Lessons for Italy from the Greek Crisis / Lezioni per l’Italia dalla Crisi Greca

The first lesson Italy should learn from the Greek crisis is that a unilateral exit from the euro is too costly. Only time will provide us with the exact figures of what these six months of uncertainty and these three weeks of bank holiday have cost the Greek economy. Yet, these costs are only the appetizer of what would have happened with a Grexit. Even the risk-loving Varoufakis when he stared at the abyss of Grexit advised against it. And all these disasters happened with a referendum that did not even consider the possibility of an exit from euro on the ballot. What would happen in Italy if – as the Five Star Movement seems to want – we will have a referendum on the euro itself?

The second and third lessons can be learned by looking at Tsipras’ main mistakes in negotiations. The first – unforgivable – mistake is not to have a Plan B. Unforgivable because he tried to bluff and when his bluff was caught, he was toast. Doubly unforgivable because he had six months to prepare it. But does a Plan B possibly exist? Prepared appropriately a currency change is possible, albeit risky. The problem is that it works better the more efficient is the State bureaucracy and the more secret the plan remains. On both fronts it seems to me that the chances it might work in Italy are very slim. Another Plan B for Greece would have been to threaten to take over the Bank of Greece and to flood the market with the 10 euro banknote printed in Greece. The flooding would have had a double purpose: providing liquidity to Greek banks and scary Germans about the risk of potential inflation in the eurozone. The other European countries could react by outlawing the 10 euro banknotes, but it would be costly for their citizens who hold them. In this respect Italy has an advantage; the Bank of Italy prints the 20 and 50 euro notes. It is difficult to outlawing both of them contemporaneously. But this is pretty crazy stuff. If you want to play tough – like Tsipras did – you need to be prepared to go down this path. Alternatively, you beg for clemency.
The second – more comprehensible – mistake made by Tsipras is that he misestimated Germany’s dedication to Europe.

Until recently Germany would have never had the courage to risk destroying the European project to pursue its internal policy goal. Not any more. Schäuble’s position made it clear that the protection of German taxpayers is more important than any other consideration. This new German attitude changes forever the political dynamics in Europe.

Italy, thus, should abandon any dream of unilateral exit from the euro. After Tsipras’s experience no reasonable politicians will lead Italy down this path and beware of the unreasonable ones. The feasible options –in my view — are only three.
The first is to accept the status quo and realize that our economic policy is decided in Germany and that Germany is not willing to change it to for our needs. Thus, let’s abandon false hopes about introducing some flexibility in the rules, ain’t going to happen. While this approach could be a winning one for conservative parties, like the Spanish PPE, it is suicidal for any party of the Left. We see what happened to the Greek Pasok and what is happening to the Spanish PSOE. If the Italian PD wants to avoid extinction, it better not choose this option.
The second is to attempt to get Germany out of the euro. As I explained in my book Europa o no (Europe or not), an exit from the euro of a country with a stronger currency is much more doable. Unfortunately, the country with a stronger currency has no interest in doing so, unless it is threatened with a possible worse outcome.
What is worse for the Germans? Inflation. Thus, promoting a revision of the European Central Bank’s mandate, so that price stability is defined as an consumer price inflation that is on average 4% (instead that less than 2% as it is today), would probably start to freak the Germans out. The problem is that the theoretical bases for this move are not so strong and it will be easy for the Germans to resist this attempt.

The last and better option is to conduct a battle to make the euro sustainable. The first step in this direction is to introduce some automatic transfers that will help the countries in temporary recession, e.g. a European unemployment insurance mechanism. All economists worth this name agree on the necessity of such transfers. Nobody objects in principle. All the objections are short-sighted national political objections. There is no better time to overcome them. During the last euro meeting, the French President Hollande has broken the Paris-Berlin axis and he is in desperate need to re-establish himself as a European leader. To this purpose there is nothing better than pushing a proposal for a European unemployment insurance system with Italian support. The chances of seeing it implemented are increased by Germany’s temporary political weakness. Schäuble’s very aggressive stand at the last Brussels meeting has raised many criticisms in Germany and even more abroad. Germany cannot afford to dismiss such a proposal out of hand, especially if it cannot ride on the high horse of moral and economic principles, but has to expose its short-sighted national egoism.

This is the moment. If not now, when?

——————————

La prima lezione che l’Italia dovrebbe trarre dalla crisi greca è che un’uscita unilaterale dall’euro è troppo costosa. Solo il tempo ci fornirà le cifre esatte di quanto questi sei mesi di incertezza e tre settimane di chiusura delle banche siano costate all’economia greca. Tuttavia, tali costi sono solo l’antipasto di quello che sarebbe successo con la Grexit. Persino uno propenso al rischio come Varoufakis di fronte all’abisso della Grexit l’ha sconsigliata. E tutti questi disastri sono accaduti con un referendum che sulla scheda elettorale neanche accennava alla possibilità dell’uscita dall’euro. Cosa succederebbe in Italia se – come sembra volere il Movimento 5 Stelle – avessimo un referendum sull’euro?

La seconda e terza lezione possono essere apprese guardando agli errori principali di Tsipras nei negoziati. Il primo – imperdonabile – errore è di non avere un piano B. Imperdonabile perché ha tentato di bluffare e quando il suo bluff è stato scoperto, lui è finito. Doppiamente imperdonabile perché aveva sei mesi per prepararlo. Ma poteva esserci un Piano B? Se preparato in modo appropriato, un cambio di moneta è possibile, per quanto rischioso. Il problema è che tanto meglio funziona quanto più efficiente è la burocrazia dello Stato e più segreto rimane il piano. Su entrambi i fronti, mi sembra che le possibilità che possa funzionare in Italia siano molto scarse. Un altro Piano B per la Grecia sarebbe stato quello di minacciare di prendere la Banca di Grecia e di inondare il mercato con banconote da 10 euro stampate in Grecia. Questa emissione massiccia di banconote da 10 avrebbe avuto un duplice scopo: fornire liquidità alle banche greche e spaventare la Germania circa il rischio di inflazione potenziale nella zona euro. Gli altri paesi europei avrebbero potuto reagire vietando le banconote da 10 euro, ma ciò sarebbe stato costoso per i loro cittadini che le detenevano. A questo proposito l’Italia ha un vantaggio: la Banca d’Italia stampa le banconote da 20 e 50 Euro. È difficile metterle entrambe contemporaneamente fuori legge. In ogni caso sarebbe una cosa da pazzi. Se si vuole giocare duro – come Tsipras ha fatto – è necessario essere pronti ad andare avanti su questa strada. In alternativa, si implora clemenza. Il secondo – più comprensibile – errore fatto da Tsipras è che ha fatto una stima sbagliata della dedizione della Germania al progetto europeo.

Fino a poco tempo la Germania non avrebbe mai avuto il coraggio di rischiare di distruggere il progetto europeo per perseguire un suo obiettivo di politica interna. Ora non più. La posizione di Schäuble ha chiarito che la protezione dei contribuenti tedeschi è più importante di qualsiasi altra considerazione. Questo nuovo atteggiamento tedesco cambia per sempre le dinamiche politiche in Europa. 

L’Italia, dunque, dovrebbe abbandonare qualsiasi sogno di uscita unilaterale dall’euro. Dopo l’esperienza di Tsipras nessun politico ragionevole porterà l’Italia su questa strada e bisogna stare attenti a quelli irragionevoli. Le opzioni possibili – dal mio punto di vista – sono solo tre.
La prima è quella di accettare lo status quo e rendersi conto che la nostra politica economica è decisa in Germania e che la Germania non è disposta a cambiarla per le nostre esigenze. Così, abbandoniamo false speranze di introdurre una certa flessibilità nelle regole, non accadrà. Anche se questo approccio potrebbe essere vincente per i partiti conservatori, come il PPE spagnolo, è suicida per i partiti di Sinistra. Vediamo cosa è accaduto al PASOK greco e quello che sta accadendo al PSOE spagnolo. Se il PD italiano vuole evitare l’estinzione, è meglio non scegliere questa opzione.
La seconda è quella di cercare di far uscire la Germania dall’euro. Come ho spiegato nel mio libro “Europa o no”, l’uscita dall’euro di un paese con una valuta più forte è molto più fattibile. Purtroppo, il paese con una valuta più forte non ha alcun interesse a farlo, a meno che non sia minacciato da qualcosa di peggio. Cos’è peggio per i tedeschi? L’inflazione. Quindi, promuovere una revisione del mandato della Banca centrale europea, in modo che la stabilità dei prezzi sia definita come l’aumento armonizzato dei prezzi al consumo del 4% (invece di meno del 2% come è oggi), inizierebbe probabilmente a far perdere le staffe ai tedeschi. Il problema è che le basi teoriche di questa mossa non sono così forti e sarà facile per i tedeschi resistere a questo tentativo. 

L’ultima e migliore opzione è quella di condurre una battaglia per rendere l’euro sostenibile. Il primo passo in questa direzione è quello di introdurre dei trasferimenti automatici che aiutino i paesi in recessione temporanea, come, ad esempio, un’assicurazione comune europea contro la disoccupazione. Tutti gli economisti degni di questo nome concordano sulla necessità di tali trasferimenti. Nessuno è contrario in linea di principio. Tutte le obiezioni sono miopi obiezioni di politica interna. Non c’è momento migliore per superarle. Durante l’ultimo eurosummit, il presidente francese Hollande ha rotto l’asse Parigi-Berlino e ha un disperato bisogno di riposizionarsi come leader europeo. A questo fine non c’è niente di meglio che portare avanti una proposta per un’assicurazione comune europea contro la disoccupazione, con il supporto italiano. Le possibilità di vederla attuata sono aumentate in virtù della temporanea debolezza politica della Germania. La posizione molto aggressiva di Schäuble durante l’ultima riunione di Bruxelles ha sollevato critiche in Germania e ancor più all’estero. La Germania non può quindi permettersi di respingere tale proposta su due piedi, soprattutto non potendo fare appello ad alti principi morali ed economici, ma solo a un miope egoismo nazionale.

È il momento giusto. Se non ora, quando?

The euro lives for another day, this European project is dead forever / L’euro sopravvive un altro giorno, l’attuale progetto di integrazione europea è morto per sempre

In yesterday’s Greek third bailout all the parties sitting around the table got what they really wanted: Merkel not to see the euro explode under her watch, Schäuble to accredit himself as the next German leader, Hollande to appear as doing something other than flirting, Tsipras to remain in power (for cynical like me), or to save Greece (for those romantic) . The losers are not just the Greek people, but all those who believed in Europe. Not only the third bailout does not save the European integration process, but it sets it back. In fact, it is likely to kill it forever.

The post War World II European integration process followed the Jean Monnet “chain reaction theory”: the idea that a common governance experience will always lead to an increased demand for more common governance. This theory is based on two assumptions: the irreversibility of the steps taken and the role of crises in promoting further integration. “Europe will be forged in crises – wrote Monnet in his Memoires – and will be the sum of the solutions adopted for those crises.” This pattern, which held from the early 1950s to the early 2000, seems to have broken down.

First, during this crisis the irreversibility dogma has been breached. The Eurogroup openly discussed the possibility of “timing out” Greece from the euro. Eventually, it decided against, but moving backward is not a taboo any more. In a marriage when you openly raise the divorce option, the relationship is not the same any more. The same is true for the euro and the European integration process.

Second, if Europe is the solution adopted in this crisis, who wants more Europe? In fact, what is Europe? During the crisis was there a difference in behavior between the Eurogroup and the IMF? If anything the IMF was softer, recognizing the need for a debt restructuring. If Europe is nothing but a bad version of the IMF, what is left of the European integration project? The pro-Europe élite might have won the battle against Tsipras, but has lost the war. As Europe was to blame for the rise of Tsipras, Europe will be to blame when Tsipras is eventually replaced by more anti-European forces. In Germany it was not the hyperinflation of the 1920s, but the recession provoked by the harshness of international creditors to create the conditions for the rise of Adolf Hitler. Is Europe trying to do the same in Greece?

The deal’s apologists claim that Greece entered this deal voluntary, so why is there any talk about a coup? The reality is that with the euro all Eurozone countries gave up some of their sovereignty (the monetary part) in the hope this power will be managed in the collective interest, not in the interest of some against that of others. To this purpose the Banking Union was designed to separate a country’s fiscal solvency from the solvency of its banks and vice versa. But during the latest crisis this separation was not upheld: the ECB controlled the survival of the Greek banks and in so doing controlled the fate of the Tsipras’s government. This is not what eurozone countries signed up for initially and it is not what they signed up for in the Banking Union. Tsipras’s choice was as voluntary as the one of a person having a gun to his head.

But the most important issue is that even this third bailout does not solve the problem. Greek debt remains too high and the Greek resentment against the deal will all but ensure that the reform measures will not be implemented properly. In a few years from now will be back to the same table: possibly with different leaders, most likely with the same problems, certainly with much less faith in Europe.

————————-

Nel terzo bailout greco firmato ieri tutti i negoziatori hanno ottenuto ciò che volevano veramente: la Merkel di non vedere l’euro esplodere durante il suo mandato, Schäuble di accreditarsi come il prossimo leader tedesco, Hollande di sembrar capace di altro oltre che di flirtare, Tsipras di rimanere al potere (per i cinici come me) o di salvare la Grecia dal collasso (per i più romantici). I perdenti non sono solo il popolo greco, ma tutti coloro che hanno creduto nell’ Europa. Non solo il terzo bailout non salva il processo di integrazione europea, ma lo costringe ad un arretramento. In realtà, è probabile che lo uccida per sempre.

Dopo la seconda guerra mondiale il processo di integrazione europea ha seguito la “teoria della reazione a catena” di Jean Monnet: l’idea che una comune esperienza di governo porti sempre ad un aumento della domanda di più governo comune. Questo processo si basa su due presupposti: l’irreversibilità dei passi intrapresi e il ruolo delle crisi nel promuovere una maggiore integrazione. “L’Europa sarà forgiata nelle crisi – scrive Monnet nel suo Memoires – e sarà la somma delle soluzioni adottate per tali crisi” Questo modello, che ha tenuto dai primi anni ’50 ai primi anni 2000, sembra essersi definitivamente rotto.

In primo luogo, durante questa crisi il dogma dell’irreversibilità è stato violato. L’Eurogruppo ha apertamente discusso la possibilità di “timeout” della Grecia dall’euro. Alla fine, ha deciso diversamente, ma fare marcia indietro non è più tabù. In un matrimonio, quando si solleva apertamente la possibilità di divorzio, la relazione non è più la stessa. Lo stesso vale per l’euro e il processo di integrazione europea.

In secondo luogo, se l’Europa è la soluzione adottata in questa crisi, chi vuole più Europa? In realtà, che cosa è l’Europa? Durante la crisi c’è stata una qualche differenza di comportamento tra l’Eurogruppo e il Fondo monetario internazionale? Semmai il FMI e’ stato più morbido, riconoscendo la necessità di una ristrutturazione del debito. Se l’Europa non è altro che una brutta copia del FMI, cosa resta del progetto di integrazione europea? L’élite pro-Europa ha vinto la battaglia contro Tsipras, ma ha perso la guerra. Come l’Europa era da biasimare per la vittoria di Tsipras, così l’Europa sarà responsabile quando Tsipras sarà poi sostituito da forze ancora più antieuropee. In Germania non è stata l’iperinflazione degli anni Venti, ma la recessione provocata dalla durezza delle nazioni creditrici a creare le condizioni per l’ascesa di Adolf Hitler. L’Europa cerca di fare lo stesso in Grecia?

I difensori dell’accordo sostengono che la Grecia ha accettato quest’ accordo volontariamente, quindi perché si parla di un colpo di stato? La realtà è che tutti i paesi dell’ eurozona hanno ceduto un po’ della loro sovranità (quella monetaria) nella speranza che questa fosse gestita nell’interesse collettivo, non nell’interesse di alcuni contro quello di altri. A tale scopo l’Unione Bancaria è stata progettata per separare solvibilità fiscale di un paese dalla solvibilità delle sue banche e viceversa. Ma durante l’ultima crisi questa separazione non è stata rispettata: la BCE controllava la sopravvivenza delle banche greche e così facendo controllava il destino del governo Tsipras. Questo non è ciò che i paesi della zona euro hanno accettato quando sono entrati nella moneta unica e non è quello che hanno deciso con l’ Unione Bancaria. La scelta di Tsipras è tanto volontaria quanto quella di una persona che ha una pistola puntata alla tempia.

Ma la questione più importante è che anche questo terzo piano di salvataggio non risolve il problema. Il debito greco resta troppo elevato e il risentimento greco contro l’accordo è tale da rendere difficile applicare correttamente le riforme proposte. Tra qualche anno saremo di nuovo da capo: forse con diversi leader, probabilmente con gli stessi problemi, certamente con meno fiducia nell’Europa.

Perché Zingales è così “morbido” nei confronti della Grecia?

Una cara amica mi ha fatto una domanda che penso si siano posti in molti: perché sono così “morbido” nei confronti della Grecia? Sarei tentato di rispondere che sono gli altri ad essere troppo rigidi, ma non sarebbe una vera risposta. La posizione è sempre relativa, e nel bene e nel male la mia posizione sulla Grecia è risultata molto più morbida della maggior parte degli economisti italiani, anche di sinistra. Visto che ora ho più tempo a mia disposizione (☺), mi sembra giusto rispondere seriamente a questa domanda. E mi sembra giusto farlo adesso, ad urne aperte, e con i media che danno i sì al referendum in vantaggio.

Vorrei cominciare da una premessa. Per quanto io abbia le mie idee, cerco di guardare ai fatti e ai problemi in modo non ideologico. Questo non significa che le mie idee non mi aiutino ad interpretare i fatti, ma che mi sforzo di non interpretare i fatti per categorie ideologiche. Ideologicamente Syriza è quanto di più distante io possa immaginare dalle mie idee. Ciononostante non parto dal presupposto che, per questo, tutto quello che dice e fa sia sbagliato. D’altra parte penso che il futuro dell’Italia sia in Europa, ma non per questo non vedo i problemi enormi di questa Europa. È questo l’approccio che ho cercato di seguire nel mio libro Europa o no* e che cerco di seguire in questo sito e in tutto quello che scrivo. Ovviamente non sono esente da errori, ma spero di essere esente dal manicheismo.

Con questo provo a riassumere qui le motivazioni

1. Le colpe dei greci

La principale colpa dei greci è di aver eletto per decenni governi spendaccioni e corrotti. Non è una colpa da poco, ma come italiano non mi sento proprio in grado di giudicarli così severamente. La seconda colpa è di avere una società corporativa, poco aperta al cambiamento. Gli inglesi dicono che chi vive in una casa di vetro non deve mettersi a lanciare pietre. Per questo da italiano non mi permetto di lanciare pietre sul corporativismo: lo abbiamo inventato noi. La terza colpa è quella di aver dissipato il grande dividendo ottenuto con l’entrata nell’euro che ha portato loro dei tassi di interesse molto bassi. Anche su questo punto da italiano non mi sembra di poterli criticare. Come spiego in Europa o no* anche l’Italia ha dissipato malamente questo enorme beneficio. L’ultima colpa è quella di essersi indebitati troppo. Nel debito come nel matrimonio si è in due, e la colpa non è mai di una parte sola. Per ogni debitore che si indebita in modo eccessivo, c’è un creditore che gli permette di farlo. Perché deve pagare solo il debitore?

2. Il peccato originale

Il peccato originale della crisi greca è il modo con cui i costi di aggiustamento son stati distribuiti. Quando un debitore diventa insolvente, i creditori si devono assumere una parte del costo della ristrutturazione. Nel 2010 la Grecia era insolvente. Oggi non lo dico solo io (lo ammette lo stesso Fondo monetario internazionale) e non lo dico solo ora, lo dicevo anche nel 2010. Perché allora tutto il costo della crisi è stato imposto solo alla Grecia? Perché la Grecia non aveva alternative e l’Europa ne ha approfittato, facendo un favore alle banche francesi e tedesche. Anche in questo caso non lo dico solo io, lo dice l’ex governatore della Bundesbank Karl Otto Pohl, che non può essere accusato di essere né comunista, né antitedesco. Perché questo fatto viene costantemente ignorato in tutte le discussioni sulla Grecia?

3. Le colpe di Varoufakis &C

Molte organizzazioni soffrono di un problema ben conosciuto in Social Psychology, chiamato groupthink. Ne parlo nel mio libro Manifesto Capitalista. È la tendenza di organizzazioni molto coese di radicalizzarsi e di rigettare qualsiasi persona esterna, che la pensa in modo diverso, come un corpo estraneo. Temo che questo sia il problema con l’Europa e Varoufakis &C. Non che questo conti: come economista accademico Varoufakis non è inferiore ai suoi attuali omologhi europei. Potrà essere antipatico, ma per es. anche di Tremonti si diceva la stessa cosa. Perché allora è stato trattato come nessun ministro delle finanze di un paese europeo è mai stato trattato? Penso che il motivo sia perché diceva una verità scomoda: che l’Europa aveva commesso un errore e doveva prendersi la responsabilità di ripararlo. Da noi si dice “ambasciator non porta pena”. Il motivo è che la tentazione è di incolpare l’ambasciatore per il messaggio che porta. È quello che è successo in Europa. Che poi Varoufakis abbia facilitato il linciaggio con un comportamento strafottente e uno stile inusuale (gli è stato rimproverato perfino l’eccesso di profumo!), certamente sì. Ma se tutti gli strafottenti dovessero essere linciati mediaticamente, di politici vivi ne rimarrebbero veramente pochi.
Nonostante la differenza ideologica, ai miei occhi Syriza aveva un grande vantaggio: non era stata parte del sistema precedente. Se la prima colpa dei greci è stata di aver votato per troppo tempo gli stessi governi corrotti, non dovremmo forse guardare con simpatia al loro tentativo di cambiare?

4. Le ragioni dei tedeschi

Già nel mio libro Europa o no* denunciavo i cattivi stereotipi: i tedeschi che chiamano i greci pigri (quando dati alla mano i greci lavorano più ore per settimana dei tedeschi) e i greci che danno del nazista ai tedeschi (quando dati alla mano i movimenti neonazisti hanno più seguito in Grecia che in Germania).
Un altro stereotipo è che in Europa i tedeschi seguono le regole e tutti gli altri (greci in primis) no. Anche se è vero che i tedeschi sono ideologicamente più inclini alle regole, in Europa i tedeschi hanno usato le regole principalmente per promuovere il loro interesse. Come ho scritto in Europa o no* la politica monetaria della BCE (almeno fino a Draghi) è stata deflattiva, con grande vantaggio dell’industria tedesca che ha una maggiore flessibilità salariale verso il basso.
Quando però le regole colpiscono gli interessi tedeschi, non vengono applicate o vengono cambiate. Ricordate quando la Germania violò il limite del 3% di deficit? Fu forse sanzionata? No, fu fatta un’eccezione.
E la regola contro agli aiuti di stato alle imprese e alla banche? Quando nel 2008 la cancelliera Merkel volle aiutare le sue banche fu fatta un’altra eccezione.
E che dire della regola per cui nessun paese deve accumulare un avanzo commerciale troppo elevato? La Germania la sta violando da anni. Ma nessuno apre bocca. Si tratta di amore per le regole o di semplice perseguimento dell’interesse nazionale a qualsiasi costo?

5. I problemi dell’Europa

Il motivo per cui ho scritto Europa o no* e per cui ho creato questo blog è proprio quello di diffondere un messaggio critico dei problemi europei, senza per questo farlo diventare un messaggio antieuropeista. Se Syriza ha vinto le elezioni di gennaio è perché gli altri partiti erano troppo ciecamente europeisti. Tutti tranne Alba Dorata. Se fallisce Syriza, il rischio è che la leadership passi ad Alba Dorata. Pur rigettando le idee politiche di entrambi, mi permetto di dire che Alba Dorata è peggio di Syriza.
La mia speranza è che un dibattito serio sui vizi dell’Europa al centro dello schieramento politico riduca il consenso per gli opposti estremismi. Oggi il miglior portavoce per Syriza in Grecia è il commissario europeo Junker. Ogni volta che apre bocca, fa conquistare consensi a Tsipras.

È necessario cambiare le istituzioni europee che sono troppo poco democratiche. Se lasciamo il monopolio delle critiche agli antieuropeisti, l’Europa non cambierà, verrà distrutta. 

6. Siamo noi i prossimi? 

Nel mio sussidiario delle elementari c’era la storia di due genitori che trattavamo malamente la vecchia nonna di fronte a loro figlio. Costui, raccogliendo i cocci di una tazza, li ammonì dicendo: “li conservo per quando sarete vecchi voi.” È il vecchio detto “chi la fa l’aspetti”.
L’ultimo motivo per cui sono così morbido con la Grecia è che temo che noi saremo i prossimi.
Ci sono due principali differenze tra la Grecia e l’Italia. La Grecia ha mentito spudoratamente sui dati di bilancio e ha sperperato miliardi per le Olimpiadi. Da quanto mi risulta, sui dati di bilancio l’Italia ha solo mentito (non spudoratamente), ma resta sempre il rischio di scoprire altrimenti. E siccome non vogliamo farci mancare niente, siamo anche in lizza per le Olimpiadi di Roma. In caso non affondiamo da soli, ci penseranno le Olimpiadi. A quel punto il Nord Europa comincerà a dire che Italia e Grecia “una faccia-una razza” e che anche gli Italiani devono pagare le conseguenze che si meritano.

A quel punto rimpiangeremo tutti di non essere stati un po’ più morbidi.

* So che non è elegante autocitarsi, ma intendo così sottolineare che non sto dicendo nulla che non abbia già scritto un anno fa nel mio libro.

Europe and Giavazzi’s revealing lapsus / L’Europa e il lapsus rivelatore di Giavazzi

Francesco Giavazzi’s FT article on Greece has triggered a lot of visceral reactions, but it has not been analyzed for what it means regarding the change in attitude of the European élite regarding the European project.

You can sense that an ideal is in trouble when even the staunchest supporters start to take distance from it. For this reason, Giavazzi’s article sounds like a death-knell for the ideal of a united Europe. A long term collaborator and friend of Carlo Azeglio Ciampi (who brought Italy in the euro) and ECB President Mario Draghi, Giavazzi has been one of the most ardent supporters of the euro and of the European unification process. Yet, this support is hard to detect in his article, albeit I suspect he would deny.

The article raises several relevant points: that the Greek debt is unsustainable, that its reduction alone will not bring prosperity, that “it is not for the rest of Europe to impose reforms on Greece”, and that “Europeans, too, have made mistakes”. But these points are raised in a contest that seems to ignore the fundamental flaw of the Eurozone since its creation and tries to dump all responsibility on the behavior of Greeks. This attitude is not only unfair to Greece, but it is dangerous for Europe. It naturally leads to the conclusion – endorsed in the article — that by amputating the cankerous Greek limb, one can fix the European problem. It is a huge delusion, since the problem is not just in a limb, but it pervades the very essence of the monetary union.

Expelling Greece will not fix the problem, it will only postpone the necessary solution.
There is no doubt that Greek governments lied (more than those of other countries) and that Greek fiscal situation in 2010 was unsustainable, inside or outside of the euro. Yet, in analogous situations the IMF recipe was austerity plus a generous haircut on the debt. Why wasn’t an haircut imposed this time? If it was to preserve the stability of the European financial system, why the full cost of this intervention was imposed on the Greek alone? In the United States – which Giavazzi correctly takes as a benchmark of a functioning union – the cost of banks bailout was borne by all taxpayers, not only of Nevada and Florida, where the crisis was most severe.
In a real monetary union – like the United States – the fiscal redistribution is not limited to the banking union, but includes also automatic fiscal transfers (like federal unemployment insurance) and ad hoc transfers. One third of the $800bn stimulus package approved by Obama in 2009 contained exceptional transfers to the states.

How much did the European Union do for the countries worst hit by the crisis?
In its comparison with the United States, however, Giavazzi makes a revealing Freudian lapse, comparing Angela Merkel with Barack Obama. Unlike Obama, Angela Merkel is not the legitimately elected president of the Union, but simply the head of the most powerful state. She is more like Andrew Cuomo, governor of New York state, or Jerry Brown, governor of California.  That she is in charge of the negotiations reveals the fundamental mistake made by the Euro founding fathers: by putting the monetary union ahead of the political union, they have created not a democratic union, but a German hegemony.
In the United States even the smaller states have two senators, the same number of the biggest ones. This constitutional device ensures that the interest of all the people, not just of the people of the most economically powerful state, will be heard. By contrast, the intergovernmentalist approach in Europe ensures that the EU is run mainly with the interest of the Germans and French in mind. Not even the German and French people, but the German and French banks. In 2010, when they were heavily exposed to Greece, “saving” Greece was a priority. Now, that they dumped their dubious credit on the shoulders of European taxpayers, they are happy to let Greece go.

The merit of Giavazzi’s article is to make very clear the position of the pro Europe élite. Greece is dispensable to save the European project in the current form. It is trying to fix a mistake, with another mistake. The European project in the current form is not sustainable and it is not the Greeks’ fault.
It is time to recognize it and do our best to fix it.

————————————

L’articolo di Francesco Giavazzi sulla Grecia, apparso sul FT, ha scatenato un sacco di reazioni viscerali, ma non è stato analizzato per ciò che significa rispetto al cambiamento di atteggiamento dell’élite europea nei confronti del progetto europeo.

Si capisce che un ideale è in difficoltà quando anche i più convinti sostenitori cominciano a prenderne le distanze. Per questo motivo, l’articolo di Giavazzi suona come una campana a morto per l’ideale di un’Europa unita. A lungo collaboratore e amico di Carlo Azeglio Ciampi (che ha portato l’Italia nell’euro) e del presidente della BCE Mario Draghi, Giavazzi è stato, appunto, uno dei più convinti sostenitori dell’euro e del processo di unificazione europea. Sostegno e convinzione entrambi difficili da scorgere nel suo articolo (anche se immagino che negherà).

L’articolo tocca diversi punti importanti: che il debito greco è insostenibile, che la sola riduzione di questo debito non produrrà automaticamente ricchezza, che il resto d’Europa non può imporre riforme in Grecia e che anche gli europei hanno commesso errori. Ma questi punti sono inseriti in un contesto che da un lato sembra ignorare il “peccato originale” della zona euro e dall’altro cerca di scaricare tutte le responsabilità sul comportamento dei greci. Questo atteggiamento non solo non è giusto nei confronti della Grecia, ma è pericoloso per l’Europa perché porta alla conclusione – sostenuta nell’articolo – che amputando l’arto greco canceroso, si risolve il problema europeo. Questa è un’enorme illusione, dato che il problema non è solo in un arto, ma pervade l’essenza dell’unione monetaria.

Espellere la Grecia non risolverà il problema, solo ne rinvierà la necessaria soluzione.
Non vi è dubbio che i governi greci abbiano mentito (più di quelli di altri paesi) e che la situazione fiscale greca nel 2010 fosse insostenibile, dentro o fuori dall’euro. Tuttavia, in situazioni analoghe la ricetta del FMI ha comportato austerità più un generoso taglio del debito. Perché in questo caso il taglio non è stato imposto? Se non lo si è fatto per preservare la stabilità del sistema finanziario europeo, perché l’intero costo di questo intervento è stato fatto pagare alla sola Grecia? Negli Stati Uniti – che correttamente Giavazzi indica come riferimento di unione che funziona – il costo del piano di salvataggio delle banche è stato sostenuto da tutti i contribuenti, non solo da quelli del Nevada e della Florida, dove la crisi è stata più grave.
In una vera e propria unione monetaria – come gli Stati Uniti – la redistribuzione fiscale non è limitata all’unione bancaria, ma comprende anche trasferimenti fiscali automatici (come l’assicurazione federale contro la disoccupazione) e trasferimenti ad hoc. Un terzo del pacchetto di stimolo da 800 miliardi di dollari approvato da Obama nel 2009 conteneva trasferimenti eccezionali agli stati.

Cosa e quanto ha fatto l’Unione europea per i paesi più colpiti dalla crisi?
Nel suo confronto con gli Stati Uniti, tuttavia, Giavazzi ha un lapsus freudiano molto rivelatore, quando confronta Angela Merkel con Barack Obama. A differenza di Obama, Angela Merkel, non è il presidente legittimamente eletto dell’Unione, ma semplicemente il capo dello Stato più potente. È più come Andrew Cuomo, governatore dello stato di New York, o Jerry Brown, governatore della California. Che lei sia responsabile dei negoziati rivela l’errore fondamentale dei padri fondatori dell’euro: realizzando l’unione monetaria prima dell’unione politica, hanno creato non un’unione democratica, ma una egemonia tedesca.
Negli Stati Uniti anche gli stati più piccoli hanno due senatori, lo stesso numero di quelli più grandi. Questo dispositivo costituzionale assicura che sarà fatto l’interesse di tutto il popolo americano, non solo di quello dello stato economicamente più potente. Al contrario, l’approccio intergovernativo europeo, fa sì che l’Unione europea sia gestita principalmente nell’interesse di tedeschi e francesi. E non dei popoli tedesco e francese, ma delle banche tedesche e francesi. Nel 2010, quando queste erano pesantemente esposte verso la Grecia, “salvare” la Grecia era una priorità. Ora che hanno scaricato il loro discutibile credito sulle spalle dei contribuenti europei, sono felici di lasciare andare la Grecia.

Il merito dell’articolo di Giavazzi è quello di rendere molto chiara la posizione dell’élite pro-Europa. La Grecia non è essenziale per salvare il progetto europeo nella forma attuale. Si sta quindi cercando di correggere un errore con un altro errore. Il progetto europeo nella forma attuale non è sostenibile e non per colpa della Grecia.
È arrivato il momento di riconoscerlo e fare del nostro meglio per risolvere il problema.

Per salvare l’Europa è necessaria una coscienza europea

Testo dell’articolo pubblicato su L’Espresso del 4.06.2015 con il titolo “Rischio Quarto Reich nel futuro dell’Europa”

E PLURIBUS UNUM è il motto latino che campeggia sul sigillo degli Stati Uniti. Per unire veramente gli stati americani ci sono voluti più di due secoli e una devastante guerra civile. L’Unione europea (Ue) sta cercando di compiere la stessa evoluzione, ma ha cominciato solo sessant’anni fa e vorrebbe evitare guerre civili.
Nonostante la lentezza e le complicazioni, finora questo processo di unificazione era sembrato inevitabile e irreversibile. Oggi non più. Con i rischi concreti di un’uscita della Grecia dall’euro (che secondo i trattati implicherebbe anche un’uscita dall’Unione) e il referendum inglese sulla possibilità di abbandonare l’Ue, il processo di integrazione europea rischia di ingranare la marcia indietro. Perché l’Europa è entrata in crisi? È solo colpa della situazione economica o ci sono problemi strutturali? Per salvare il processo di unificazione ha senso creare un’Europa a più velocità?

La risposta alla prima domanda è semplice. La crisi del processo di integrazione europea era inevitabile. All’inizio sono stati colti i benefici più significativi, che potevano essere ottenuti con cessioni molto limitate della sovranità nazionale: la libera circolazione di persone, beni e capitali. Non a caso questa fase avvenne con ampio consenso delle nazioni coinvolte.
Poi venne la moneta unica. Il beneficio immediato (più bassi tassi di interesse) sembrava sovrastare qualsiasi costo futuro in termini di perdita di sovranità e in molti (forse troppi) saltarono sul carro. Ora però, per continuare a beneficiare della moneta comune è necessario creare dei meccanismi di condivisione del rischio durante le crisi: quali un’assicurazione europea contro la disoccupazione.
Perché questo possa avvenire politicamente, però, ci vuole innanzitutto un’identità di popolo. È già difficile rinunciare ai propri soldi per aiutare il prossimo. Diventa pressoché impossibile quando questo “prossimo” ci appare diverso (per tradizioni, lingua o religione). Tanto più diversa da noi è una persona in difficoltà, tanto più facile è trovare una giustificazione per non aiutarla: non se lo merita, è pigra, ecc. Lo stesso vale per i Paesi. Dati alla mano i greci lavorano di più dei tedeschi, eppure questi ultimi giustificano il loro rigore con la pigrizia greca.

Per gli Stati Uniti è stato più facile: hanno potuto cementare la loro identità di nazione per quasi 150 anni prima di introdurre un sistema di welfare durante il New Deal. Per giunta la Grande Depressione colpì tutti gli Stati indifferentemente: se la Depressione fosse stata limitata solo al Sud, le tensioni della guerra civile sarebbero probabilmente riesplose come riesplodono oggi in Europa le divisioni ed i risentimenti della Seconda guerra mondiale.
La crisi economica (per di più asimmetrica) che ha colpito l’Europa ha solo innescato delle contraddizioni che erano intrinseche al processo di unificazione. Se una ripresa potrà attenuarle, non riuscirà mai ad annullarle. Proprio per questo veleggia l’ipotesi di uno scatto in avanti. Se non c’è consenso tra tutti i paesi dell’Ue per una maggiore integrazione, perché non tentare con un’Europa a due velocità?
Sarebbe molto facile per la Germania integrarsi maggiormente con i paesi satelliti, dall’Olanda all’Austria, dal Belgio alla Finlandia; e dal punto di vista economico questo esperimento potrebbe servire da esempio per gli altri. Ma creerebbe due grossi problemi politici. Senza la Francia (che non è pronta né economicamente né politicamente per un salto del genere), il gruppetto assomiglierebbe pericolosamente a un Quarto Reich. Inoltre se l’esperimento riuscisse, le successive estensioni non sarebbero adesioni ma annessioni. L’avanguardia europea trasformerebbe il processo di unificazione europea in una egemonia totale della Germania.

Purtroppo non ci sono scorciatoie: se vogliamo salvare l’ideale europeo è necessario creare una coscienza europea. Ma è impossibile formarla fintantoché l’Europa è gestita dai capi dei governi nazionali e non da un governo comune europeo.
Il vero deficit di cui si deve preoccupare l’Europa è quello di democrazia.

The Troika is eroding fiscal democracy in the eurozone / La Troika sta minando la democrazia fiscale nell’eurozona

In Continental Europe asking for debt relief of insolvent countries is considered being a Communist or condoning the alleged “laziness” of Southern Europe (or both). Group-think has so much taken over the Continent, that the so-called moderates compete on who is more extremist in supporting the “Berlin Consensus”. For this reason, it is so refreshing to read a comment like the one below, written by Philippe Legrain for CAPX, one the best web sites for people who believe in free market. I feel less alone.

Nell’ Europa continentale chiedere la parziale riduzione del debito dei paesi insolventi significa ormai essere comunisti o voler condonare la presunta “pigrizia” del Sud Europa (o entrambe le cose). Il conformismo di gruppo (Group-think) ha preso così piede che i cosiddetti moderati fanno a gara a chi è più estremista nel sostenere il “Berlin Consensus”. Per questo, leggere l’articolo (in basso la traduzione Italiana) che Philippe Legrain ha scritto per CAPX – uno dei migliori siti web per chi crede nel libero mercato – è una vera e propria boccata d’aria. Mi sento meno solo.

———————————-

“Noi non cambiamo la nostra politica in base alle elezioni”, ha insistito Jyrki Katainen, vice-presidente della Commissione europea per l’occupazione, la crescita, gli investimenti e la competitività, dopo le elezioni greche di gennaio. Il che, per quanto si possa non gradire il nuovo governo di sinistra radicale di Atene, è pur sempre una dichiarazione di un funzionario non eletto dell’UE. Che fa porre la domanda: come possono gli elettori cambiare concretamente la politica dell’eurozona? Con la rivoluzione?

Tanto più che quella politica sta evidentemente fallendo nel conseguimento degli obiettivi del mandato di Katainen: creazione di posti di lavoro, crescita e investimenti. La disoccupazione nella zona euro è dell’11,2%, più del doppio che negli Stati Uniti, e del 26% in Grecia. L’economia della zona euro continua ad essere inferiore del 2% rispetto al picco pre-crisi di inizio 2008, mentre quella della Grecia è inferiore del 26%. Gli investimenti delle imprese sono ai minimi da 20 anni in entrambi i casi. Quanto alla competitività – riduzione dei costi per promuovere le esportazioni – si tratta di un obiettivo mercantilista pervicacemente sbagliato; i governi dovrebbero piuttosto puntare ad aumentare la produttività.

La zona euro oggi è un organismo molto diverso dall’unione monetaria lanciata nel 1999 – e non solo perché è in crisi. Pur con tutti i suoi difetti, il progetto iniziale dell’unione monetaria era decentrato, in gran parte market-based e lasciava ampio spazio alla democrazia nazionale. I Governi eletti mantenevano ampia discrezionalità fiscale, purché i loro deficit non eccedessero il 3% del PIL. (All’epoca ho scritto su The Economist, che l’euro potrebbe avrebbe potuto fare completamente a meno di regole di bilancio.) Il debito pubblico era disciplinato dai mercati, con la garanzia che i governi che avevano problemi non avrebbero potuto essere salvati né dagli altri stati membri (la “clausola di non salvataggio”), né dalla BCE (il divieto di finanziamento monetario). I governi nazionali mantenevano anche la quasi totale libertà su altri aspetti di politica economica, come ad esempio sulle riforme da fare (o da non fare) e su come farle. Solo la politica monetaria era (necessariamente) centralizzata nella Banca centrale europea a Francoforte.

Ma a partire dalla crisi, l’eurozona è diventato un sistema di comando e controllo molto più centralizzato, molto meno flessibile e scarsamente democratico, diretto da Berlino, Bruxelles e Francoforte.

Il caso greco è il più estremo. Per anni, le amministrazioni greche hanno emesso troppo debito pubblico mentendo su di esso. Nel 2010, la Grecia è stata esclusa dal mercato perché gli investitori hanno finalmente capito che sarebbe stato sciocco continuare a concedere prestiti ad un governo che non avrebbe mai potuto ripagare interamente il suo debito. Se le autorità della zona euro avessero rispettato la regola del non-salvataggio del Trattato di Maastricht, la Grecia avrebbe dovuto chiedere aiuto al Fondo monetario internazionale. Il FMI avrebbe ristrutturato il debito della Grecia prima di fornire un prestito condizionale per alcuni anni per aiutarla a mettere in ordine i suoi conti, a riformare la sua economia e riguadagnare quindi l’accesso al mercato.

Ma le autorità della zona euro hanno invece deciso di far finta che la Grecia stava semplicemente attraversando difficoltà temporanee di finanziamento. Hanno quindi violato la clausola di non-salvataggio prestando al governo greco denaro dei contribuenti europei, apparentemente per motivi di solidarietà, ma in realtà, per salvare i suoi creditori, in particolare le banche francesi e tedesche. Tale catastrofica decisione ha radicalmente cambiato la natura dell’unione monetaria.

Per cinque lunghi anni, la Grecia è stato amministrata come un quasi-colonia dall’odiata Troika –  Commissione europea e BCE, insieme all’FMI. Giustamente, si potrebbe dire: se la Grecia non può prendere a prestito dai mercati e riceve invece un finanziamento UE-FMI, questi hanno il diritto di imporre condizioni sui loro prestiti. Certo, ma perché ancora oggi la Grecia non può prendere in prestito dai mercati? Perché, lo scorso anno, molto prima che l’elezione di un governo di sinistra apparisse imminente, quando il governo stava producendo un avanzo primario – un avanzo di bilancio al netto degli interessi – non poteva prendere a prestito dai mercati in maniera sostenibile, a differenza di ogni altro governo della zona euro? Dopo tutto, i suoi creditori europei insistono che è solvibile.

Perché la Grecia è ancora, di fatto, insolvente. E poiché i suoi creditori europei rifiutano di ristrutturare i suoi debiti e minacciano (illegalmente) di buttarla fuori dall’euro se dichiara default unilateralmente, la Grecia è intrappolato in una versione moderna della prigione dei debitori. Oppressa da debiti impagabili, non è in grado di tornare a crescere, riconquistare l’accesso al mercato e quindi tornare a controllare il proprio destino economico. Quindi non è di sinistra chiedere la parziale riduzione del debito per la Grecia – anche l’ex capo del FMI in Europa, Reza Moghadam, che è un uomo di sinistra così radicale che ora lavora per la banca d’affari americana Morgan Stanley, pensa che il debito debba essere dimezzato – è una necessità economica e democratica.

Il salvataggio dei creditori della Grecia e gli ulteriori prestiti a Irlanda, Portogallo e Spagna – soprattutto per salvare le banche locali, che sarebbero altrimenti state inadempienti sui prestiti ottenuti da quelle tedesche e francesi – ha fatto sì che i contribuenti del nord Europa temano di dover sostenere tutti i debiti del sud dell’Europa. Così il cancelliere tedesco, Angela Merkel, ha chiesto un maggiore controllo sui bilanci degli altri paesi – e la Commissione europea è stata più che felice di concederlo. Di conseguenza, l’intera zona euro è ormai costretta in una camicia di forza fiscale molto più stretta: regole UE più severe e fiscal compact.

Questo è economicamente non auspicabile, perché i paesi che condividono una moneta – e quindi non hanno più la propria politica monetaria o di cambio – necessitano una maggiore – non minore – flessibilità fiscale. Ed è politicamente pericolosissimo, perché ogni volta che gli elettori rifiutano un governo, come hanno fatto in quasi tutte le elezioni dopo la crisi, i funzionari dell’UE come Katainen sbucano in televisione per chiedere che il nuovo governo si attenga a politiche che gli elettori hanno appena respinto. Che funzionari lontani, a Bruxelles, non eletti e scarsamente responsabili possano negare agli elettori legittime scelte democratiche su decisioni in materia fiscale e di spesa, allontana le persone dall’UE. E se il voto per i politici tradizionali non porta al cambiamento, non ci si sorprende che si rivolgano alle ali estreme.

Come si può ripristinare la democrazia fiscale nella zona euro? Un’opzione sarebbe quella di eleggere un’autorità fiscale per l’eurozona. Ma la rabbia e la sfiducia esistenti nella zona euro sono ormai tali che i passaggi verso il federalismo democratico sono politicamente inconcepibili. Una soluzione migliore sarebbe quella di ripristinare la clausola di non salvataggio e con essa la libertà dei governi eletti di rispondere al mutare delle circostanze economiche e delle priorità politiche – obbligati dalla disponibilità dei mercati a prestare e in ultima analisi dal rischio di default. Si potrebbe creare un meccanismo di ristrutturazione del debito sovrano, mentre la BCE avrebbe il mandato di intervenire per evitare panico. Per migliorare la disciplina di mercato, dovrebbero essere riviste sia le regole di adeguatezza patrimoniale delle banche, regole che trattano assurdamente tutti i titoli di Stato come privi di rischio, sia le regole sui prestiti sulle garanzie collaterali della BCE. Una zona euro più flessibile, decentrata e democratica, che ripristini la libertà politica dei governi, che si affidi alle regole dei mercati, e non alle decisioni arbitrarie di Berlino e Bruxelles, sarebbe molto meglio per tutti.

Spogliare gli elettori del diritto di fare legittime scelte economiche e politiche è insostenibile. E come dimostra la storia tragica della Repubblica di Weimar, l’imposizione di insopportabili pagamenti agli odiati creditori stranieri porta all’estremismo politico. Martin Wolf del Financial Times ha osservato che la zona euro è destinata ad essere una unione delle democrazie, non un impero. Katainen e altri funzionari della zona euro dovrebbero tenerlo a mente.

Philippe Legrain, che è stato consigliere economico del Presidente della Commissione europea dal 2011 al 2014, è visiting senior fellow dello European Institute della London School of Economics e l’autore diEuropean Spring: Why Our Economies and Politics Are in a Mess — and How to Put Them Right”.

———————————-

“We don’t change our policy according to elections,” insisted Jyrki Katainen, vice-president of the European Commission for jobs, growth, investment and competitiveness, after the Greek elections in January. Which, however much you may dislike the new radical-left government in Athens, is quite a statement for an unelected EU official. And which begs the question: how can voters actually change eurozone policy? Revolution?

Especially since that policy is conspicuously failing to deliver Katainen’s mandate of jobs, growth and investment. Unemployment in the eurozone is 11.2%, more than twice the rate in the United States, and 26% in Greece. The eurozone economy is still 2% smaller than its pre-crisis peak in early 2008, while Greece’s is down by 26%. Business investment is at a 20-year low in both cases. As for competitiveness – cutting costs to promote exports – it’s a wrong-headed, mercantilist objective; governments should instead aim to boost productivity.

The eurozone today is a very different beast to the monetary union that was launched in 1999 – and not just because it’s in crisis. For all its flaws, the initial design of the currency union was decentralised and largely market-based, allowing plenty of scope for national democracy. Elected governments retained ample fiscal discretion, provided their deficits did not exceed 3% of GDP. (Writing for The Economist at the time, we argued that the euro could do without fiscal rules altogether.) Government borrowing was to be disciplined by markets, with the safeguards that governments that got into trouble could be bailed out neither by their peers (the “no-bailout rule”), nor by the ECB (the ban on monetary financing). National governments also retained almost full freedom over other aspects of economic policy, such as which reforms they did (or didn’t do) and how they went about them. Only monetary policy was (necessarily) set centrally, by the European Central Bank in Frankfurt.

But since the crisis, the eurozone has become a much more centralised, much less flexible and scarcely democratic command-and-control system run from Berlin, Brussels and Frankfurt.

The Greek case is most extreme. For years, successive Greek administrations borrowed too much and lied about it. In 2010, Greece was cut off from the markets because investors finally realised that it would be foolish to continue lending to a government whose debts were so huge that it would be unable to pay them back in full. Had eurozone authorities respected the Maastricht Treaty’s no-bailout rule, Greece would then have had to seek help from the International Monetary Fund. The IMF would have restructured Greece’s debts before providing a conditional loan for a few years to tide it over until it put its public finances in order, reformed its economy and regained market access.

But instead eurozone authorities decided to pretend that Greece was merely going through temporary funding difficulties. They then breached the no-bailout rule by lending the Greek government European taxpayers’ money, ostensibly out of solidarity but actually in order to bail out its creditors, notably French and German banks. That catastrophic decision fundamentally changed the nature of the monetary union.

For five long years, Greece has been administered as a quasi-colony by the hated Troika – the European Commission and the ECB, together with the IMF. Fair enough, you might say: if Greece can’t borrow from markets and relies instead on EU-IMF funding, they have a right to impose conditions on their loans. Yes, indeed, but why even now can’t Greece borrow from markets? Why, last year, long before the election of a left-wing government seemed imminent, when the government was running a primary surplus – a budget surplus excluding interest payments – couldn’t it borrow on a sustainable basis from markets, unlike every other eurozone government? After all, its EU creditors insist it is solvent.

Because Greece is still, in fact, insolvent. And because its EU creditors refuse to restructure its debts, and threaten (illegally) to force it out of the euro if it defaults unilaterally, it is trapped in a modern-day debtors’ prison. Weighed down by unpayable debts, it is unable to recover, unable to regain market access and thus unable to restore control over its economic destiny. So it’s not left-wing to demand debt relief for Greece –even the IMF’s former Europe chief, Reza Moghadam, who is such a radical leftist that he now works for the American investment bank Morgan Stanley, thinks its debt needs to be halved – it’s an economic and democratic necessity.

The bailout of Greece’s creditors and the subsequent loans to Ireland, Portugal and Spain – primarily to bail out local banks which would have otherwise defaulted on their borrowing from German and French ones – made northern European taxpayers fear that they would end up liable for all of southern Europe’s debts. So Germany’s Chancellor, Angela Merkel, demanded much greater control over other countries’ budgets – and the European Commission was only too delighted to oblige. As a result, the eurozone as a whole is now bound by a much tighter fiscal straightjacket: more stringent EU rules as well as the fiscal compact.

This is economically undesirable, because countries that share a currency – and so no longer have their own monetary policy or exchange rate – need greater fiscal flexibility, not less. And it’s politically poisonous, because whenever voters reject a government, as they have done at nearly every election since the crisis, EU officials such as Katainen pop up on television to demand that the new government stick to policies that voters have just rejected. That remote, unelected and scarcely accountable officials in Brussels should deny voters legitimate democratic choices about tax and spending decisions alienates people from the EU. And if voting for mainstream politicians doesn’t lead to change, it’s no surprise they turn to the extremes.

How could fiscal democracy in the eurozone be restored? One option would be to create an elected eurozone fiscal authority. But such is the anger and mistrust that now exists in the eurozone that steps toward democratic federalism are politically inconceivable. A better option would be to restore the no-bailout rule and with it elected governments’ freedom to respond to changing economic circumstances and political priorities – constrained by markets’ willingness to lend and ultimately by the risk of default. A mechanism for restructuring sovereign debt could be created, while the ECB would be mandated to step in to prevent panics. To enhance market discipline, bank capital-adequacy rules that ludicrously treat all government bonds as risk-free should be revised, as should the ECB’s collateral-lending rules. A more flexible, decentralised and democratic eurozone that restores governments’ policy freedom, while relying on markets, not arbitrary decisions by Berlin and Brussels, for discipline would be much better for everyone.

Stripping voters of the right to make legitimate economic and political choices is unsustainable. And as Weimar Germany’s tragic history shows, the imposition of unbearable payments to hated foreign creditors leads to political extremism. Martin Wolf of the Financial Times has observed that the eurozone is meant to be a union of democracies, not an empire. Katainen and other eurozone officials should remember that.

Philippe Legrain, who was economic adviser to the President of the European Commission from 2011 to 2014, is a visiting senior fellow at the London School of Economics’ European Institute and the author of European Spring: Why Our Economies and Politics Are in a Mess — and How to Put Them Right.

Only a Political Union Produces Democratic Economic Choices / Solo l’Unione Politica Permette Scelte Economiche Democratiche

In basso il testo dell’articolo in Italiano, pubblicato sul Sole 24 Ore

In the tug of war between the European Union and Greece, public opinion is divided into two camps. On one side are supporters of severity, who accuse Greece of wastefulness and don’t want to give them anything. On the other side are the public spending fanatics, who see Greece as a victim of German severity and would help Greece resume this wastefulness in the name of solidarity. Too often sides are chosen for political reasons while ignoring the facts.
The radical left tradition of Syriza, the Greek party that won the last election, and the sympathy it has raised amongst supporters of unlimited public spending throughout Europe risks obscuring an important fact: in its claims against Europe, Syriza is right. Europe has mistreated Greece and it did so because Germany and France have protected their interests at Greece’s expense.

Don’t misunderstand me. I’m not saying that Greece is without fault, or that the austerity plan wasn’t necessary. Before the crisis Greece lived beyond its means: in 2010 the real budget deficit was more than 15% of GDP. Greece had to cut public spending and without help those cuts would have been even more drastic.

I am simply saying that had there not been a European Union, and if Greece had turned to the International Monetary Fund (IMF), Greece would have suffered less. The IMF certainly doesn’t have a reputation for being generous with the countries it helps. But it would have been more generous than the European Union. The IMF would have imposed an austerity plan, it would have imposed a 30% haircut to creditors, and it would have lent money to facilitate the adjustment. What is the difference between this and the plan Europe decided on?

In Europe’s plan there were loans and also austerity; what was missing was a 30% cut to debts, which would have brought the debt-GDP ratio to 100%. To be fair, there was a haircut, but it was two years late and only hit the few remaining private creditors, because the majority of creditors had been saved by selling to the European Central Bank or by obtaining repayment of loans at maturity though IMF financing. Restructuring IMF loans is much more difficult than restructuring private credit. So the delay made the situation much worse.

Who decided on this plan? Merkel and Sarkozy, in order to protect their banks. It’s not just me saying this, but a number of influential people who cannot be accused of being extremists: Athanasios Orphanides, a former US Federal Reserve official and former governor of the Central Bank of Cyprus (with a Ph.D. from MIT like Draghi and Papademos); Paulo Batista, then executive director of the International Monetary Fund, and even Karl Otto Pöhl, former governor of the Bundesbank. Pöhl declared in 2010 that the bailout was “about protecting German banks, but especially the French banks, from debt write offs.” More recently, the former executive director of the IMF has stated that the Greek plan was one of the darkest pages in the IMF’s history and that the program “put too much of a burden on Greece and not enough of a burden on Greece’s creditors.” You do not need to be a leftist or pro-Greece to understand this.

Even with all of their faults, then, Greece and Syriza are right about a lot. If saving French and German banks was in the best interests of the union (which I doubt), it had to be done by dividing the financial burden between all member states, not by imposing it entirely on Greece. As Orphanides explained very clearly in a recent presentation at Harvard, managing a crisis means allocating losses from the crisis in a manner that minimizes total losses. This is what they did in the United States, which has achieved growth since 2010. They managed to do so because they have a federal parliament that considers the welfare of the country as a whole. In Europe this is not the case. Politicians continue to be elected by national parliaments and naturally answer to these parliaments and their constituents. Angela Merkel is not evil; she is a shrewd politician who is very good at furthering the interests of her own nation at the expense of the others. It is not by chance that she is the only head of government to survive the crisis.

The problem isn’t Germany, nor is it Greece: the problem is the political foundations of the European Union. It is a monetary, not political, union, in which economic decisions cannot be made in a democratic way and end up being prey to the vested interests of economically stronger countries.

It’s high time for even moderates to denounce this problem. If we allow the radical left to have a monopoly on the truth, it shouldn’t be a surprise when they win elections, at least in southern Europe. It’s our fault that we have endorsed a profound injustice with silence, or even worse, with agreement. It’s our fault that we continue to elect leaders incapable of defending our interests in Brussels. It’s our fault that in dreaming of having leaders of German quality, we have allowed French-German interests to dictate the agenda in our own house.

——————————

Nel braccio di ferro tra Unione europea e Grecia, l’opinione pubblica si è divisa in due tifoserie. Da un lato i fautori del rigore, che accusano la Grecia di sperperi e non vogliono concederle nulla. Dall’altro, i fanatici della spesa pubblica, che vedono nella Grecia una vittima del rigore tedesco e vorrebbero aiutarla a riprendere questi sprechi nel nome della solidarietà. Troppo spesso la scelta di campo è fatta per motivi politici, ignorando i fatti. La tradizione di sinistra radicale di Syriza, il partito greco che ha vinto le ultime elezioni, e la simpatia che ha suscitato tra i fautori della spesa pubblica senza limite in tutta Europa rischiano di oscurare un fatto importante: nelle sue rivendicazioni con l’Europa Syriza ha ragione. L’Europa ha maltrattato la Grecia e lo ha fatto perché la Germania e la Francia hanno protetto i loro interessi a scapito di quelli greci.

Non fraintendetemi. Non sto dicendo che la Grecia sia senza colpa, né che un piano di austerità non fosse necessario. Prima della crisi la Grecia viveva al di sopra delle sue possibilità economiche: nel 2010 il vero deficit pubblico era superiore al 15% del Pil. La Grecia doveva tagliare la spesa pubblica e senza aiuti i tagli sarebbero stati ancora più drastici. Sto semplicemente dicendo che se non ci fosse stata la Ue e se la Grecia si fosse rivolta al Fondo monetario la Grecia avrebbe sofferto meno. L’Fmi non ha certo una reputazione di essere generoso con i Paesi che aiuta. Ma sarebbe stato più generoso della Ue. Il Fondo avrebbe imposto un piano di austerità, avrebbe imposto un haircut ai creditori del 30% e avrebbe prestato dei soldi per facilitare l’aggiustamento. Qual è la differenza con il piano deciso dall’Europa?

I prestiti ci sono stati e anche l’austerità; quello che è mancato è stato un taglio del debito del 30%, che avrebbe portato il rapporto debito/Pil al 100%. A onor del vero, l’haircut c’è stato, ma con due anni di ritardo e ha colpito solo i pochi creditori privati rimasti, perché la maggior parte si era salvata vendendo alla Bce o ottenendo il rimborso dei crediti in scadenza finanziato dai prestiti del Fondo. Ristrutturare i prestiti dell’Fmi è molto più difficile che ristrutturare i crediti privati. Quindi il ritardo ha reso la situazione molto peggiore.

Chi ha deciso questo piano? Merkel e Sarkozy, per proteggere le loro banche. A dirlo non sono solo io, ma una serie di persone autorevoli che non possono essere certo accusate di essere degli estremisti: Athanasios Orphanides, ex funzionario della Federal Reserve americana ed ex governatore della Banca centrale cipriota (con dottorato al Mit come Draghi e Papademos); Paulo Batista, all’epoca direttore esecutivo dell’Fmi, e perfino Karl Otto Pöhl, l’ex governatore della Bundesbank. Pöhl dichiarò già nel 2010 che il salvataggio era «per proteggere le banche tedesche, ma soprattutto francesi, da perdite sui crediti». Più recentemente l’ex direttore esecutivo dell’Fmi ha affermato che il piano per la Grecia è stata una delle pagine più cupe della storia del Fondo e che il piano «imponeva troppo peso sulla Grecia e non abbastanza sui creditori». Non occorre essere né di sinistra né pro greci per capirlo.

Pur con tutte le sue colpe, quindi, la Grecia e Syriza hanno ragioni da vendere. Se salvare le banche francesi e tedesche era nell’interesse dell’Unione (ne dubito) andava fatto dividendo il peso finanziario tra tutti gli Stati membri, non imponendolo interamente alla Grecia. Come ha spiegato molto chiaramente Orphanides in una recente presentazione ad Harvard, gestire una crisi significa allocare le perdite prodotte dalla crisi al fine di minimizzare le perdite globali. È quello che hanno fatto gli Stati Uniti, che dal 2010 hanno ripreso a crescere. Sono riusciti a farlo perché hanno un parlamento federale, che considera il benessere del Paese nel suo complesso. In Europa questo non è vero. I politici continuano ad essere eletti da parlamenti nazionali e naturalmente rispondono a questi parlamenti e ai loro elettori. Angela Merkel non è cattiva, è un’astuta politica che fa molto bene l’interesse della sua nazione a scapito di quelle altrui. Non a caso è l’unico capo di governo che è sopravvissuto alla crisi.

Il problema non è la Germania, né la Grecia: sono le basi politiche della Ue. Un’unione monetaria, non politica, in cui le scelte economiche non possono essere fatte in modo democratico e finiscono per essere preda degli interessi costituiti nei Paesi economicamente più forti.

È giunto il momento che anche i moderati denuncino questo problema. Se lasciamo alla Sinistra radicale il monopolio della verità non dobbiamo sorprenderci se poi questa vince le elezioni, almeno nell’Europa del Sud. È colpa nostra che abbiamo avallato col silenzio, o peggio con l’assenso, una profonda ingiustizia. È colpa nostra che continuiamo ad eleggere governanti incapaci di difendere i nostri interessi a Bruxelles. È colpa nostra che sognando di avere dei governanti di qualità tedesca abbiamo finito per permettere agli interessi franco-tedeschi di dettare l’agenda in casa nostra.

Austerity has many fathers / I molti padri dell’austerità

In a period where we hear very conflicting positions about Greece, it is a pleasure to read a very balanced piece:

In un periodo in cui sentiamo di tutto sulla Grecia, fa bene leggere questo pezzo molto saggio:

http://www.project-syndicate.org/commentary/greek-exit-syriza-troika-negotiations-by-kenneth-rogoff-2015-02

As Rogoff says, the so called austerity is not the fault of the Troika, but of the Greek government that was spending 10% of GDP more than it was raising (even before considering the interest on the existing debt).
Yet, it is not just the Greeks’ fault. French and German banks are responsible as well. Rogoff claims that a debt reduction is inevitable.
If it is a precedent – says Rogoff – so be it. Other countries will follow.

Which countries is he talking about?
____________________________________

La cosiddetta austerità non è colpa della Troika, ma del governo greco che spendeva il 10% del PIL più di quello che incassava (anche senza contare gli interessi). Ma la colpa non è solo dei greci. Le banche francesi e tedesche sono corresponsabili. Rogoff sostiene che una riduzione del debito è inevitabile.
E se rappresenta un precedente – dice Rogoff- so be it. Altri paesi seguiranno.

Chi ha orecchie per intendere, intenda.

L’Euro visto dal Nord

faveuro_nordeu_
A metà degli anni ’90, quando l’euro fu creato, nei tre paesi scandinavi appartenenti all’Unione Europea (Danimarca, Finlandia e Svezia) il livello di consenso a favore della moneta unica era simile: tra il 30 e il 35% in tutti e tre i paesi. Allora la Finlandia decise di entrare e oggi il grado di consenso per la moneta unica è a livelli elevatissimi (75-80%). La Danimarca e la Svezia restarono fuori.
All’inizio sembrò un errore: nei primi 10 anni del nuovo millennio, il consenso per la moneta unica eccedeva il 50%. Con la crisi dell’eurozona, però, il consenso è crollato al 20-30%. Questi due paesi sono fuori dell’euro e ci vogliono rimanere.
Ieri ero in Svezia ed ho chiesto ad alcuni rappresentanti della Confindustria svedese cosa pensavano della moneta unica. Per un paese con un mercato molto limitato, come la Svezia, l’idea di una valuta comune è molto attraente, perché riduce le incertezze del cambio. Ma non si fidano di entrare in un’area valutaria in cui i membri non rispettano le regole.
Quando ho chiesto se i riferimenti erano all’Italia, la risposta è stata: non solo, anche alla Francia.

L’Asset Quality Review vista da Francoforte

Un alto funzionario italiano della Banca Centrale Europea ha così commentato il mio articolo sul Sole

“Ti suggerisco una interpretazione alternativa dei risultati:

1. Confronto con Francia, Germania e Spagna: risultato dovuto al minore peso politico dell’Italia nella nuova vigilanza (se vuoi guarda l’organigramma delle posizioni di vertice). Questo sarà un problema che temo ci condizionerà assai in futuro.
2. Inoltre: le grandi banche tedesche e francesi – che determinano la media ponderata che citi – hanno una quota maggiore di assets che sono titoli marked to market or to model, che per definizione o si valutano da soli (market) o sono valutati in maniera abbastanza soggettiva (model – quelli dell’aqr non sono certo andati a controllare come ogni assumption impatta sulla valutazione finale, si sono grosso modo fidati dei modelli interni delle banche precedentemente validati dai vigilanti). Per cui era scontato non trovare grandi variazioni.
3. Confronto Unicredit-Popolari/MPS: le popolari e MPS dipendono assai di più di Unicredit dall’economia italiana, che si è deteriorata nell’ultimo anno e mezzo per cui l’aqr ha fatto emergere la forbearance che è prassi comune nell’industria (e che ha un suo senso se fatta in maniera intelligente). Direi che se è limitata all’1 per cento degli assets non ci dovremmo lamentare troppo…

Detto questo la Banca d’Italia secondo me ha giocato male questa partita.”

Mi sembrano tutti e tre punti importanti.

Il più preoccupante è il primo. Se anche alla BCE non si ha fiducia nell’oggettività dei regolatori, l’Europa è messa veramente male. A conferma la stessa fonte rivela che “più volte la Nouy (capo dell’ufficio vigilanza della BCE) ha parlato delle “nostre banche”, riferendosi a quelle francesi” . Siamo messi bene!

Il secondo punto è valido e meriterebbe una più approfondita analisi. Vale certamente per le grosse banche, ma non per quelle intermedie.

Mi preoccupa molto anche il terzo punto, ugualmente valido. È accettato (addirittura considerato giusto) fare forbearance. Questa è la scuola Bankitalia. Non mi preoccupa tanto l’errore medio, ma le sue punte, coincidenti con banche molto connesse politicamente come MPS e Carige.

Non mi stanco di ripetere che come tanti della mia generazione, io sono cresciuto con il mito della Banca d’Italia. In un Paese corrotto, la nostra Banca Centrale era una delle poche istituzioni che resisteva integra. Un governatore aveva perfino rischiato l’arresto per non cedere al potere politico. Purtroppo devo constatare che nel tempo anche questa istituzione si è adeguata al Paese.