complessivo.

Anche la politica estera isolazionista di Trump andrebbe a favore della sua base elettorale, che fornisce all’esercito la stragrande maggioranza di soldati (e di caduti). Se l’isolazionismo si traduce anche in una riduzione delle spese militari, il deficit fiscale verrebbe ridotto, ma mai abbastanza: il taglio delle imposte è più di due volte l’intera spesa per la difesa.

Per favorire le prospettive di reddito della sua base elettorale Trump potrebbe anche aumentare la spesa per infrastrutture: le costruzioni impiegano molta manodopera poco qualificata. Così facendo Trump finirebbe per favorire anche se stesso e le sue imprese di costruzioni, ma andrebbe ad accentuare il problema del deficit.
Deficit a parte, non penso che le politiche economiche di Trump avrebbero effetti devastanti sull’economia americana. Li avrebbero però per gli equilibri politici mondiali, a cominciare dal Medio Oriente. A perderci saremmo soprattutto noi europei.

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