La rabbia dei bianchi è benzina per Trump

Articolo pubblicato su L’Espresso

Il miliardario è molto popolare tra coloro che più hanno pagato la crisi economica. Ma la sua ricetta non li favorirà. E farà aumentare il deficit.

Un comizio di Donald Trump a Chicago è stato rinviato per disordini. A S. Louis si è tenuto nonostante i tafferugli. In North Carolina un sostenitore di Trump ha sferrato un pugno in faccia ad un manifestante di colore che veniva allontanato dalla polizia. Gli Stati Uniti non sperimentavano questo livello di violenza politica dalla lotta per i diritti civili dei neri. Ad essere arrabbiati, però, questa volta sono i bianchi. In un sondaggio dello Stigler Center (che io dirigo) dell’Università di Chicago, si vede che – per dato livello di reddito – i bianchi sono più arrabbiati per la situazione economica di quanto lo siano i neri. Tra i livelli di reddito basso (tra i 10 e i 25 mila dollari) il 46 per cento dei bianchi si dichiara arrabbiato o molto arrabbiato. Solo il 30 per cento dei neri risponde in questo modo. Lo stesso divario si presenta, anche se a livelli inferiori, tra i più ricchi (tra i 100 e i 200 mila dollari): il 30 per cento dei bianchi è arrabbiato, contro il 17 dei neri. Questa rabbia non è un fatto nuovo: nel 2012 gli arrabbiati erano il 47 per cento della popolazione, contro il 36 di oggi. Ma nel 2012 nessun candidato era riuscito a impersonare questa rabbia, oggi c’è Trump.

La rabbia dei bianchi meno abbienti nasce dalla disperazione. La competizione internazionale ha ridotto il loro reddito, mentre il progresso sociale – che ha introdotto maggiore parità razziale – ha ulteriormente minato le loro prospettive di mobilità sociale. Si sentono perduti e per questo sono attirati dalla prospettiva di un leader forte come Trump. Il suo slogan – rendi l’America di nuovo grande – è un messaggio in codice per i bianchi frustrati, suona come “riprendiamoci il potere dopo otto anni di presidenza di un nero”.

Slogan a parte, però, non è chiaro cosa Donald Trump voglia fare per eliminare il malcontento alla base di questa rabbia. Né il magnate si è sprecato molto a spiegarlo, limitandosi ad una sorta di “ghe pensi mi” di berlusconiana memoria. A differenza di Berlusconi, però, Trump non è entrato in politica per difendere le proprie aziende o ripararsi da possibili problemi giudiziari. Quindi se volesse potrebbe diventare il tribuno del popolo bianco arrabbiato. Ma lo vuole?

A giudicare dalla riforma fiscale proposta sembra di no. Trump vorrebbe portare l’aliquota per le imprese al 15 per cento e quella massima per le persone fisiche al 25, una riforma che favorirebbe i ceti più abbienti aumentando il deficit fiscale di quasi il 7 per cento del Pil.
Molto più indirizzata agli interessi della sua base elettorale è la politica commerciale. Dalle tariffe sulle importazioni cinesi, al muro contro gli immigrati, Trump vuole rallentare se non invertire il processo di globalizzazione. Le sue proposte rischiano di innescare una spirale protezionista in tutto il mondo, come accadde negli anni Trenta. Anche riuscendo ad evitare questa spirale, l’effetto complessivo sull’economia americana sarebbe negativo: le tariffe sull’import farebbero lievitare i prezzi, riducendo i salari reali dei lavoratori. A beneficiarne sarebbero solo poche categorie di operai, che vedrebbero ridursi il rischio di perdere il posto di lavoro. Ma questa è proprio l’essenza del populismo radicale: pur di favorire i ceti popolari è disposto a sacrificare il benessere complessivo.

Anche la politica estera isolazionista di Trump andrebbe a favore della sua base elettorale, che fornisce all’esercito la stragrande maggioranza di soldati (e di caduti). Se l’isolazionismo si traduce anche in una riduzione delle spese militari, il deficit fiscale verrebbe ridotto, ma mai abbastanza: il taglio delle imposte è più di due volte l’intera spesa per la difesa.

Per favorire le prospettive di reddito della sua base elettorale Trump potrebbe anche aumentare la spesa per infrastrutture: le costruzioni impiegano molta manodopera poco qualificata. Così facendo Trump finirebbe per favorire anche se stesso e le sue imprese di costruzioni, ma andrebbe ad accentuare il problema del deficit.
Deficit a parte, non penso che le politiche economiche di Trump avrebbero effetti devastanti sull’economia americana. Li avrebbero però per gli equilibri politici mondiali, a cominciare dal Medio Oriente. A perderci saremmo soprattutto noi europei.

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