Le Operazioni di Sistema sono Aiuti di Stato?

Il mio articolo si basava sulle informazioni presenti sulla stampa sabato 30 luglio. Nella notte era uscito un comunicato di MPS non accessibile a persone residenti negli Stati Uniti.  Il comunicato chiarisce alcuni punti, di qui l’aggiornamento e le parziali modifiche che trovate alla fine dell’articolo stesso.

Il Governo Renzi sembra aver messo insieme una complessa operazione di sistema per prevenire (o rimandare) il bail-in di Monte Paschi, gravato dalle sofferenze e “bocciato” agli stress test della European Bank Authority. Stando a notizie di stampa, il governo avrebbe trovato dei capitani coraggiosi disponibili ad investire fino a 3 miliardi di euro in un nuovo fondo: Atlante 2. Questo fondo prenderebbe a prestito altri 7 miliardi per comprare i 27 miliardi di sofferenze lorde di MPS ad un prezzo pari a circa un terzo del valore nominale (si parla del 32%), quando Bankitalia per simili sofferenze di Banca Etruria ha utilizzato il 17.6%, poi rivisto al 22.4%.  Anche con la valutazione più generosa di Bankitalia si tratterebbe di un regalo a MPS di 2.6 miliardi, ovvero (0.32-0.224)*27 . Incassato questo vantaggio, MPS sarebbe in grado di raccogliere 5 miliardi di capitale tramite l’emissione di nuove azioni. Il consorzio di collocamento sarebbe già pronto, anche se la data rimane incerta come incerta è la garanzia a fermo.

L’operazione è stata celebrata come “di mercato” e in quanto tale si pensa non incapperà nelle restrizioni agli “aiuti di stato” proibiti dalle regole europee. Ma cosa significa operazione di mercato? Perché mai dovrebbe essere organizzata da un governo? Può un’operazione “di sistema”, come dichiaratamente è Atlante 2, esser anche “di mercato”?

Il sito della Commissione definisce come aiuto di stato “qualsiasi vantaggio conferito in modo selettivo a delle imprese da un’autorità pubblica nazionale.” Specifica poi le condizioni perché un’operazione sia considerata aiuto di stato: ci deve essere l’intervento dello Stato, deve esserci un vantaggio conferito in modo selettivo e questo vantaggio deve avere il potenziale di distorcere la competizione e di influenzare l’interscambio tra stati membri.

In questo caso non c’è dubbio che ci sia stato l’intervento dello Stato, e non tanto per la partecipazione della Cassa Depositi e Prestiti, ma per gli incontri diretti che il Presidente del Consiglio ha avuto con i principali investitori, da Oliveti (Presidente dell’Associazione casse di Previdenza) a Donnet , AD di Generali, per finire a Jamie Dimon, AD di JP Morgan.

Ci sono pochi dubbi che in queste riunioni siano stati concessi dei favori in modo selettivo. Oliveti ha snocciolato le condizioni richieste a Renzi sulle pagine del Sole, forse per placare la rabbia degli associati. Non è dato sapere quali favori siano stati promessi a Donnet e Dimon, ma se non avessero ricevuto alcun favore in cambio dell’impegno ad acquistare intorno a 32 quello che la Banca d’Italia aveva valutato a 22.4, dovrebbero essere licenziati immediatamente dai rispettivi consigli.

Non sussiste dubbio neppure sul fatto che quest’operazione alteri la competizione. Le stesse condizioni non sono state offerte alla Banca Popolare di Vicenza o a – a suo tempo – a Banca Etruria.  Alterando in modo selettivo la capacità delle banche di sopravvivere, è probabile che l’intervento alteri lo scambio di servizi bancari tra stati.

Il problema non è specifico di Atlante 2, ma vale per tutte le operazioni cosiddette “di sistema”. La definizione stessa implica una violazione dei principi del mercato, dove gli agenti operano in modo autonomo e in competizione tra loro.

Le operazioni di sistema sono di gran lunga peggiori di un intervento diretto dello stato. Quando un governo interviene direttamente, almeno deve spiegare agli elettori gli obiettivi, i costi, e i potenziali benefici, pagandone il costo politico. Nelle operazioni di sistema, invece, né gli obiettivi né i costi sono trasparenti, con il rischio che i costi siano superiori ai benefici e che gli obiettivi invece che sociali (rimettere in moto l’economia), siano personali (la sopravvivenza di un governo). 

Il rischio maggiore è che gli obiettivi politici prevalgano su quelli economici. Che senso ha rimandare l’aumento di capitale di MPS? Esiste il rischio concreto che le condizioni di mercato girino o che si scopra che anche i crediti dubbi (altri 19,5 miliardi) valgano meno del 71% del valore facciale a cui sono stati iscritti a bilancio. Ma soprattutto in questi mesi MPS sarà paralizzata e non farà nuovi prestiti, rallentando l’economia.

Nel 2008 io ho criticato l’intervento statale disegnato dal Ministro del Tesoro Paulson come il peggiore possibile. Devo ricredermi. In Italia noi riusciamo a fare peggio.

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Aggiornamento di Lunedì 1 Agosto 2016

Il comunicato MPS chiarisce alcuni punti:

  1. Il prezzo pagato da Atlante per le sofferenze è il 27%. Nella cartolarizzazione dei crediti, gli azionisti di MPS ricevono una tranche junior, valutata il 6%. Così facendo si può dire che le sofferenze sono valutate al 33%. Questo escamotage sembra essere disegnato per creare per le sofferenze bancarie un benchmark fittiziamente alto, per evitare che a questi prezzi delle sofferenze altre banche risultino insufficientemente capitalizzate.
  2. MPS ipotizza che una tranche senior di queste sofferenze per un valore fino a 6 miliardi sarà collocata sul mercato. Atlante acquisterà per 1.6 miliardi la tranche successiva, che riceverà un pagamento solo se la quota senior sarà totalmente rimborsata. Di fatto è come se il fondo Atlante comprasse a leva, ma prendendo a prestito 6 e non 7 miliardi.
  3. La tranche senior, una volta che ha ricevuto un investment grade rating, sarà garantita dallo stato.
  4. Il fondo Atlante riceve un warrant per il 7% dell’equity dopo l’aumento di capitale.

Senza il valore del warrant — le cui condizioni sono ancora da determinare — il regalo a MPS è di 1.2 miliardi, invece dei 2.6 miliardi calcolati nel mio articolo. Rimangono valide tutte le altre considerazioni.

L’ amara Lezione Italiana degli Stress Test (pubblicato il 30 Ottobre 2014)

Qui di seguito l’articolo scritto il 30 Ottobre 2014 per Il Sole 24 ore a commento degli “Stress Test” diffusi dalla BCE quattro giorni prima.  

Un mio collega ha scritto un importante lavoro sulle carenze nella supervisione bancaria americana. La sua idea innovativa è stata quella di misurare la credibilità dei diversi supervisori paragonando i giudizi che questi supervisori davano alle stesse banche, quando queste passavano da un supervisore all’altro. I supervisori statali risultano sempre più generosi nei loro giudizi rispetto alla Federal Reserve: tanto più generosi, quanto più una banca è importante rispetto all’economia di un singolo Stato.

In altri termini, la differenza dei giudizi è una misura relativa di quanto più catturati siano i regolatori locali.
La stessa idea può essere applicata ai Comprehensive Assessment (valutazioni complessive) emesse dalla Banca centrale europea domenica scorsa, meglio noti come «stress test». I Comprehensive Assessment sono divisi in due parti. La prima, chiamata Asset Quality Review, valuta la coerenza tra i valori contabili degli attivi delle principali banche europee. Soltanto la seconda parte riguarda propriamente gli stress test, ovvero le simulazioni sulle possibili perdite che gli istituti di credito subirebbero in scenari più o meno catastrofici.
Negli ultimi giorni le pagine dei giornali sono state piene delle lamentele circa ipotetiche discriminazioni ai nostri danni nelle ipotesi sottostanti a questi scenari. Pur non capendo perché queste obbiezioni siano state sollevate soltanto dopo aver visto i risultati, preferisco ignorare questa parte del Comprehensive Assessment, e focalizzarmi sull’Asset Quality Review (AQR).

L’AQR compara i valori iscritti a bilancio a fine 2013 con i valori stimati secondo criteri condivisi a livello europeo. Siccome i valori iscritti a bilancio nel 2013 erano stati controllati dalle locali autorità di vigilanza, la differenza tra i valori contabili e quelli risultanti dall’analisi della Bce può essere usata come indicatore della qualità dei supervisori nazionali.
La Banca centrale greca vince il premio di peggiore supervisore. Il capitale di rischio (tier one common equity) di Piraeus Bank scende dal 13,7% al 10% soltanto con l’Asset Quality Review. Questo significa che l’attivo nel suo complesso era sopravvalutato del 3,7%. In media le banche greche hanno un attivo sopravvalutato del 2,9%, contro uno 0,2% di Francia e Germania e uno 0,3% della Spagna.
Estonia, Slovenia e Cipro seguono a ruota la Grecia, con una sopravvalutazione degli attivi tra il 2,4% e l’1,4%. Subito dopo arriva l’Italia con un 1,1%, di sopravvalutazione, quasi sei volte quella della Francia e della Germania.
Il fenomeno non è ugualmente diffuso tra tutte le banche italiane analizzate. A fronte di una Unicredit in cui le attività sono sopravvalutate solo dello 0,2% e di una Banca Intesa con lo 0,3%, abbiamo un Monte Paschi con una sopravvalutazione del 3,2% (simile a quella della peggior banca greca) e una serie di Banche Popolari, con sopravvalutazioni tra l’1,3% e il 2,2%. Si noti che tutte queste banche con gli attivi sopravvalutati hanno raccolto capitale durante il 2014, presentandosi quindi al mercato con valutazioni inflazionate. Se fossi uno dei risparmiatori che hanno sottoscritto questi aumenti di capitale cercherei il modo di far causa a Banca d’Italia per aver chiuso non soltanto un occhio, ma tutti e due, di fronte a queste sopravvalutazioni.

Mi si dirà che non è colpa della Banca centrale, ma della pesante recessione che ha colpito il nostro Paese. Quando l’economia è in crisi, i crediti diventano inesigibili e anche le banche migliori finiscono per accumulare pesanti perdite. Questo è vero, ma qui non si tratta di perdite, ma soltanto di perdite occultate. Perché la Banca d’Italia ha permesso questo occultamento al mercato? Altro che tutela costituzionale del risparmio, in Italia sono costituzionalmente protetti solo i banchieri, specie se politicamente affiliati. Gli stress test europei ci dicono che è ora di cambiare. Di questo siamo loro grati.

Deutsche Bank e Monte Paschi: similitudini e differenze

Testo dell’articolo pubblicato il 10.07.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”.

“Chi conosce la realtà delle cose, sa che la vera questione sulla finanza europea non sono gli Npl (i crediti deteriorati, ndr) delle banche italiane, ma sono i derivati di altre banche” ha dichiarato il Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Il riferimento non troppo implicito era a Deutsche Bank (DB), che sembra soffrire in Borsa (-45% dall’inizio dell’anno, -11% dalla Brexit) quasi quanto il nostro Monte Paschi (-76% dall’inizio dell’anno, -38% dalla Brexit). In Italia sono in molti ad usare questa analogia.  Non è solo l’antico “mal comune, mezzo gaudio”, ma anche la speranza che la crisi della principale banca tedesca renda più flessibili i politici di quel Paese, facilitando a livello europeo l’autorizzazione ad iniettare capitale pubblico in MPS senza prima coinvolgere i titoli subordinati. Si tratta di una ragionevole scommessa?

Ci sono molti punti di similitudine tra MPS e DB. Innanzitutto, entrambe soffrono sia di una crisi patrimoniale che di una crisi reddituale. Patrimoniale, perché il mercato non crede nel valore contabile delle loro attività. Con un attivo di €169 miliardi, MPS capitalizza in Borsa solo €600 milioni; con un attivo di €1629 miliardi DB capitalizza solo €16,3 miliardi. Le azioni possono essere considerate un’opzione sul valore degli attivi con un prezzo di esercizio pari al valore delle passività. Usando questo metodo, per ottenere una capitalizzazione di borsa pari a quella di MPS bisogna ipotizzare che il valore degli attivi sia del 33% inferiore a quello contabile, per DB del 24%.

Crisi reddituale perché entrambe faticano a trovare un nuovo modello di business che sia profittevole. Infine, entrambe sono state coinvolte in numerosi scandali. La differenza è che DB ha già pagato profumatamente ($2,5 miliardi solo per la manipolazione sul Libor), MPS non ancora.

Ma ci sono due importanti differenze. La prima è che DB è principalmente una banca d’affari (presta solo il 26% del suo attivo) che opera sui mercati internazionali. Per questo la Federal Reserve americana l’ha considerata una banca a rischio sistemico. MPS rimane ancora principalmente una banca commerciale (presta il 66% dell’attivo), con una forte presenza in Toscana e Veneto. Non può essere un rischio sistemico a livello internazionale, non perché non sia a rischio (il costo per assicurarsi contro il default di un bond di MPS è più di 3 volte quello per un titolo simile di DB), ma perché non è sufficientemente grande e interrelata con le altre grandi istituzioni mondiali da essere sistemica.

La seconda differenza è nel come sono finanziate. DB ha depositi per il 35% dell’attivo, obbligazioni per l’8%, e subordinati per 1%. MPS, invece, ha depositi per il 47%, obbligazioni per il 18%, e subordinati per il 2%. Ma le obbligazioni ed i subordinati di DB sono stati venduti sul mercato ed ora sono posseduti da investitori diversificati, molti internazionali. Non altrettanto MPS. Gli investitori sono principalmente nazionali e molti di questi sono investitori al dettaglio, a cui spesso questi titoli sono stati venduti non spiegando (o peggio occultando ) i rischi specifici.

La prima di queste differenze implica che la Germania può permettersi di aspettare ad intervenire su DB: anche se DB riducesse i suoi prestiti all’economia, l’impatto interno sarebbe limitato e comunque le altre banche potrebbero facilmente compensare. Non altrettanto vale per MPS. L’effetto sull’economia sarebbe devastante soprattutto su Toscana (già colpita dalla crisi di Banca Etruria) e Veneto (colpito dalla crisi di BPVi e Veneto Banca).

La seconda differenza implica che un bail-in dei subordinati ed anche dei creditori di DB non avrebbe conseguenze tragiche in Germania perché sarebbe assorbito nel portafoglio degli investitori istituzionali, mentre avrebbe effetti devastanti in Italia. Se il bail-in di €250 milioni di subordinati di Banca Etruria ha prodotto un suicidio, molta disperazione, ed una fuga dai depositi bancari, cosa potrebbe causare il bail-in di €2,8 miliardi di subordinati di MPS?

Qui di seguito i link ai precedenti articoli della Rubrica “Alla Luce del Sole”:

– Salvare le banche per far ripartire l’economia
– L’importanza di un Buon Piano di Successione e il Ruolo del Consiglio di Amministrazione 
– Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia
– Cosa fare per evitare che il “decreto banche” diventi solo un regalo alle banche
– Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori
– Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi 
– Le Responsabilità della Consob sulle Obbligazioni Subordinate
– Gli stipendi degli AD e quei paracadute troppo grandi

 

 

È il momento di un “TARP all’Italiana” per salvare le banche / To save banks the time has come for an Italian TARP

Article written for Il Sole 24 Ore – Articolo scritto per Il Sole 24 Ore
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Why we need an “Italian TARP” / Perché servirebbe un “TARP all’Italiana”
Why I support an Italian Tarp, but I opposed the U.S. one

 

Winston Churchill amava ripetere che si poteva contare sul fatto che gli americani facessero sempre la cosa giusta, dopo aver esaurito tutte le alternative possibili. Per il governo italiano si tratta di una speranza, più che di una certezza. L’unica certezza è che tutte le alternative per salvare il sistema bancario italiano sono state già esplorate senza successo. E che il tempo stringe. L’incertezza sul reale valore dei crediti deteriorati nei bilanci delle banche sta producendo una crisi generalizzata di fiducia nel sistema bancario, che potrebbe avere effetti devastanti. Per evitarla rimane solo un intervento diretto dello stato nel capitale delle banche. Non è una raccomandazione che ripeto a cuor leggero, ma a mali estremi, estremi rimedi. E certo i mali oggi sono estremi.

Il motivo per cui sono arrivato già da tempo a questa raccomandazione è l’esperienza diretta che ho avuto della crisi americana del 2007-2008. Anche in quel caso, si cercò prima di creare un fondo per acquistare i mutui tossici (la versione americana dei nostri crediti deteriorati), poi di farli comprare allo stato, alla fine si capì che l’unica soluzione era immettere capitale pubblico nel sistema bancario.

Questa soluzione ha numerosi vantaggi. Primo, si fa molta più strada con gli stessi soldi. Grazie all’elevata leva finanziaria delle banche gli stessi fondi investiti in azioni possono indirettamente comprare quasi 20 volte l’ammontare di crediti deteriorati. Secondo, è molto più rapida. Se lo stato non vuole strapagare per i crediti deteriorati e rimetterci molti soldi, deve organizzarne in modo molto serio l’acquisto. Non esiste il tempo per farlo. Terzo, permette maggiori meccanismi di protezione dei contribuenti. Il contribuente americano ha finito per guadagnarci dall’intervento dello stato nelle banche avvenuto nel 2008.

In un mondo ideale questo intervento dovrebbe essere effettuato dal Tesoro italiano. Siccome non viviamo in un mondo ideale e le regole europee ci proibiscono un tale intervento prima di aver effettuato un bail-in pari all’8% dell’attivo bancario, l’unica soluzione possibile è fare questo intervento tramite la Cassa depositi e prestiti (Cdp), che è fuori dal perimetro dello Stato. Nel colmo della crisi del 2008 ad investire non ci fu solo il Tesoro americano, ma anche Warren Buffet, che guadagnò profumatamente. Se l’intervento avviene a condizioni di mercato non solo l’Italia si mette al riparo da critiche dell’Europa, ma protegge anche i suoi contribuenti.

Per funzionare, questo intervento deve essere rapido e deve essere decisivo. Per essere rapido deve essere basato su regole semplici e facilmente verificabili. Al contempo deve proteggere i soldi dei contribuenti, senza violare i diritti degli attuali azionisti. Raggiungere tutti questi obiettivi contemporaneamente è difficile ma non impossibile, facendo tesoro dell’esperienza americana.

Innanzitutto, capiamo l’entità del problema. Ci sono circa 200 miliardi di crediti deteriorati. In media questi crediti sono valutati al 40%, ma il mercato ritiene che valgano solo il 20%. Quindi un’iniezione di capitale pari a 40 miliardi è in grado di assorbire le perdite anche nell’ipotesi peggiore e quindi tranquillizzare i depositanti e gli obbligazionisti.

La Cdp dovrebbe quindi impegnarsi ad investire in ogni banca una cifra pari al 20% dei crediti in sofferenza. Il segreto è immettere capitale sotto forma di azioni “preferred” convertibili in azioni ordinarie. Il vantaggio delle preferred americane, rispetto alle nostre privilegiate, è che sono redimibili da parte della società emittente ad un valore predeterminato. Se la banca è sana, può facilmente nei mesi successivi emettere azioni ordinarie sul mercato e riacquistare le preferred emesse, tutelando il valore degli azionisti esistenti. Se invece la banca non è solida, questo capitale servirà di garanzia.

Le preferred sono subordinate a tutti i titoli di debito (compresi i bond subordinati), ma hanno priorità rispetto al capitale azionario esistente. Quindi i contribuenti non vanno a proteggere gli azionisti, ma solo i depositanti e gli obbligazionisti. Se le perdite sono elevate, gli azionisti esistenti sono spazzati via e le preferred diventano azioni ordinarie.

Per evitare che i banchieri se ne approfittassero, le preferred americane avevano tre clausole importanti. Primo, proibivano il pagamento di qualsiasi dividendo alle ordinarie fino a quando le preferred non erano state riacquistate. Secondo, ponevano dei limiti molto rigidi (e molto bassi) ai compensi del management. Terzo, contenevano un warrant (ovvero il diritto a comprare ulteriori azioni ad un prezzo prestabilito al di sopra dell’attuale prezzo di mercato). Questo garantiva al contribuente parte del beneficio dell’operazione in caso di successo. Dovremmo anche noi seguire quest’esempio.

Nel caso americano le preferred erano prive dei diritti di voto fino a quando non erano convertite, perché si temeva un’eccessiva ingerenza dello stato nell’allocazione del credito. Ovviamente questo problema esiste anche in Italia, ma – data la qualità inferiore della corporate governance italiana – esiste anche il rischio che il management approfitti dei soldi dei contribuenti. Per questo penso sia un buon compromesso assegnare alle preferred il diritto di nominare l’intero collegio sindacale e il presidente del consiglio di amministrazione, lasciando agli attuali azionisti il diritto di gestire la società, almeno fino a quando le preferred non sono convertite.

Ovviamente esiste anche un problema politico. Negli Stati Uniti l’intervento statale ha prodotto come reazione il Tea Party e – in qualche modo – ha creato il consenso per un personaggio come Donald Trump. Come evitare che questo succeda in Italia?

Da un lato bisogna spiegare quale è oggi l’alternativa: il caso Etruria moltiplicato per 100. L’intervento statale non è quindi per salvare i banchieri, ma per salvare i depositanti e tutti coloro ai quali sono stati rifilati i bond bancari “sicuri”. Dall’altro bisogna fugare anche il minimo dubbio che questa manovra sia fatta per salvare i soliti noti. Per questo contestualmente all’investimento deve essere varata una commissione d’inchiesta, composta non da parlamentari, ma da esperti indipendenti. Questi dovranno accertare le possibili responsabilità di persone e istituzioni e riportare in modo pubblico al Parlamento nel giro di 9 mesi.

In questo difficile momento il governo non deve avere paura di agire: l’inazione sarebbe una colpa ben maggiore. Non deve neppure temere che i cittadini non capiscano. Se opportunamente informati, sono più che capaci di capire e oggi più che mai meritano rispetto e fiducia. L’importante è non mentire loro dicendo che è tutta colpa del Regno Unito. La Brexit è stata sola la famigerata scintilla, tutto il resto è di produzione nazionale.

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Winston Churchill loved to say that the Americans would alway do the right thing — after having exhausted all other possible alternatives. For Italy’s government and its banks, this is a hope more than a certainty. The only certainty is that every possible alternative to save the Italian banking system has been explored, unsuccessfully. And that time is short. Questions as to the real value of deteriorated credit on bank balance sheets is producing a generalized crisis of confidence in the banking system that could end up being devastating. To avoid it, the only option is direct intervention in the capital situation of banks. It’s not a recommendation that I offer with a light heart — but desperate times call for desperate measures. And desperation there is.

The reason why I came to this conclusion some time ago is the first-hand experience I had with the US crisis of 2007-2008. In that case as well, the first attempt was to create a fund to acquire toxic debt (the American version of our deteriorated loans), then to have the state buy them. In the end, it became clear that the only solution was to inject public capital into the banking system. 

In an ideal world, this would be carried out by the Italian Treasury. Since we don’t live in an ideal world, and EU rules forbid a move like that before having carried out a bail-in for 8% of bank assets, the only possible solution is to go through the Cassa depositi e prestiti (CDP) outside the perimeter of the state. 

First of all, we understand the size of the problem — about €200 billion worth of deteriorated credit valued at 40%, while the market insist on valuing it at 20%. So a capital infusion equal to €40 billion would be able to absorb the losses even in the worst case scenario, thus calming account holders and bond holders.

Thus the CDP should commit itself to invest in every bank a figure equating to 20% of non performing loans. The secret is to issue the capital in the form of “preferred” convertible shares. The advantage of U.S. preferred shares compared with ours is that they are redeemable by the issuer at a predetermined value. If the bank is healthy, it can easily, over successive months, issue ordinary shares on the market to re-acquire the preferred shares it issued, protecting the value of existing shares. If, instead, the bank is not healthy, this capital can serve as a guarantee. 

The preferred shares are subordinate to all debt (including subordinated bonds) but they have priority over existing shares. So this doesn’t protect shareholders, but only account holders and bond holders. If losses are high, existing shareholders are swept away and preferred shares become ordinary shares. 

To avoid bankers profiting, US preferred shares are bound to three important clauses. First, it’s prohibited to pay any form of dividend on ordinary shares until the preferred are reacquired. Second, there are rigid (and very low) limits on management compensation. Third, they contain a warrant (the right to purchase additional shares at a predetermined price that is above the current market price). This guarantees the taxpayer part of the benefit of the transaction if it succeeds. We need to follow that example. 

In the US case, the preferred shares had no voting rights until they were converted, because there was fear of an excessive interference in credit allocation. Obviously, this problem also exists in Italy but — given the inferior quality of Italian corporate governance — there’s also a risk that management would profit from taxpayer money. That’s why I think it was a good compromise to assign to the preferred shares the right to name the entire board of auditors and the chairman of the board, leaving current shareholders the right to manage the company, at least until the preferreds are converted. 

There’s obviously a political problem. In the US, government intervention produced the Tea Party in reaction and, in a way, created a degree of consensus around a personality like Donald Trump. How can we avoid that happening in Italy? 

On one hand, it’s necessary to explain what the alternative is:the Etruria case times one hundred. State intervention isn’t meant to rescue bankers but to save account holders and all those who were sold supposedly “secure” bank bonds. And on the other hand, there must be no shadow of a doubt that the move was meant to protect the usual suspects. So there should be an investigatory commission set up, composed not of politicians but of independent experts. They must determine the potential responsibility of people and institutions and bring their findings publicly to Parliament within nine months. 

At this difficult time, the government should not be afraid to act: inaction would be a much greater fault. Nor should it fear that Italian citizens won’t understand. If appropriately informed, they are more than able to understand and today, more than ever, they deserve respect and trust. The important thing is not to lie to them by saying that it’s all the U.K.’s fault. Brexit was only the famed spark, all the rest is locally produced.

 

Salvare le banche per far ripartire l’economia

Testo dell’articolo pubblicato il 3.07.2016 su “Il Sole 24 Ore”,  nella rubrica “Alla luce del Sole”.

Mentre il governo festeggia lo scudo da 150 miliardi come una vittoria, i titoli bancari continuano a precipitare in Borsa. Nonostante un lavorio febbrile, il governo è riuscito a fare molto poco in questo campo. Perché? È solo colpa dell’Europa?

Nel settore bancario italiano esistono 360 miliardi di prestiti difficilmente esigibili (200 vere e proprie sofferenze, altri 160 di prestiti in difficoltà). La colpa di tanti cattivi prestiti in parte è dei 7 anni di recessione, in parte della incapacità (se non della collusione) dei banchieri. Una commissione d’inchiesta dovrebbe stabilire le relative responsabilità (e quelle di chi doveva supervisionare). Ma nel frattempo dobbiamo rimettere in sesto il sistema bancario, perché senza un sistema bancario funzionante imprese e famiglie non hanno credito e l’economia del nostro Paese non riparte. Risanare il sistema bancario è molto più importante della riforma dello Statuto dei Lavoratori, dei contributi fiscali, e della riforma costituzionale. È su questo che si gioca oggi la ripresa economica del Paese.

Non si tratta di risolvere dei momentanei problemi di liquidità (la BCE li risolve più che bene), né di evitare il fallimento di alcune banche. Si tratta di rimettere le banche in grado di effettuare prestiti. Oggi la maggior parte di esse non è in grado di effettuare nuovi prestiti, perché non ha il capitale per farlo. Né vuole aumentare il capitale, perché ai prezzi attuali diluirebbe pesantemente (o azzererebbe) gli azionisti esistenti. Conviene ai banchieri aspettare e sperare in un futuro migliore e/o in un aiuto statale.

Con le sue proposte il governo ha contribuito a tenere vive queste speranze. Dalla “bad bank” alle garanzie sulle sofferenze, dal fondo Atlante allo scudo appena approvato, gli interventi sono stati concepiti come sostegno alle banche, non come sostegno all’economia reale: ovvero sono stati mirati a far sopravvivere le banche, ma non a metterle nelle condizioni di ricominciare a fare prestiti ad imprese e famiglie.

Tutti dicono che è colpa dell’Europa. Sicuramente la nuova direttiva europea sulla risoluzione delle banche in dissesto impone dei vincoli, ma non impedisce interventi diretti dello Stato “per evitare o porre rimedio a una grave perturbazione dell’economia e preservare la stabilita finanziaria.” Tra i metodi di quest’aiuto si annoverano anche “la sottoscrizione di fondi propri o l’acquisto di strumenti di capitale,” purché le banche non siano insolventi. Questa secondo me è esattamente la situazione in cui si trovano le banche italiane: non insolventi, ma sufficientemente a rischio di insolvenza da essere paralizzate e non fare prestiti.

In questa situazione uno scudo disegnato per risolvere problemi di liquidità (e non di mancanza di capitale) non funziona. Anzi, così come è stato disegnato è addirittura controproducente. Il governo si è affrettato a dire che lo scudo non parte subito, ma sarà avviato solo a domanda delle banche in difficoltà. Ovviamente nessuna banca vorrà chiederlo per evitare lo stigma sul mercato. Nel frattempo si sa che ci sono banche in difficoltà (altrimenti perché creare lo scudo?), ma non quali. Per di più non c’è neppure la certezza che le banche ricorrano allo scudo in tempo, perché la paura dello stigma le indurrà a farlo all’ultimo momento possibile. L’unica cosa certa è che grazie allo scudo le banche non si rimetteranno a prestare.

Non sono un giurista, ma secondo me (e secondo tutti quelli cui ho chiesto anche a livello europeo) un intervento sul capitale tipo quello da me descritto sul Sole di mercoledì scorso è fattibile. L’unico dubbio è se possa essere fatto direttamente dallo Sato invocando la clausola dei problemi sistemici o attraverso la CdP, che è al di fuori del perimetro dello Stato. Se non avviene quindi non è per colpa dell’Europa, ma perché non piace alle banche e soprattutto ai banchieri, che vedrebbero azzerarsi il valore delle loro stock option, e alle fondazioni bancarie, che perderebbero la maggior parte del patrimonio. Le imprese e le famiglie ringraziano.

Qui di seguito i link ai precedenti articoli della Rubrica “Alla Luce del Sole”:

L’importanza di un Buon Piano di Successione e il Ruolo del Consiglio di Amministrazione 
Le Occasioni Mancate dell’Ufficio Studi Bankitalia
Cosa fare per evitare che il “decreto banche” diventi solo un regalo alle banche
Le Assicurazioni, Atlante e la Tutela dei Risparmiatori
Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi 
Le Responsabilità della Consob sulle Obbligazioni Subordinate
Gli stipendi degli AD e quei paracadute troppo grandi

Etica e integrità dei vertici per controllare i rischi

Testo dell’articolo scritto per la rubrica “Alla luce del Sole” e pubblicato il 22.05.2016 su “Il Sole 24 Ore” . Qui e qui i precedenti articoli della rubrica.

Tradizionalmente la gestione del rischio delle banche era una questione matematico-quantitativa. Dopo la crisi si è capito che dietro quelle formule ci sono degli esseri umani pensanti. Per questo per controllare il rischio non si parla più solo di beta, delta o vega, ma di etica, integrità, ed esempio che emana dai vertici, quello che gli inglesi chiamano il “tone at the top.” Questo nuovo trend internazionale, codificato in un rapporto del 2015 del Bank of International Settlement (Banca dei regolamenti internazionali, Bri), oggi sta diventando la norma.
Per la prima volta la Bri identifica come una cultura aziendale volta a «rafforzare le norme per un comportamento responsabile ed etico» sia una «componente fondamentale della buona corporate governance» delle banche. La responsabilità di coltivare questa cultura spetta al consiglio di amministrazione che deve «creare aspettative che tutte le attività siano condotte in modo legale ed etico, e vigilare sul rispetto di tali valori da parte dei dirigenti e dipendenti». Il consiglio deve anche «assicurarsi che i dipendenti, compresi i dirigenti, siano consapevoli del fatto che a comportamenti inaccettabili e trasgressioni faranno seguito le opportune azioni disciplinari o di altra natura».

Le autorità di vigilanza, a loro volta, devono «fornire una guida per la supervisione e la corporate governance nelle banche , anche attraverso valutazioni complete e una regolare interazione con il consiglio e gli alti dirigenti, e devono richiedere azioni correttive e di miglioramento quando necessario». In questo spirito, in Olanda la vigilanza bancaria sottopone i candidati ai consigli delle banche a dei test psicologici, per vedere la loro attitudine ad intervenire, anche quando questo implichi contraddire l’amministratore delegato.
Sono cambiamenti radicali che purtroppo arrivano troppo tardi per evitare i disastri bancari cui abbiamo assistito, ma non troppo tardi per evitare che si ripetano. Ma quali sono le implicazioni pratiche di queste direttive in Italia?

Innanzitutto che i nuovi consigli di amministrazione di Banca Popolare di Vicenza (Bpvi), MontePaschi, Carige, e Veneto Banca hanno non solo il diritto, ma anche il dovere di iniziare l’azione di responsabilità nei confronti del management precedente qualora ci sia anche il minimo estremo giuridico. Troppo spesso questa decisione viene presa seguendo un’analisi costi/benefici di brevissimo periodo. Siccome gli ex manager si affrettano ad intestare conti e proprietà a figli e parenti, il consiglio decide che non è nell’interesse economico della società iniziare l’azione di responsabilità perché il costo è superiore al potenziale beneficio monetario (in caso di vittoria, il colpevole non ha la capienza economica per pagare). Il rapporto della Bri, invece, implica che l’azione vada intrapresa per una questione di principio: per assicurarsi che i dirigenti siano consapevoli che a comportamenti inaccettabili faranno seguito le opportune sanzioni, non solo pecuniarie ma anche morali.

In secondo luogo, il rapporto ci dice che la supervisione della Banca centrale europea ha il diritto/dovere di intervenire chiedendo modifiche della composizione dei consigli di amministrazione e dei collegi sindacali delle banche con un passato controverso. Ad esempio non è possibile che metà del consiglio e l’intero collegio sindacale della Bpvi sia lo stesso che sotto la gestione Zonin. Come può fornire un esempio di integrità e correttezza al resto del personale della banca?

Per finire, c’è la capacità di intervento del fondo Atlante, gestito da Alessandro Penati. Per decenni, sulle pagine del Sole prima e del Corriere e Repubblica poi, Penati è stato un faro che ha illuminato il dibattito sulla corporate governance in Italia. Ora che ha il potere di migliorarla, nominando e revocando il consiglio e il collegio di Bpvi ed iniziando da socio l’azione di responsabilità contro i vertici precedenti, non può tirarsi indietro. A rischio non è solo la sua credibilità, ma quella di tutti noi accademici.

Il sonno del regolatore genera mostri

Articolo pubblicato l’1.05.2016 su “Il Sole 24 Ore” con il titolo “Ciclone Lehman e il mercato scopre il valore delle regole”

Il sonno del regolatore genera mostri. Questo titolo descrive gli anni zero del XXI secolo, il decennio che ci ha mostrato quanto gravi possano essere i danni della finanza deviata. Il XX secolo si era chiuso nell’entusiasmo generale. Alla rivoluzione digitale si era accompagnata quella finanziaria. I flussi di capitale verso i Paesi emergenti sostenevano la crescita in Cina e India. L’euforia di Borsa aveva scatenato la creazione di nuove imprese, non solo in America, ma anche nella vecchia Europa. I banchieri centrali ci illudevano di aver il mondo sotto controllo. Non a caso quel periodo fu chiamato la grande moderazione.

Era la calma prima della tempesta. Nel decennio successivo gli scandali contabili di Enron e WorldCom, quelli finanziari di Bear Stearns e Lehman, le tensioni nell’eurozona ci hanno lasciato un mondo in crisi economica, ma ancora più in crisi di fiducia. Si guarda ancora ai banchieri centrali, sperando che possano condurci fuori da questa tempesta, ma non c’è più fiducia che lo sappiano (o lo possano) fare. A cosa si deve cotanto disastro?

La risposta ci viene dalla firma più prestigiosa che il Sole abbia mai avuto: Luigi Einaudi. Nelle sue «Lezioni di Politica Sociale» il nostro rimpianto Presidente ci spiega che il mercato ha bisogno del carabiniere. Senza un’autorità che faccia rispettare le regole, il mercato non funziona. Tantomeno la finanza. Nel primo decennio del XXI secolo i carabinieri della finanza si sono assopiti (per non dire che sono stati messi a dormire dagli stessi finanzieri).

La crisi americana del 2008 non può essere spiegata in altro modo. Centinaia di migliaia di mutui falsi, fatti a persone inesistenti o che non avrebbero mai potuto rimborsarli, sono stati venduti come oro agli investitori di tutto il mondo, sotto gli occhi compiacenti di tutti i regolatori, pubblici e privati. Per moltiplicare i guadagni, si è fatto un uso smodato della leva finanziaria, lasciando alle banche stesse il compito di monitorare il proprio rischio. Quando poi la frode è cominciata a venire a galla, il sistema finanziario americano è entrato in crisi, con ripercussioni a livello mondiale.

Per l’Europa, però, la crisi di Lehman è stata solo la scintilla che ha fatto esplodere una bomba di produzione nostrana. Invece dei mutui falsi, le banche europee si erano specializzate nel rifilare derivati e titoli strutturati nel portafoglio dei Comuni e dei pensionati, sotto l’occhio compiacente dei regolatori. Non solo in Italia. Basta leggere su promarket.org le cronache di un ex-banchiere londinese. Ammette che una delle strategie della sua banca era «approfittare delle debolezze dei nostri clienti». Ma le banche europee si sono dedicate anche ad un’altra attività pericolosa: prestiti ai Paesi del Sud Europa. Questa attività non è solo stata tollerata dai regolatori: è stata incoraggiata. Le regole di Basilea, come applicate dall’Unione europea, prevedevano che tutti i debiti sovrani dell’Ue dovessero essere considerati come attività prive di rischio. Perché dunque preoccuparsi della solvibilità dei Paesi?

Come per l’America, così anche per l’Europa, la realtà a lungo occultata è poi esplosa in tutta la sua violenza. Il decennio si chiude con la crisi greca e il peggior intervento di salvataggio mai effettuato dal Fondo monetario internazionale. Insieme alla Banca Centrale Europea e all’Ue, che volevano coprire i loro errori passati (e salvare le banche francesi e tedesche), il Fmi presta alla Grecia i soldi per ripagare le banche europee, pur sapendo che quei prestiti non potranno essere mai restituiti. Questo innesca non solo una crisi economica in Grecia, ma una crisi di fiducia nell’euro, che si ripercuote sull’economia di tutto il continente e si trasforma poi in crisi politica.

Cinque anni dopo è difficile prevedere quali saranno le conseguenze ultime di questa crisi. Ma non ci devono essere dubbi su dove questa crisi è cominciata: non nelle stanze di Lehman o in quelle del governo greco, ma nelle stanze di chi, dovendo controllare, non lo ha fatto.

Se la Banca Regionale è come Spotlight…

Articolo pubblicato su L’Espresso

Nel film da Oscar si dice che il silenzio connivente ha permesso gli abusi sui ragazzi.
Lo stesso  è successo con gli scandali degli istituti di credito.

La crisi delle banche regionali, da Banca Etruria a Cassa di Ferrara, da Veneto Banca a Banca Popolare di Vicenza è più che una crisi bancaria, è la crisi di un modello di sviluppo, basato su un localismo spinto, che spesso degenera in collusione. Nelle banche locali il prestito “agli amici”, non è una deformazione, ma la stessa ragione d’essere. E fintantoché gli amici sono meritevoli di credito, questo modello presenta degli evidenti vantaggi. Quando l’imprenditore è persona conosciuta dalla cerchia degli amici, non c’è bisogno di sofisticate valutazioni sull’affidabilità, né sono così importanti le garanzie: la sanzione sociale è sufficiente a garantire i crediti, come ha dimostrato il premio Nobel Mohammed Yunus con la Grameen Bank.

Questo modello funziona bene a tre condizioni: una dimensione limitata della banca, che permette a tutti i soci di controllare l’operato degli amministratori; un forte senso etico, che riduce il rischio di abusi, e uno sviluppo organico del territorio, che offre opportunità di sviluppo a tutti i soci, rendendo meno importante la capacità di negare il credito a chi non se lo merita, il vero tallone d’Achille delle banche che intrecciano amicizia e credito.

Queste condizioni erano per lo più presenti dagli anni Cinquanta a metà degli anni Novanta. Le aggregazioni bancarie di metà anni Novanta hanno aumentato la dimensione di molte di queste banche regionali, rendendone più difficile la governance. Nel frattempo, l’immissione sul mercato europeo di merci cinesi a prezzi molto ridotti ha prodotto un cambiamento strutturale del modello di sviluppo. Non bastava più produrre a bassi costi, bisognava innovare e differenziare. Se alcune imprese lo hanno capito e ne hanno approfittato, molte altre no. Le banche avrebbero dovuto concedere i prestiti agli uni, ma non agli altri. Una selezione non facile quando gli imprenditori senza futuro siedono nei consigli di amministrazione delle banche regionali o sono legati con rapporti di amicizia e di affari con gli amministratori stessi. Questo cambiamento economico rendeva necessario un maggior rigore nel decidere a chi concedere i prestiti e a chi no, rigore di cui le banche regionali sono strutturalmente carenti. In quegli anni il passaggio dalla generazione che aveva fatto la Resistenza a quella successiva aveva prodotto anche un calo della tensione etica, proprio nel momento in cui ce ne sarebbe stato maggiormente bisogno. Senza questo spirito etico l’amicizia si trasforma facilmente in collusione, o almeno in silenzio connivente, silenzio che vede colpevoli non solo il fior fiore dell’imprenditoria locale, ma anche le maggiori istituzioni nazionali.

Nel film “Il caso Spotlight”, vincitore del premio Oscar di quest’anno, si dice che se ci vuole un villaggio per crescere un fanciullo, ci vuole anche un villaggio per violentarne uno. È il riferimento al silenzio connivente, non solo della Chiesa Cattolica, ma di tutto l’establishment bostoniano di fronte alle notizie di abusi di bambini effettuati da preti pedofili.

Lo stesso vale per molte di queste banche regionali. Vicenza si sente violentata dalla crisi della sua Banca Popolare (BPVi). Gli azionisti, che hanno già perso il 90 per cento del loro investimento, ora temono di veder azzerato l’intero investimento. Le imprese faticano a finanziarsi. I depositanti non si sentono più al sicuro.

La colpa di questo sfregio non è solo del padre padrone della banca Gianni Zonin, che l’ha presieduta per più di 20 anni, ma di tutti coloro che hanno avallato, anche solo con il silenzio, la sua gestione. A cominciare dal perito, dal collegio sindacale e dalla società di revisione, che quella valutazione di 62 euro hanno certificato. Per finire alla Banca d’Italia, che avrebbe dovuto vigilare sulla BPVi, e alla Consob, che ogni volta che la BPVi ha raccolto capitale, non ha imposto la massima trasparenza sul metodo con cui le valutazioni sono state ottenute. Moralmente sono tutti corresponsabili di questa crisi.

In “Spotlight” è la rottura di questo silenzio connivente che permette l’esposizione del problema in tutta la sua grandezza, forzando la stessa Chiesa Cattolica a un cambiamento. Anche Vicenza ha bisogno di questa operazione di pulizia. Finora, però, tutti sembrano voler coprire e andare avanti.

I miei tre punti per l’Agenda per l’Italia

Sabato scorso ho partecipato al panel conclusivo del workshop Ambrosetti a Cernobbio, in cui gli spunti emersi dai precedenti interventi venivano sintetizzati ed elaborati in una “Agenda per l’Italia”, di fronte al Ministro dell’Economia Padoan. La stampa non era ammessa, quindi per correttezza mi limiterò a riassumere solo il mio intervento, tacendo sui contributi degli altri relatori, Valerio De Molli e Nouriel Rubini.

Io ho individuato nella situazione italiana tre fattori di debolezza: una deflazione internazionale, dei problemi strutturali preesistenti alla crisi finanziaria e una crisi bancaria.

Cominciando dalla crisi bancaria, su cui la capacità di intervento del governo italiano è maggiore, il problema è duplice: da un lato bisogna risolvere l’incertezza che sta attanagliando alcune grandi banche e che rischia di asfissiare l’economia reale; dall’altro bisogna farlo in un modo che sia politicamente compatibile, evitando di scatenare quella (giusta) rabbia popolare che tanto ha fatto per destabilizzare il sistema politico americano dopo la crisi del 2008 e di cui vediamo ancora ora le conseguenze. Ben venga quindi un ruolo della CDP come investitore di ultima istanza negli istituti in difficoltà che non riescono a reperire capitali sul mercato, ma a due condizioni. La prima è che i termini siano simili ad un fallimento per tutte le parti coinvolte (inclusa la possibilità di revocatoria fallimentare), tranne i creditori.  La seconda è che ci sia una commissione d’inchiesta su come e perché queste banche sono entrate in crisi senza che i meccanismi di allerta (sia a livello societario che istituzionale) funzionassero.

Se questa commissione venisse istituita, io mi sono offerto di guidarla per il compenso simbolico di 1 euro.

La crisi strutturale riguarda l’incapacità del nostro sistema di aumentare la produttività, ovvero il prodotto per ora lavorata. Recenti studi internazionali dimostrano che solo metà della produttività di un Paese è dovuta alla quantità totale di capitale e lavoro investiti, il resto è determinato da come sono allocati questi fattori. A questo fine è cruciale la flessibilità di trasferire questi fattori da un’azienda ad un’altra. Negli anni passati, l’enfasi è stata sulla flessibilità del fattore lavoro. È giunto il momento di focalizzarsi sulla flessibilità del fattore capitale.  Questo significa anche favorire il trasferimento di risorse da aziende meno produttive ad aziende più produttive.

Un ruolo cruciale in questa riallocazione gioca il settore bancario. A questo fine le riforme delle Popolari e delle BCC sono state un passo in avanti, così come lo è stata la riforma della legge fallimentare. Ma si può fare di più. In particolare è necessario migliorare la tutela degli investitori di minoranza: senza questa tutela nessun imprenditore è disposto a fondersi o a trasferire le risorse della propria azienda in un’azienda in cui a comandare è un altro. Una Consob più attiva è un passo essenziale in questa direzione.

La terza debolezza riguarda una situazione internazionale in cui c’è un eccesso di risparmio. Per motivi demografici, l’Occidente vuole risparmiare molto. Data questa offerta di risparmio il tasso di interesse reale di equilibrio dovrebbe essere negativo. Ma in presenza di una bassa inflazione e di un limite (tra lo zero e il -0.5%) cui possono scendere i tassi di interessi nominali, il mercato tende a riequilibrarsi distruggendo risparmio attraverso una recessione. Esistono due politiche per rimediare a questo problema: un finanziamento monetario del deficit, che faccia aumentare l’inflazione, o un aumento del deficit pubblico che riduca il risparmio aggregato. Entrambe queste politiche sono proibite dalle regole dell’eurozona, regole che non possono essere facilmente rinegoziate.

Il governo ha una responsabilità di porre questo problema all’Europa. In verità, questo governo ha il merito di essere stato, nei confronti dell’Europa, più critico dei precedenti. Ma lo ha fatto in modo troppo timido e troppo isolato, spesso usando le sue critiche come scusa per chiedere maggiore flessibilità sul deficit. Deve condurre invece una battaglia di principio e formare una coalizione contro l’egemonia culturale della Germania.

Perché è necessaria un’agenzia a difesa dei risparmiatori

Testo dell’articolo di Luigi Guiso e Luigi Zingales pubblicato il 3.01.2016 su “Il Sole 24 Ore”

Il fallimento di quattro piccole banche locali è un fenomeno circoscritto, ma rischia di avere ripercussioni più vaste se contribuisce ad aumentare la sfiducia dei risparmiatori. Quando la sfiducia prevale si rischia di fare di ogni erba un fascio, non distinguendo tra le molte banche solide e poche pericolanti. Nel frattempo la sfiducia rischia di aumentare. Per evitare che questo succeda bisogna garantire al risparmiatore che si affaccia allo sportello trasparenza e comprensibilità – come ha ricordato sul Sole Roberto Napoletano. Come possiamo consentire ai risparmiatori italiani di mantenere la fiducia nel nostro sistema di risparmio?

Il primo passo è riconoscere la ragione della sfiducia. La sfiducia è la risposta agli inganni finanziari direttamente sperimentati o osservati tramite i media. Ma rischia di essere accresciuta dalla consapevolezza che in Italia nessuna autorità è preposta specificamente alla protezione del risparmiatore.

Non lo è Consob che accanto alla «tutela degli investitori», annovera la «stabilità e il buon funzionamento del sistema finanziario». Ancor meno lo è Banca d’Italia che ha come mandato principale la stabilità del sistema bancario.

Questo non vuol dire che a queste due istituzioni, in particolare alla Consob, non siano stati assegnati vari compiti a difesa dei risparmiatori. Ma significa che entrambe non hanno la difesa dei risparmiatori nel loro Dna. Sarebbe sciocco pensare di poter risolvere questo problema semplicemente rimpiazzando i vertici dei due istituti. È la cultura di entrambe queste istituzioni che andrebbe cambiata. Ma non è possibile cambiarla senza cambiare la loro missione fondamentale e questo sarebbe pericoloso. Il buon funzionamento dei mercati finanziari e la stabilità del sistema bancario sono obiettivi essenziali, che non possono essere eliminati e vanno anzi rafforzati. Ergo la necessità di una nuova istituzione unicamente dedicata alla difesa dei risparmiatori

È la conclusione cui sono arrivati gli Stati Uniti dopo la crisi del 2008, quando dovettero affrontare un simile crollo di fiducia. Crearono un’autorità per la Protezione finanziaria dei consumatori (Consumer financial protection bureau, Cfpb), la cui funzione è di «rendere le regole più efficaci, farle rispettare in modo coerente ed equo, e di … mettere i consumatori nelle condizioni di prendere un maggiore controllo sulla loro vita economica».

Continua a leggere l’articolo sul sito de “Il Sole 24 Ore”

Leggi altri articoli di Luigi Zingales sul tema “Banche”

Per far ripartire l’Italia occorre rimettere in pista il sistema bancario, senza colpi di spugna

“Ogni rivoluzione che manda i banchieri alla ghigliottina si trova presto nella necessità di risuscitarli non appena le ruote del commercio si fermano”. Lo scrivevamo nel 2003 con Raghu Rajan nel nostro “Salvare il Capitalismo dai Capitalisti,” ma vale ancora oggi. La giusta rabbia contro un sistema bancario inefficiente e corrotto non deve portare al giustizialismo, un giustizialismo che avrebbe conseguenze disastrose sulla nostra economia. L’economia italiana si finanzia principalmente con il credito bancario. Se la crisi bancaria continua, continua anche la crisi economica. Sia il mio articolo del 24/12, sia l’articolo del 30/12 scritto insieme a Luigi Guiso, sia il mio post dell’1.01 insistevano su questo tema, che mi sembra il problema più grave che ha l’Italia in questo momento.

È un problema che il Governo ha ben presente. Ha cercato di risolverlo con un enorme colpo di spugna chiamato “bad bank”,  in cui tutti i prestiti clientelari venivano scaricati sui contribuenti. La UE si è opposta perché in violazione delle norme contro gli aiuti di stato. Fin dall’inizio ho cercato di spiegare come si potesse fare una bad bank senza colpi di spugna, ma il problema rimane: senza un sistema bancario funzionate l’Italia non riparte.

Io voglio rimettere in pista il sistema bancario, senza un colpo di spugna. Il giacobinismo anti-banche serve solo ad aggravare la crisi e più la crisi economica si aggrava, più si avvicina il momento in cui tutti a gran voce invocheranno il colpo di spugna per far ripartire l’economia. Chi lo pratica è un utile idiota o, peggio, è al servizio di chi non aspetta altro che un colpo di spugna?

Perché ora sostengo una moratoria (condizionata) del bail in

Urlare “al fuoco, al fuoco” senza motivo in un teatro affollato non è solo da irresponsabili: è un crimine. Se però esiste un principio di incendio, svignarsela alla chetichella, senza avvertire nessuno è altrettanto criminale. Quando si tratta di crisi bancarie, invece che di teatri in fiamme, si aggiunge il problema che il grido “al fuoco, al fuoco” può causare l’incendio stesso o almeno il suo propagarsi. Un motivo per essere più prudenti, ma non per essere muti e ciechi di fronte ai focolai esistenti. Questo è il dilemma che hanno oggi di fronte giornalisti e opinionisti: calmare la gente a costo di mentire (e di coprire le malefatte passate) o dire la verità, con il rischio di far precipitare la crisi?

A peggiorare ulteriormente la situazione c’è chi soffia sul fuoco da entrambi i lati. Da un lato c’è chi copre i focolai esistenti, per mantenere lo status quo e occultare i misfatti passati.  Dall’altro, c’è chi – per farsi pubblicità o per motivi politici – aumenta l’allarme dichiarando che tutti i depositi sono a rischio, non capendo (almeno si spera che non lo faccia con dolo) che in questo modo è funzionale alla preservazione dello status quo: maggiore è il rischio di una crisi globale, maggiori saranno le pressioni per coprire tutto.

Nel mio piccolo, io cerco di percorrere una strada diversa, dicendo la verità – almeno quella che io ritengo sia la verità – senza scadere nell’allarmismo.  Proponendo vie d’uscita che ritengo eque ed efficaci. Potrò sbagliarmi, ma sempre con un unico interesse in mente: quello del Paese. Data questa importante premessa, ora vi spiego perché ho scritto con Luigi Guiso un pezzo sul Sole 24 Ore (qui il testo) a favore di una moratoria (condizionata) sul bail in e perché l’ho scritto solo il 30 di Dicembre.

Tutte le banche italiane sono fortemente indebolite da 7 anni di crisi. Data la severità della crisi è sorprendete che ci siano ancora banche sane, non che qualcuna sia malata. Ma la crisi economica non è l’unico motivo della crisi bancaria. Molte banche si sono indebolite con prestiti clientelari e hanno occultato per anni le perdite, senza che la vigilanza di Banca d’Italia avesse il coraggio di esporre il problema. Ma se le banche sono sopravvissute nonostante tutto, è anche perché hanno sempre piazzato una grossa quota dei loro titoli alla clientela, spesso a tassi d’interesse inferiori a quelli di mercato. In altre parole hanno abusato della fiducia dei depositanti, con il silenzio compiacente di Consob e Bankitalia che, in nome della stabilità del sistema, non hanno avuto paura di sacrificare i risparmiatori (alla faccia della Costituzione). Sia Guiso che io abbiamo denunciato questo, ciascuno per le proprie competenze: vedi qui e qui .

Sia il trasferimento della supervisione dei maggiori istituti a Francoforte che le nuove regole del bail in hanno avuto il beneficio di mettere in luce la gravità del problema. Come ho scritto nel 2014 e nel 2015,  è grazie alla vigilanza di Francoforte che sono emersi i crediti dubbi in Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Ed è grazie alla pressione delle nuove regole di bail in che le perdite delle quattro banche recentemente fallite non sono state scaricate sui contribuenti.  Per questo non solo non mi sono opposto alle regole europee, ma le ho anche sostenute. E continuo a sostenere che – in un mondo in cui i bond bancari sono detenuti da investitori istituzionali e la banca centrale fa bene il suo mestiere di prestatore di ultima istanza – le regole di bail in (opportunamente completate da un’assicurazione europea sui depositi) siano giuste.

Purtroppo non siamo in questo mondo. La Germania si rifiuta di approvare un’assicurazione europea sui depositi e questo acuisce il sospetto che quando la BCE dovrà intervenire da prestatore di ultima istanza con le banche italiane, la Germania opporrà il veto. Come se non bastasse, molte banche italiane continuano a piazzare i loro titoli alla clientela. In questo contesto le perdite sui subordinati non sono che l’antipasto. Il rischio di perdite sui bond diventa reale e i tassi di interesse sui bond quotati delle banche a maggiore rischio lo stanno riflettendo. Questo aggiustamento è salutare, ma se fatto in modo repentino rischia di uccidere il malato. Come ho scritto nel mio articolo con Guiso, nel peggiore (e meno probabile) dei casi rischia di creare una corsa agli sportelli che uccide il nostro sistema bancario, nel migliore (e più probabile) di bloccare i prestiti all’economia per un paio d’anni, uccidendo qualsiasi speranza di ripresa.  Questa situazione è precipitata dopo il fallimento delle quattro banche regionali e dopo il rifiuto della Germania di introdurre un’assicurazione europea sui depositi. Per questo oggi, con l’informazione esistente, non sarei professionalmente onesto se non mettessi in luce i rischi che l’Italia corre e non farei adeguatamente il mio mestiere di economista se non proponessi delle soluzioni, anche quando non mi piacciono esteticamente, se rappresentano il male minore.

Alcuni hanno visto nella mia richiesta di una moratoria, un desiderio di coprire gli errori passati delle banche e della vigilanza bancaria. È vero il contrario. Più il panico si diffonde e più ci verrà detto che non si possono investigare gli errori passati per non minare la fiducia nel sistema. Io penso che si debba mettere temporaneamente in sicurezza il sistema bancario e permettere ad una vera commissione di inchiesta di far piena luce sui comportamenti passati. Sono stato il primo a chiederla e continuo a sostenerne la necessità. Ora il Presidente del Consiglio Renzi l’ha promessa e deve mantenere questa promessa. Ne va della sua credibilità politica.