Il mercato va difeso anche da Google

Testo dell’articolo pubblicato su L’Espresso del 26.03.2015 con il titolo “Quelle carte segrete che accusano Google”

«Non essere cattivo», scriveva l’amministratore delegato di Google al momento della quotazione. E aggiungeva «i nostri risultati di ricerca sono i migliori che siamo in grado di produrre. Sono imparziali e oggettivi. Non accettiamo pagamento per questi risultati, per la loro inclusione, o per aggiornamenti più frequenti». Undici anni dopo Google ha mantenuto la promessa?

A guardare il risultato del procedimento antitrust in America sembrerebbe di sì. Nel gennaio del 2013 la Federal Trade Commission americana decise di archiviare con voto unanime dei commissari una indagine antitrust nei confronti di Google. La società aveva festeggiato dichiarando «il personale e tutti i cinque commissari della Ftc hanno convenuto che non vi era alcuna necessità di intervenire sul modo in cui classifichiamo e presentiamo i risultati delle nostre ricerche. La speculazione sul potenziale danno per i consumatori si è rivelata del tutto sbagliata».

Nei giorni scorsi, però, lo studio effettuato dell’Ftc nel 2012 è stato inavvertitamente consegnato (con altri documenti) al “Wall Street Journal”. La storia che ne emerge è completamente diversa. Lo studio della Ftc dimostra che Google «strategicamente riporta più in basso o rifiuta di visualizzare i link a certi siti web in settori altamente competitivi» e che ha «infranto la legge antitrust impedendo ai siti web che pubblicano i suoi risultati di ricerca di lavorare anche con rivali come Microsoft Bing e Yahoo Inc». Lo staff della Ftc conclude che «il comportamento di Google ha portato – e porterà – un danno reale per i consumatori e per l’innovazione».

Ma come è possibile che da uno studio così si arrivi ad una decisione unanime di abbandonare la causa contro Google? Un motivo è che gli stessi ricercatori temevano di non riuscire a vincere la causa contro i potenti avvocati di Google. Il secondo motivo è che Google è molto popolare. La maggior parte di noi (me compreso) usa il suo meccanismo di ricerca gratuitamente molte volte al giorno. Per di più, lo facciamo liberamente, perché alternative come Bing o Yahoo sono letteralmente a portata di click. Perché mai l’autorità antitrust dovrebbe far causa e potenzialmente punire Google?

In America essere bravi non è reato. Quindi ottenere una posizione dominante nel mercato dei motori di ricerca non è contrario ad alcuna norma se questa posizione è ottenuta grazie alla superiorità del proprio algoritmo. Quello che è vietato, invece, è utilizzare questa posizione dominante per catturare altri mercati. In altre parole, se domani Google decidesse di fare pagare un euro a ricerca, nessuno potrebbe dirgli niente. Ma se Google usa il suo motore per favorire la sua agenzia di viaggio, questo, sì, è un problema. Si tratta di abuso di posizione dominante, un abuso che danneggia i consumatori perché altera le condizioni di mercato e rallenta l’innovazione. Altera il mercato perché Google Travel non prevale perché più brava, ma solo perché legata a Google. Rallenta l’innovazione perché nuove imprese non entreranno mai in un mercato in cui possono essere stracciate da Google anche quando Google ha un prodotto inferiore.

Negli anni ’90 Microsoft era stata accusata dello stesso reato: sfruttamento della posizione dominante sul mercato dei sistemi operativi al fine di monopolizzare il mercato di software come Excel, Word, Outlook. Fu proprio la causa antitrust contro Microsoft che favorì la nascita di nuove imprese come Safari e Google.

Qui sta la differenza tra essere pro mercato ed essere pro business. Chi difende il mercato, lo difende sempre, perché sa che la libera concorrenza è il migliore meccanismo per produrre un benessere diffuso (se abbiamo Google è anche grazie alla causa contro Microsoft). Chi invece è pro business, difende gli interessi delle imprese esistenti. Questi interessi possono coincidere con l’interesse del mercato (generalmente quando le imprese sono nascenti come Google negli anni ’90), ma poi, quando le imprese diventano grandi e potenti, vanno nella direzione di ostacolare la concorrenza.
Per questo il capitalismo va salvato innanzitutto dai capitalisti.